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Autore: Avareil    25/04/2018    3 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Va bene, fine dei giochi: Estia sei impazzita.
Adesso siediti in un angolo, prendi la tua bella testolina tra le mani e inizia a dondolare avanti e indietro.
Non sollevare lo sguardo, non osare guardarlo.
Non osare.
Non osare, ho detto!

Estia osservava basita, incredula e sconvolta ai limiti della rigidità fisica e mentale, l’essere palesatosi così, dal nulla, e ora, steso ai suoi piedi.

Radamanto.

Radamanto, il giudice dell’Averno, il suo povero demone, era veramente davanti a lei? Era veramente lui quell’ entità sfinita e pallida, lunga e rigidamente addormentata al suo cospetto?

Chi, quale dio le concedeva un simile dono?

Dono?

Ma hai idea di come tu sia ridotta? Quel disgraziato impazzirà di dolore al primo sguardo che oserà posare su di te, misera e infelice!

Profonde occhiaie viola, labbra secche e spaccate in più punti, viso sporco, livido ed emaciato, sgombro di capelli oramai rasati: questo ciò che avrebbe visto quel giudice una volta riguadagnata la consapevolezza di sé.

Terrorizzata da quel pensiero, impietrita da quella considerazione, Estia aveva tenuto ferocemente a bada il desiderio si stringerlo a sé e farlo rinvenire tra le sue braccia.

Anche lei sapeva, pur non vedendosi da tempo, quanto misero potesse essere il suo aspetto, quanta pietà avrebbe potuto colmare il cuore del giudice, quale rabbia avrebbe potuto renderlo alieno alla ragione.
In quelle condizioni, ricoperta di fango e disperazione, sarebbe stata capace di traumatizzare perfino una pietra.
Un riso amaro le aveva incurvato le labbra macchiate di sangue secco e, mosso un passo indietro, si era voltata in modo tale da dar le spalle al giovane giudice ancor dormiente ai suoi piedi.

“Radamanto…Radamanto…”

Un bisbiglio sottile aveva bussato alle porte della sua coscienza e, come il sibilo di un serpente seducente, aveva risvegliato un’immagine, la sua immagine, tanto vividamente da forzarlo ad aprire le palpebre.

“Estia?”, un gemito, il grido strozzato e stanco di chi insegue un ricordo evanescente e lontano.

“Estia…”, Radamanto, con una mano al volto, aveva nuovamente invocato la dea benevola: gli occhi, annebbiati dal velo sottile della malia di Ipnos, erano offesi e incapaci di scorgere figura alcuna.

“Si, sono qui, a un passo da voi, sciocco giudice”.

Anche nell’oscurità più fitta, cieco e lontano dall’oggetto della sua pena, avrebbe saputo dare un volto a quella voce che, amabile, si insinuava nell’orecchio per correre, libera e folle, verso il cuore. Era come vederle distintamente: le labbra, che ancora morbide e rosee, si arcuavano in un sorriso leggero, e le parole, calibrate e mai eccessive finanche nell’affetto, lo riscaldavano dentro, disperdendo il gelo della morte.
Avrebbero potuto mentirgli, avrebbero potuto tentar di convincerlo che no, no, quella non era Estia, non la sua Estia; che nel buio, oltre la parete del sogno, qualcuno, il Fato, Ipnos, gli dei o qualsiasi entità, si facevano beffe di lui e dei suoi sentimenti e che quella, no, non era lei.

Ma non ci avrebbe creduto.

Anzi.

In quel che i suoi occhi non riuscivano a scorgere, trovavano conferma tutti gli altri sensi.

Quella non poteva non essere Estia.

Tolta la mano dal volto, aveva scrutato con attenzione l’antro tetro nel quale si trovava -se non era più nelle camere profumate d’incenso, dominio del terribile Ipnos, dove si trovava?-

Fino a che punto aveva desiderato udire quella voce se adesso, ancora perso nei dubbi, gli sembrava di udirla distintamente?

“Non state delirando, giudice”.

Ancora lei, voce inconsistente nell’ombra.

Armato di coraggio, non riuscendo ancora a proferir alcun verbo, aveva mosso prima un passo, poi un altro e ancora ne avrebbe compiuti se una mano, protesa in avanti e alla ricerca di un qualcosa, non avesse sfiorato quello che pareva il profilo emaciato e curvo di un piccolo, piccolo, essere.

“No, vi prego, non siete voi, non così ridotta, non così trattata”, con il sangue gelato nelle vene dal terrore e dalla miseria che sentiva annichilirlo dal di dentro, Radamanto si era abbandonato in ginocchio; le mani artigliate alle vesti logore della dea ancora voltata di spalle.

“Si, sono Estia, la dea che ancora non è stata vinta dalla morte. Non piangente al mio cospetto, sono ancora viva”.

