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Autore: philousophie    24/04/2018    0 recensioni
Quando James entra nella stanza, sa di aver fatto una promessa. Sa di avere il dovere di raccontare tutto, anche se il suo interlocutore non avrebbe mai potuto capire. Somigliava a uno di quei personaggi dei film che scavano affannati nelle tombe per trovare qualcosa in particolare, e James sapeva riconoscere il fatto che fosse un paragone piuttosto bizzarro. Calzava a pennello.
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sessione di scavo
 
«Ciao, James. Prego, siediti.»
Risposi al saluto con un semplice cenno del capo e accompagnai la porta per evitare che sbattesse. Non sopportavo i rumori forti e improvvisi. Scrutai la stanza cupa sospettoso e, dopo essermi assicurato che tutto fosse al suo posto, seguii il consiglio e mi sedetti. Somigliava più a un ordine un po’ camuffato che a un vero consiglio, in effetti, ma non pensavo che fosse troppo importante. C’erano molte cose che non erano più importanti, a quel punto della mia vita. Cosa c’era di importante?
«Come ti senti oggi?»
Agitai con forza la testa, per scuotere via i miei pensieri e concentrarmi sulla domanda. Come mi sentivo? Bene, ovviamente. Per quale motivo non avrei dovuto sentirmi bene? Che strana domanda. La sua, intendo, non la mia. Dov’eravamo?
Oh, giusto.
«Bene, grazie. Mi sento bene. Lei come sta?»
Il mio interlocutore sembrò accennare un sorriso. Non riuscii a capire se fosse divertito da qualcosa che avevo detto o se fosse soltanto una persona simpatica. Avevo sempre pensato che fosse simpatico, sin dal primo momento, anche se mi dava l’aria di essere uno di quei personaggi dei film che scavano affannati nelle tombe per cercare qualcosa in particolare. Un paragone bizzarro, devo ammetterlo, ma penso ancora che calzasse a pennello.
«Ricordi ciò di cui abbiamo parlato l’ultima volta?»
Ricordavo in modo piuttosto vago il nostro incontro precedente. Ricordavo che avevamo parlato degli snack al burro di arachidi e dell’ultima partita di hockey della squadra della mia scuola, che aveva perso. Soprattutto, però, ricordavo ciò che voleva che ricordassi. «La promessa.»
Il mio terapista sorrise ancora, bonario. Era davvero un uomo simpatico. «Giusto, la promessa. La manterrai?»
Con quella domanda, capii che lui non si fidava di me. Questa cosa mi offendeva. Gli avevo promesso che gli avrei raccontato tutto e avevo intenzione di farlo, anche se non avrebbe capito, perché mi era simpatico. D’altro canto, il fatto che non avrebbe capito era il motivo per cui non gliel’avevo ancora detto, ma probabilmente nulla avrebbe potuto cambiare la situazione in cui mi trovavo – che non mi era del tutto scomoda, in fin dei conti – e quindi era giusto che lo sapesse, come premio per la sua simpatia. Era davvero uno di quei personaggi che scavano nelle tombe, con la sola differenza che la tomba era la mia testa e che lo scavo era troppo voluto da mia madre perché mi andasse bene. Forse se non lo avesse voluto lei non mi avrebbe dato così fastidio il fatto che stesse scavando nella mia testa. Era così divertente scavare nella mia testa?
«Da dove vuole che inizi?»
L’uomo si strinse nelle spalle, come se volesse banalizzare la domanda. Sapevamo entrambi dove voleva arrivare, ma gli permisi di condurre il gioco.
«Raccontami di te.»
«Lei sa già tutto di me.»
«No, non è vero. Conosco la tua storia, ma voglio sapere chi sei davvero. Dimmi che cosa ti piace e  che cosa non ti piace.»
«Oh.» Esitai, sull’attenti. Avevo paura che volesse fregarmi, ma cercai di rilassarmi. Una promessa è una promessa. «Mi piacciono i cappellini da baseball ma non quelli da tennis. E mi piacciono le patatine al formaggio.»
«E poi?» Incalzò.
«Mi piacciono le gomme da masticare alla fragola, ma non quelle alla menta. Mi piacciono gli armadietti della scuola, i biglietti del cinema. Mi piace vincere le partite, non mi piace perderle.»
Il terapista sorrise di nuovo. «Beh, quello non piace a nessuno. Vai avanti.»
«Mi piacciono i campeggi. Mi piace la montagna ma non il mare. Mi piace la mia bicicletta.»
Trattenni il respiro. Lui mi fece un cenno, come per spingermi a continuare.
«Cassie.»
Chiusi gli occhi e sbuffai via l’aria che avevo trattenuto. La vedevo, Cassie, con il suo vestito rosso e i fermagli rossi tra i capelli biondi. Mi bastava chiudere gli occhi per riuscire a vederla, ogni volta. La sua immagine era spesso confusa, sfumata, ma lei era sempre lì. Non mi lasciava mai.
«Cassie ti piace o non ti piace?»
«Cassie mi piace. E a lei piacciono le penne colorate, il sole e la danza. Però non le piace il venerdì.»
«Perché a Cassie non piace il venerdì?» Il mio terapista sembrava perplesso. Lo capivo bene! A tutti i ragazzi piace il venerdì, tranne a Cassie. A Cassie no.
«I suoi genitori non stanno più insieme. Una volta me l’ha raccontato, perché siamo amici. Lei trascorre tutti i fine settimana con suo padre, ma lo odia. E lui odia lei, ma deve stare con lei per forza, perché è suo padre. Però la rimprovera sempre. Quindi quando torna a casa durante la settimana lei è felice, mette le cuffie nelle orecchie e canticchia. Quando deve tornare con suo padre, il venerdì, è sempre triste. Io aspetto che vada via prima di andare a casa, e la vedo appoggiare la fronte al finestrino e chiudere gli occhi sperando che finisca presto, mentre suo padre si arrabbia con lei.»
La vedevo di nuovo. Era sfocata, ma vedevo la sua sofferenza, e quell’immagine mi dilaniava il petto. Sentii delle lacrime scorrermi sulle guance, ma le ignorai. Ecco cos’era importante: la felicità di Cassie. Se Cassie non era felice, non c’era nulla di importante.
«Perché si arrabbia con lei? Te l’ha raccontato?»
«Non lo so. Non so come ci si possa arrabbiare con lei, è così bella.» Mi asciugai le lacrime. «Sono innamorato di lei, sa.»
L’uomo si fece improvvisamente serio. L’aria bonacciona e il sorriso simpatico erano scomparsi e ora mi fissava, seduto dritto sulla sua scomoda sedia di plastica, mentre smetteva di picchiettare con le dita sul tavolo grigio che ci separava.
«Tu non la ami, James. Tu l’hai uccisa.»
Quella frase mi schiaffeggiò. Non poteva dire che non l’amavo: l’avevo fatto per lei. La vidi ancora, molto più nitida, con il suo vestito rosso, e il vestito rosso diventò un vestito di sangue e anche i fermagli rossi tra i capelli erano fermagli di sangue, ma lei mi guardava, per l’ultima volta, ed era sollevata. Sono certo che fosse sollevata. Non poteva non essere sollevata. Io l’amavo e l’avevo liberata.
«Non sopporterà mai più un venerdì.»
Sentii lo scorrere delle sbarre. Sessione di scavo terminata.
   
 
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