“Voltatevi, lasciate che nell’oscurità i miei occhi possano scorgere il vostro viso, vi prego mia dea, vi prego come il più misero degli esseri”, le mani, saldamente intrecciate alla veste, premevano affinché la dea si muovesse verso di lui: un invito, una preghiera a rivolgere su lui, misero e supplicante, il volto amato e disperatamente cercato.

“No, non posso, non osate voltarmi, non pregatemi. La mia immagine è turpe come questo luogo che mi imprigiona e sebbene nessun crimine sia stato commesso, oramai il mio corpo è pregno di sofferenza e curvo per il dolore”.

Sul limitare senza ritorno di un pianto disperato, Estia aveva implorato a sua volta, mentre le mani, piccole e ossute, si spingevano alla ricerca di quelle forti e artigliate sulle sue vesti: la prima carezza, la prima volta in cui riusciva nuovamente a percepire il senso d’umanità che le era stato strappato via con violenza.

Quel tocco, delicato e gelido, aveva agito direttamente sul cuore del secondo giudice che, ora pervaso da una strana ira, aveva stretto le sue mani con ancor più forza su quelle vesti di cui adesso, avvicinato il viso, riusciva finanche a sentire l’odore fatto di morte, lacrime e disperazione.

Per questo motivo aveva dovuto trattenere il fiato, contare mentalmente per un’infinità di numeri, prima di domandare, con voce più tetra del buio mortifero, cosa le fosse stato fatto, chi avesse osato trapparla alla vita e come, come si fosse convinta a fuggire via da lui, per andare incontro a quel fato bastardo.

Intimorita e al contempo incapace di provare paura o timore dinnanzi a quell’avernale spaventoso, Estia aveva stretto ancor di più le mani su quelle di lui: unico modo di trasmettere il suo amore pur rimanendo saldamente voltata di spalle.

“Ho semplicemente seguito la strada che mi era stata indicata dal Fato, questa cella che vi vede ospite, accoglierà me in eterno…perché sono venuta meno al mio voto. Ho desiderato con tutto il mio cuore avere un futuro felice, diverso, non solitario e siete arrivato voi e anche se per poco, pochissimo, mi avete fatto dono di splendidi ricordi”.

“Siete una stupida. Una stupida ed infelice dea che crede ancora alla benevolenza del cosmo e alla correttezza del creato. Vi avevo già avvertita, vi avevo supplicata di essere accorta, di non lasciarvi travolgere da parole decorate e alti ideali: nessun’entità celeste prova pietà di voi. Lo Stige, il Fato giocano solo il loro gioco in una lotta di interessi. Zeus…vostro fratello-“

“Non dite oltre, vi prego. Non dite oltre”.

“Vostro fratello vi ha venduta-“

“Ho detto di non dire oltre!”

Un grido di sofferenza aveva messo a tacere il furioso Radamanto mentre la dea, scossa da visibili brividi, si era ancor di più curvata su se stessa fino a che, stanca e afflitta, si era ritrovata anch’ella al suolo, in ginocchio e sconvolta da forti tremiti.
Solo vedendola in quello stato, piegata e sofferente, Radamanto aveva deciso di frenare la lingua, di mordersi l’interno della guancia, di calare il capo in segno di scuse e di protendersi verso quel mucchio fatto di carne e ossa spigolose, iniziando un lento percorso esplorativo su quel corpo distrutto, toccato dalla sventura.

Una carezza amorevole per lei,

bile nera e veleno iniettato in vena per lui che, al tatto, alla vista e all’odorato, la sentiva violata.

La pelle era gonfia, in alcuni punti lacera, in altri ruvida per colpa della terra e del sangue secco ed incrostato. Una mano si era poi allungata sulla schiena esposta e scossa da singhiozzi e, con dolore, aveva avuto modo di percepire distintamente gli anelli della spina dorsale far capolino sotto lo strato sottilissimo e tirato di epidermide.
Estia, immobile per quanto possibile, era rimasta in silenzio, stretta in un abbraccio e incurvata: era quella la posizione in cui era solita passare la maggior parte del tempo, in solitudine ed abbracciata a se stessa. Gemeva per la vergogna e il dolore di sapersi esposta e mostruosa per colpa della prigionia; eppure non voleva tormentare anche lui, povero infelice che, come lei, si ritrovava coinvolto in un piano ben più grande di lui, di loro.

“Vedrete, starò bene. Nessuno potrà mai piegarmi, nessuno potrà mai spegnere il mio fuoco”.

La dea aveva impercettibilmente volto il capo verso il silenzioso essere alle sue spalle.

Non l’aveva sentita?

Dinnanzi a quel lungo silenzio, ella si era stretta nelle spalle, triste e desolata per quella che sapeva essere una difficile e irrealizzabile speranza.

“Dovete”.

I pensieri di Estia erano stati frenati da quell’unica parola pronunziata a mo’ di monito: le labbra strette e tremati del giudice, avevano formulato quell’imperativo categorico mal celando la rabbia e lo sdegno e il sentimento d’impotenza che gli facevano fremere le mani.

“Dovete resistere, dovete sopportare questo tormento. Dovete”.
Radamanto aveva mormorato quell’ultimo lemma come una preghiera, a mezza voce, un bisbiglio annientato dalla paura della perdita.

“Radamanto…”.

“Voltatevi”.

“No, vi prego, giudice-“ la dea, visibilmente provata, aveva scosso il capo spoglio con fare di diniego avvertendo subito il vuoto lasciato dalla mano dell’avernale, ritratta dalla schiena a quell’ennesimo rifiuto.

“Avete il timore che, guardandovi in queste condizioni, la mia rabbia e il mio sdegno possano condurmi al compimento di una qualche azione scellerata?”.

“Radamanto, vi imploro, l’essere che avete davanti è il vuoto involucro di un animo punito dal Fato e, giusto o ingiusto che sia, io conosco il vostro cuore e finireste per tormentarvi quando, in realtà, avete fatto solo bene alla mia povera esistenza solitaria”.
Quella mano, prima ritratta, al suono di quelle parole l’aveva delicatamente afferrata per una spalla sottile e, facendo una leggera pressione, la invitava a voltarsi.

“Non è questo ciò di cui dovete preoccuparvi. Il mio cuore è nero, impregnato di morte, ma se voi resistete, se voi mi fate dono anche di un solo sguardo, allora io placherò il mio tormento e mi rassegnerò all’attesa, ma non potete negarvi per paura che io mi disperi.

Sono già disperato”.

A quel punto, solo quando aveva percepito un brivido correre lungo la schiena sottile della dea, egli aveva fatto la sua mossa e con la delicatezza di un innamorato e il dolore di un animo tormentato, l’aveva avvolta in un abbraccio delicato e stretto: schiena contro petto, braccia annodate per non volerla lasciare mai, il respiro mozzo a solleticare l’orecchio.

“Rimanete di spalle se volete, lasciate le braccia al suolo se non volete ricambiare la stretta ma vi prego, vi prego, non lasciatemi ancora, non fuggite ancora”.

Angosciato dalla possibilità di un'altra fuga scriteriata, Radamanto aveva pregato col cuore gonfio di angoscia la dea che, riscaldata da quel corpo, gelido eppure fonte di un calore senza eguali, aveva nuovamente iniziato a singhiozzare.

“Questo nostro incontro è temporaneo, una visita concessa da qualche genio benevolo. Ipnos? Tanathos? Non importa, a breve andrete via e io resterò qui a scontare la mia pena. Io…Io non ho scampo ma voi, voi povero Radamanto, siate felice anche per me e fuori da queste nere pareti, ravvivate il mio fuoco-
è l’ultima preghiera che vi rivolgo: non osate levare la mano contro il cuore che sento battere con tragica disperazione, anzi nutritelo di speranze e nutrite il mio focolare. Vi sarò vicina così, come la fiamma che non si è mai spenta”.

“Allora sarò io a tornare”.

“No, ve lo proibisco”.

“Sarò io a tornare, e tornerò ancora e ancora finché non sarete voi a ravvivare il fuoco del vostro tempio. Tornerò in qualche modo, supplicherò il sovrano dell’Averno, implorerò i geni benevoli, farò tutto ciò che è in mio potere per voi, perché sono già morto e non ho alcuna intenzione di continuare a morire ogni istante per colpa della vostra assenza”.

Ma, a quel punto, il giudice aveva iniziato a sentir venir meno le forze: la vista si oscurava, le orecchie si spegnevano e il respiro, tormentato, si faceva più lento e inconsistente; a quel punto l’aveva stretta ancor più forte contro il suo petto.

“Vi supplico, aspettatemi e… e se non facessi ritorno invocate le Erinni, vendicatrici dei patti, e ordinate loro di darmi il tormento. Vi scongiuro, signora, vi imploro, non lasciate che io fallisca il mio compito, perché la mia vita è già dell’Averno, ma nemmeno l’Erebo riuscirebbe a contenere il mio animo macchiato di questa colpa vergognosa”.

Un bacio, un bacio lasciato sul capo della dea, adagiata contro il petto del giudice in un abbraccio che non lasciava via di fuga.

“Tornate da me, non lasciatemi solo…”

Debole, aveva sentito le mani cedere, le braccia allungarsi lungo i fianchi e le gambe, ancora piegate in ginocchio, perdere la forza di sostenerlo: si era lasciato cadere all’indietro, stanco e travolto da un’angoscia terribile.
 
Tra il sonno e la veglia, con gli occhi socchiusi e rivolti verso il tetto nero della cella microscopica, l’aveva, infine, vista.
Ella, con un gemito strozzato in gola, si era voltata e con le braccia protese lo aveva afferrato per il bavero della veste accompagnandolo morbidamente al suolo e, in quell’abbraccio intriso di pietà, l’aveva condotto con un bacio fino alla sponda del sonno.
 
 


°°°

Rivestita di stracci, tumefatta in volto e con la pelle lacera in più punti, aveva artigliato, mossa da disperazione, la scoscesa parete che la separava dal cielo nero e spento.

La puzza di zolfo si era fatta tanfo appiccicoso e sudicio incrostato sull’epidermide, il gelo del vento le fustigava il volto livido in un costante castigo.

Quanto scempio avevano visto i suoi occhi?

Quanta malvagità aveva riempito il suo animo, inebriandola di folle cattiveria?

L’odio, serpente giallo e velenoso, le serrava il misero cuore rendendola incapace di un qualsiasi ragionamento: era folle, folle e spregevole.

Un animale incattivito dall’esistenza.

Era forse colpa sua se si era innamorata?

Poteva qualcuno forse biasimare il suo comportamento?

No. Lei non aveva nessuna colpa. Nessuno avrebbe potuto puntare il dito contro di lei.

Questo credeva.

Di questo era profondamente convinta, e mentre con forza e sofferenza si inerpicava per la salita irta e ricoperta di punte acuminate, un’ira cieca riempiva le cavità del suo corpo vuoto.

Era solo una succube, demone inferiore delle piane d’Averno, che colpa aveva lei se il destino, beffardo e maligno, l’aveva resa succube a sua volta di un amore irrazionale?

Poteva forse incolpare lui?

No.

Nemmeno lui aveva colpa.

Il suo cuore, serio e giusto, non avrebbe mai operato quella scelta e anche se le parole rivoltele erano state perentorie e apodittiche, ella non poteva non biasimare unicamente il Fato che, mosso dall’egoismo dei potenti, le aveva strappato via il suo uomo.

Persefone

Quel nome, masticato tra i denti e sputato con sdegno, le riempiva la mente offuscandola e intorbidendola.

Persefone, la dea rapita e legata all’Averno.

Con un moto di stizza aveva afferrato un appiglio sulla parete: il solo pensiero che il suo gesto avesse sortito l’effetto contrario la mandava letteralmente in bestia.
Distogliendo a forza i pensieri dall’esito delle sue precedenti azioni, Menta aveva infine raggiunto la sommità della scoscesa montagna e da lì, stanca e sporca, aveva ammirato l’immenso cielo dell’Averno e, con esso, le lunghe mura di cinta poste a difesa dalla sponda del giudizio.
Un brivido le aveva percorso la spina dorsale al solo ricordo di quanto successo presso quei luoghi: la mano di Ade che le serrava la gola, la furia di quel dio placata unicamente dal pensiero della sua bella preda del Flagetonte, demoni che la circondavano per tradurla in catene presso il nero Tartaro.
Eppure, in tutto quel dolore, la speranza che ancora un briciolo di affetto li legasse era stata nutrita da quella scelta: la preferiva viva ma segregata nel luogo più restio alla vita, piuttosto che saperla morta.

Come poteva, quindi, odiarlo?

Ovviamente il signore avernale era preda di una qualche sordida magia e lei, devota innamorata, l’avrebbe riscattato.
Per questo, quando gli occhi di brace avevano scrutato attentamente quelle pareti nere, un’imprecazione le era sfuggita dalle labbra: aveva ancora bisogno di aiuto, la meta era ancora distante e le mura di cinta la rendevano irraggiungibile; l’entità che aveva avuto pietà di lei aiutandola nella rocambolesca fuga, doveva inventare un qualche altro modo, trovare una strada affinché lei potesse raggiungere quella terra santa.
Menta, infatti, non era una sciocca, non fino al punto di illudersi che un essere inutile e misero come lei potesse fuggire indenne dall’occhio del guardiano del Tartaro.

Ecco allora: se qualcuno l’aveva aiutata, e ciò era evidente e necessario, era giunto il momento che si manifestasse, si presentasse dinnanzi a lei rivestito di una dannata aura salvifica e che, come un deus ex machina, le offrisse su un piatto d’argento la soluzione adatta ai suoi bisogni.
Accompagnata da un buio interiore carico di aspri lamenti, bestemmie e urla disumane, Menta aveva ripreso lo strascicato cammino verso la dimora del signore avernale mossa unicamente da quel desiderio che aveva funto da ancora di salvezza lì, nel profondo Tartaro:

Sarebbe stata lei la regina dell’Averno.

Lei sola avrebbe mangiato il prelibato dono di superficie liberando il suo dio da spregevoli costrizioni.

Sarebbe stata lei, la sposa.
 
“Eccoti, ti stavo aspettando”.

Gelata da quel tono lugubre, la succube aveva mosso impercettibilmente il capo indirizzandolo verso la voce.

“Allora siete voi, il mio salvatore…”

“Taci, misera, non giungo per allietarti in amene conversazioni. Il tuo tempo è poco e la meta lontana”.

Piccata per quell’aspro richiamo, la succube aveva mostrato i denti acuminati mentre la lingua, biforcuta e saettante, sibilava odio.

“Non osare”, una mano, rapida come il vento, le si era poggiata all’altezza del collo e sempre quella mano, adesso stretta come una morsa, le stringeva la tenera carne col chiaro intento di soffocarla.
Dinnanzi agli occhi sgranati in una muta preghiera, il genio nero aveva mollato la presa restituendo il demone alle terra brulla e secca.

“Non osare mai più assumere questo atteggiamento. Se fosse per me saresti già morta, ovviamente. Agisco solo per volere del Fato, quindi taci. Taci e seguimi, demone”.

Allora non si era sbagliata! Il Fato stesso la voleva libera di riprendersi quanto le era stato sottratto.

Thanatos, oscuro come la morte di cui portava il nome, aveva indirizzato un ultimo sguardo pieno di sdegno alla malcapitata sognate e poi, datele le spalle, aveva fatto strada verso la sua porta, unico ingresso alternativo per regno dell’Ade.

Ella non aveva più osato pronunciare un solo lamento, travolta com’era da un unico e solo pensiero:

Vendetta.
 
Fregava le mani, si ripuliva alla bene e meglio il volto, ricomponeva le misere vesti, tirava indietro la chioma sporca in gesti tesi e concitati, troppo eccitata da quel piacevole risvolto degli eventi.

Solo un dubbio faceva capolino nella sua mente contorta:

“Perché voi? Perché siete venuto voi e non vostro fratello Ipnos?”

Thanatos non aveva risposto con parole udibili, si era limitato a fermare il passo, voltarsi lentamente e ad osservarla con occhi di brace, mentre le braccia, così come le ali, si aprivano ampie e maestose in un abbraccio che lo fondeva con il regno che lo circondava.



I mortali sanno che se la morte ti conduce per mano, vuole l’anima.



°°°
 
 
La discesa verso il regno dell’Ombra aveva avuto un sapore completamente differente.
Se la prima, quella che la vedeva rapita contro il proprio volere, era stata funestata dalle urla e dal suo scalciare contro il dio silenzioso, questa, invece, l’emozionava come quando si ritorna, dopo tanto tempo, in posti che si ha tanto amato e, proprio per questo, si ha il timore che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente.

“Persefone”.

Nessuna risposta.

“Persefone”.

Il fragore era troppo perché ella sentisse il preoccupato richiamo del dio dinnanzi a lei: gli zoccoli infuocati e fumanti calciavano la roccia, i nitriti rimbombavano per le lunghe pareti e i pensieri, più rumorosi di un qualsiasi frastuono, echeggiavano nella mente, rendendola sorda a qualsiasi stimolo esterno.

Ella stessa ancora stentava a credere a quanto, poco prima, avesse avuto il coraggio di compiere al cospetto di una madre disperata e di una platea scioccata.

“Mia signora…”

Una mano le aveva cinto i fianchi distogliendola dalla fantastica attività di fissare il vuoto,

“Ditemi che siete qui, che siete presente, che non vi pentite della scelta che avete compiuto”.

Scossa da quella preghiera, l’ennesima che sentiva formulata con quel tono severo eppure incupito, la dea si era stretta a quel corpo che sentiva rigido e teso oltre la nera armatura, la fronte poggiata all’altezza del cuore del signore nero

“Sono qui, non mi pento di nulla. Non siate turbato: non è la scelta compiuta che mi distrae, quanto piuttosto ciò che ho lasciato alle mie spalle”.

“Se può consolarvi, la vostra scelta ha impedito la morte di un dio bastardo. Siete stata benevola…”

Una gomitata aveva colpito di sorpresa il costato dell’avernale facendolo impercettibilmente piegare in avanti con un sorriso dipinto in volto, il primo che ella avesse modo di vedere dopo lungo tempo

“Smettetela, non avrei mai permesso che questo accadesse. Vi amo troppo perché possiate macchiarvi di un simile crimine al mio cospetto”.

Oh dio Persefone, cosa dici?!

“Quindi, se l’avessi ridotto in cenere lontano dai vostri occhi, non avreste opposto resistenza?”

Che non si fosse accorto di quanto le era sfuggito dalle labbra?

Non…non fate lo stupido. Non l’avrei permesso in nessun caso e in nessun luogo. Placate il vostro animo, dio nero”, aveva deciso di far finta di finta di nulla, proprio come lui che, meno sorridente di prima, le lanciava occhiate sospettose.

“Non mi dite che avete a cuore quel misero animale”, piccato, ma sempre maligno, Ade aveva guardato dinnanzi a sé, le briglie strette per frenare i cavalli furiosi.

Siete geloso, signore dell’Averno”, Persefone aveva allungato il collo nella vana ricerca di quegli occhi che lui si ostinava a fissar lontano.

“Allora?”

Maliziosa, la dea aveva strattonato il dio nel vano tentativo di ottener risposta.

“Se volete posso sempre riportarvi da lui, ci metto un istante a girar il cocchio”,
cupo e serio in volto, egli l’aveva impercettibilmente smossa lontano dal suo braccio.

“Siete meraviglioso”, dolce Persefone, ella gli si era fatta ancor più vicino e, con l’arte della cozza, si era avvinghiata al suo braccio con fare molesto.

“Smettetela, avete ferito i miei sentimenti”.

“Siete un farabutto”.

Persefone si era allontana dal dio e con un dito aveva bussato sul suo petto, all’altezza del cuore

“Vi siete forse dimenticato che questo cosetto che batte qui dietro è molto più sincero di voi? Non solo voi leggete i cuori… quindi, cortesemente, smettetela di prendermi in giro. Lo so che siete felice”.

“Sono paurosamente felice”.

Un nuovo sorriso, radioso come una morte benevola, aveva rianimato il volto falsamente offeso e irato del dio che, sereno, l’aveva nuovamente stretta sé cercandole la bocca in un bacio a stampo, intimo, familiare.

“Pensate a ciò che vi attende, sposa”.

Rossa in viso, Persefone aveva distolto lo sguardo da quel volto, imbarazzata dalle pulsazioni del cuore impazzito alla ricerca disperata di altri baci, di altre carezze.
Per il resto del viaggio erano rimasti in silenzio, rilassati l’uno dal respiro regolare dell’altra, stretti in quella sorta di abbraccio che fungeva da ancora stabile per lei e da rilassante per lui.

Ade, infatti, con quel sesto senso che lo legava all’Averno, sapeva in anticipo che quella stilla di angoscia che sentiva pulsare nel cervello, era il segno di un qualcosa di spiacevole avvenuto in sua assenza.
 


“Datemi la mano, fate attenzione”.

Ade, sceso con un balzo dal carro, aveva allungato una mano verso la dea sorridente.

“Lasciate che vi scorti nelle vostre stanze, sarete stanc-“

“No, per favore, no”.

Imbarazzata dallo slancio con il quale si era opposta a quella semplice proposta, Persefone aveva rivolto lo sguardo cristallino altrove, nella vana speranza che quell’avernale non scorgesse l’emozione dipinta sul volto innocente, quasi innocente.

“Come dite?”

“Non voglio stare dove voi non siete. So che ancora il vincolo non è stato stretto e che la mia richiesta potrebbe sembrare assolutamente indecente e
indecorosa…”

“Va bene”.

“…vi assicuro che non ho alcun secondo scopo…”

“Va bene”.

Quanto era amabile osservarla incartarsi e ingarbugliarsi come il filo di una matassa?

“…non voglio rimanere sola. Non che abbia paura di questi luoghi, anzi…”

“Persefone”, Ade, adulto, paterno, amabile, le aveva preso il volto tra le mani e, con infinita dolcezza, le aveva parlato lentamente, affinché potesse osservare attentamente quella bocca formulare la risposta, sensuale e maliziosa.

“Capisco il motivo della vostra richiesta e non metto in dubbio i vostri nobili principi. State tranquilla, la mia parola è un voto: nulla vi sarà carpito, contro il vostro volere”.

Maligno e tentatore come solo il sovrano dell’Averno poteva essere, aveva opposto un casto bacio sulle labbra schiuse e sorprese per poi liberarla dalla presa.

“Andiamo allora, avrete alloggio nelle mie camere”.

Con il cuore in tumulto, la giovane dea aveva annuito felice, sollevata.

Magari, questa volta, non ci saranno tormenti o ostacoli.

O, magari no.

Il pensiero era corso lesto alla madre in lacrime.

Forse sarebbe stato più giusto spiegarle tutto, forse, sarebbe stato meglio aiutarla a capire.

Ma come spiegarle di Menta?

Della violenza subita e dell’ambrosia nera che l’aveva liberata dal Flagetonte a caro prezzo?

Come dirle di quella promessa divenuta voto troppo rapidamente eppure felicemente?

Ade era voltato di spalle e fortunatamente non aveva scorto quei pensieri trapassarle la mente incupendole il viso.

Sarebbe stata solo un’altra pugnalata per quel cuore che a lungo aveva sofferto e che, finalmente, riceveva in cambio un po' di amore; era nuovamente al centro, tra l’incudine e il martello, ago tra due poli in antitesi.

“Andiamo?”

Ade, nuovamente, l’aveva presa per mano.
 
 

“La mia domanda resta ancora senza risposta: siete stanca? Volete riposare?”

Aveva aperto la porta dei suoi appartamenti ma attendeva sull’uscio che fosse lei la prima ad entrare.

“Voi, voi siete stanco?”

“Attenta Persefone, orecchie meno sagge delle mie potrebbero scambiare la vostra premura per un invito”.

“Allora sono fortunata ad aver voi per interlocutore, saggio re”.

Avevano sorriso entrambi a quello scambio di battute che contribuiva a creare uno splendido ambiente che sapeva di casa.
In quello strano cosmo, in quel destino che era toccato loro in sorte, stavano costruendo qualcosa che fosse solo loro, e lo facevano con l’innocenza e l’inesperienza di due innamorati che, per quanto abbiano a lungo patito, sono ancora all’inizio della loro relazione.
Ecco, non si sarebbe potuto parlare di vera e propria innocenza dinnanzi agli sguardi rapaci che il signore dell’Averno indirizzava alla giovane intenta a sciogliere i lunghi capelli bruniti, e sempre l’innocenza di cui sopra, sembrava nascondersi in un angolo quando il ferino approfittava di ogni attimo di vicinanza per sfiorarla, lasciando che brividi saettassero dalla nuca fino al centro del suo corpo.

Ogni scusa era buona per ristabilire il contatto tra i loro corpi:
Ade doveva adagiare il lungo mantello sul triclinio? Eccolo allora allungarsi fino a cingere le sue piccole spalle in una carezza sfuggente.
Il dio aveva bisogno di bere? Allora, mentre la gelida bevanda scorreva giù per la gola, egli ne approfittava per accarezzarla distrattamente sul capo chino a sciogliere i sandali.

“Forse è stata una cattiva idea quella di condividere l’alloggio”.

“No, in verità è stata un’idea brillante, del resto nemmeno io avevo voglia di passare le notti da solo. In effetti, non capiterà più, da qui in eterno”.

Il sorriso, espressione di gioia, malizia e serietà, era il chiaro segno del suo sentirsi assolutamente a suo agio nel metterla a disagio con il losco intento di sedurla.

E lei con che forza si sarebbe dovuta opporre?

Avrebbe dovuto chiudere chi occhi mentre quello, sfacciato fino all’ultimo, sganciava le fibbie della pesante armatura con struggente lentezza?

Doveva, forse, volgere il capo quando quell’essere, provocatore come il demone che era, faceva scivolare al suolo la veste nera, protezione della muscolatura scolpita e nivea?

Guai a te, Persefone!

La vocina nella sua testa, espressione della parte più intima di sé, già irrimediabilmente sedotta, le impediva qualsiasi azione avesse avuto per obiettivo la privazione di quello spettacolo.

Perché doveva privarsene?

Non siete ancora sposi.

…Ma siamo promessi.

Non è lo stesso

Ti sei forse dimenticata delle parole del tuo signore, proferite sulla soglia dell’Averno quando Hermes ti riconduceva a tua madre?

“Siete legata all’Averno ma non siete ancora sposa benedetta. Tradite la mia fiducia e rimarrete vincolata all’Erebo, sola.”

Stava scherzando.

Tu credi?
 
 


“Ho bisogno di un bagno, mio signore…e vi prego, smettetela di fare quello che state facendo”.

“Ma io non sto facendo nulla”, il ghigno malizioso aveva trovato risposta nello sguardo accigliato della giovane.

“Bugiardo”.


 
 
Le nuvolette di vapore profumato l’avevano letteralmente inebriata.
Ad occhi chiusi e col capo morbidamente poggiato sul bordo della vasca- che si era rivelata essere un’intera piscina al coperto- Persefone godeva di quella calda carezza offertale dall’acqua bollente.

“Piacevole, non è vero?”

“Uscite”.

“E’ il mio bagno, anzi, è il mio regno e voi, piccola prepotente, mi chiedete di uscire? Siete spregevole”.

“Mio signore, non era mi intenzione offendervi”, con uno sbuffo, esasperata dalla lingua tagliente e furba del suo interlocutore, la dea, infine, aveva schiuso gli occhi trovando Ade, immerso anch’egli nella calda acqua.

Nudo, ovviamente.

“Ade…”

“Non potevo resistervi, così rilassata e quasi pacifica. Resistervi sarebbe stata un’impresa titanica”.

“Ma voi siete per metà titano!”

“Evidentemente non basta per tenere a freno il mio desiderio”.

Stupido dall’arrendevolezza beata con la quale ella lo osservava, aveva smosso le acque quel tanto che bastava affinché i loro corpi si sfiorassero.
Nel silenzio fatto d’acqua e vapori, potevano udirsi solo i sospiri della dea, presa lentamente di mira da baci esasperanti posti con dolcezza sul collo tenero e poi, solo dopo che le richieste si erano fatte preghiere, avevano infine varcato la soglia della bocca, già schiusa e sospirante.

Da quanto tempo non sentiva il suo respiro sulla pelle?

Ade, quasi con ferocia, aveva dato il via all’esplorazione e, ovviamente, all’invasione di quel corpo esposto e cedevole, eccitandosi ogni qual volta ella si rendeva creta tra le sue mani, pronta a spostare il capo, offrire il collo o la bocca o i seni ad un solo suo cenno. Per questo motivo non aveva saputo resistere e con la mano aveva artigliato la chioma bruna facendo pressione in modo tale tra tramutare quel leggero contatto in impudica pressione di corpo su corpo.
E lei non si era tirata indietro: provocata e soggiogata da quelle labbra tentatrici, aveva gettato le braccia introno al collo del dio e le gambe, snelle e tornite, si erano strette come per un riflesso condizionato, intorno ai suoi fianchi.
Lì, entrambi, bloccati per un istante ad occhi sgranati, facevano i conti con un’intimità che mai avevano avuto il coraggio di creare: lei per pudicizia, lui per rispetto.

“Persefone…” la voce roca, assolutamente irriconoscibile, aveva ruggito quel nome in una muta preghiera.

“State fermo, vi imploro”.
 
“Voi mi tormentate”, ma quella, con dolcezza, aveva preso il volto barbuto tra le mani e con lo sguardo perso in quelle pozze grigie e offuscate dal piacere, aveva dato il via ad una lenta danza accompagnata da gemiti e sospiri.
Ade, giaceva tra le braccia di Persefone completamente abbandonato e inerme, mentre la dea, stretta a lui e con la piena femminilità esposta e umida a contatto con il membro turgido, si era mossa in un dolce andamento dal basso verso l’alto e viceversa, sostenuta dalle acque e da mani voluttuose che ora la tenevano per i glutei sodi e contratti.
Perso in quella carezza ipnotica, il dio si era nuovamente saziato di quella bocca, cercando di tenere a bada con tutte le sue forze l’istinto animale che gli urlava di premere, stringere, entrare: voleva sentire la carne morbida schiudersi sotto la sua pressione, si disperava nella vana speranza di sentire quel corpo avvolgerlo, stringerlo, accoglierlo.
Un gemito più forte degli altri aveva pervaso la giovane da capo a piedi quando, mossa dalle mani che la sostenevano, aveva premuto con più forza quella parte di sé che sentiva gonfia e pulsante e lui, sadico e tormentato a sua volta, aveva continuato a muoversi in su e in giù insistendo su quel punto e sull’apertura che sentiva meravigliosamente aperta.

“Ditelo adesso, ripetete adesso quello che avete detto prima. Dite che mi amate”,
schiavo di chi aveva ridotto in schiavitù, la supplica era giunta prepotente alle orecchie della dea mentre la chioma lunga e umida veniva afferrata e tirata affinché ella esponesse il collo tenero a morsi voraci.

“Ade…”

“Ditelo”

Il ritmo si era fatto più rapido e folle: lo sfregamento, divenuta palese tortura, aveva ridotto Persefone in un ammasso di nervi scoperti e scattanti e gli occhi, lucidi e offuscati, osservavano, meravigliati e distanti, il viso del dio, ora trasfigurato da un nuovo piacere.

“Vi amo con tutto il cuore, Ade”.

“Presto sarete la mia sposa, e dividerete il vostro corpo col mio”, in quella che sembrava una promessa stravolta dal desiderio, Ade aveva mosso il bacino con rapidità e forza contro quelle intime labbra che mai avevano subito un assalto del genere.

 Poi, rapiti, avevano ruggito il loro piacere in un bacio,
che non si capisse dove il piacere avesse avuto inizio e fine.











L'Angolo di Avareil
E' stato un parto, giuro! EFP ha veramente messo a dura prova la mia pazienza con la sua lentezza! Lamenti a parte...
Brevi precisazioni: 
 
 La parte che trovate sottolineata nel dialogo di Persefone con sé stessa serve a indicare e a distinguere la sua parte razionale da quella irrazionale.
Il titolo poi è emblematico non solo della situazione dentro il capitolo ma anche di quella fuori: il capitolo è, di fatto, mozzo perché mi sono resa contro di aver scritto troppo quindi ho preferito spezzare la narrazione, affinché non venisse troppo pesante la lettura. Sono stata brava però, non ho tagliato sul più bello ;)
Questa precisazione serve per coloro che, dubbiosi, giustamente, troveranno poche novità: l’obiettivo era anche questo, dare la sensazione di un tempo che passa in attesa della decisione di Zeus, perché, di fondo, è lui che deve capire come agire.
Con questo mando un affettuoso saluto a tutti coloro che abbiano avuto la pazienza di seguirmi, recensire e anche solo leggere: pochi capitoli ci separano dalla fine ma molte sono le idee per il post Una vita promessa alla morte.
Battete un colpo se ci siete.
 A presto!

 
  
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