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Autore: Adeia Di Elferas    04/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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I passi di Giovanni non facevano quasi rumore, sui tappeti spessi che coprivano il pavimento di palazzo Medici.

Man mano che attraversava i vari ambienti – trovandoli poco o per nulla illuminati, come se tutta la casa fosse in tono minore rispetto a come lo ricordava – il Medici sentiva il cuore battere più veloce e fare ogni tanto un piccolo salto. Era da qualche tempo che, quando si agitava, gli capitava di avvertire quella strana sensazione, ma aveva deciso di non farvi caso. Se si fosse preoccupato per ogni segnale che gli stava dando il suo corpo in quei mesi, sarebbe impazzito e basta.

Arrivato in prossimità del salone, si chiese come mai dall'uscio arrivasse così poca luce. C'era molto silenzio e non si potevano nemmeno sentire i servi che, di norma, affollavano anche a quell'ora il palazzo.

Giovanni fece un respiro molto profondo e poi, sforzandosi di zoppicare il meno possibile, allacciò le mani ancora guantate dietro la schiena, per nasconderle il più a lungo possibile e, raddrizzando le spalle, si presentò nel salone.

Lorenzo non si accorse subito di lui. Era seduto sull'ottomana imbottita, rivolto al camino spento, la schiena curva e la testa piegata di lato, come se stesse riflettendo su qualcosa.

Il fratello attese qualche istante senza parlare né muoversi. Si sentiva triste al pensiero che avrebbe solo voluto corrergli incontro, sorridergli e abbracciarlo, quando, invece, le parole e l'indifferenza che lo stesso Lorenzo gli aveva riversato addosso con le sue lettere negli ultimi due anni lo stavano trattenendo là dov'era, impedendogli di muovere anche solo un passo.

Osservava il profilo del fratello maggiore con attenzione. Anche se era seduto e abbastanza lontano, gli sembrava molto diverso. Aveva perso molto peso e c'era qualcosa, nel modo lento in cui ondeggiava la gamba accavallata, che non lo convinceva.

“Lorenzo.” disse alla fine Giovanni, con la voce ferma, per quanto bassa.

Il Popolano maggiore parve raggelarsi. Voltò quasi subito la testa e lo fissò, come se avesse visto un fantasma e poi si alzò, facendo un paio di passi verso di lui, ma fermandosi ben prima di essere a tiro di un abbraccio.

Adesso che poteva vederlo davanti a sé, il minore si rese conto di non essersi sbagliato: Lorenzo era cambiato moltissimo.

Il suo viso era scavato e gli occhi tondi, un tempo dall'espressione annoiata e imbronciata, erano accesi da quella che sembrava rabbia repressa. Il fisico in generale si era asciugato, con l'unico risultato di farlo sembrare molto più vecchio rispetto ai suoi trentacinque anni.

Giovanni ebbe un momento di vuoto, quando si rese conto che il fratello avrebbe compiuto trentacinque anni a distanza di pochi giorni. Gli sembravano passati secoli, da quando festeggiavano il suo compleanno insieme.

Le labbra del Popolano più vecchio erano strette in una smorfia di disapprovazione, ma, quando parlò, si incurvarono appena verso l'alto: “Sei qui.”

L'altro annuì, abbassando gli occhi chiari e mordendosi teso l'interno della guancia. La voglia di stringere a sé il fratello, che gli aveva fatto da padre per anni, restando il suo unico punto fermo per tutta la giovinezza, era fortissima. Eppure il suo orgoglio ferito gli rendeva impossibile anche solo guardarlo ancora in viso.

“Partirò domani per Pisa.” disse subito il Popolano più giovane, alzando le spalle e scuotendo appena il capo: “Non ti avrei importunato, se non fosse che il viaggio è lungo e...”

“Ma che stai dicendo? Questa è casa tua. Sei sempre il benvenuto.” lo zittì Lorenzo, un po' burbero, incrociando le braccia sul petto: “Anzi, se vorrai fermarti, invece di tornare da quella donna...”

“Quella donna, come la chiami tu, è mia moglie.” ribatté subito Giovanni, sapendo che quel momento sarebbe arrivato: “La madre di mio figlio.” precisò poi, come a voler dare molto più peso alla sua difesa.

“Questa è tutta da vedere.” commentò a denti stretti Lorenzo, sollevando lo sguardo su di lui, provocatorio.

Il minore fece altrettanto, ma con occhio incredulo più che aggressivo: “Quello è mio figlio. Per lei, adesso, ci sono solo io.” esasperato dalla faccia scettica dell'altro, Giovanni allargò le braccia ed esclamò: “È inutile che fai così! Io l'ho scelta! Io la amo! L'ho sposata! E mi sembra assurdo dover starmene qui a giustificarmi con te per questo!”

“Perché porti i guanti?” domandò a bruciapelo Lorenzo: “Fa troppo caldo per tenerli...”

Quando il fratello aveva allargato le braccia, il maggiore aveva notato i pesanti guanti che portava sulle mani e, di colpo, aveva notato anche tutto il resto. Lo trovava patito, dimagrito in modo pauroso, e, malgrado la barba cresciuta durante il viaggio gli coprisse un po' il viso, pallido e patito.

Ma la cosa più grave, per lui, era vedere cambiato il suo sguardo. Gli occhi verdi, così chiari da sembrare trasparenti, avevano perso del tutto la luce calda e spensierata che li aveva illuminati in passato. Ora erano seri, profondi, certo, ma terribilmente tristi, come se avessero visto il male del mondo e potessero immaginare anche di peggio.

Giovanni schiuse le labbra, cercando un modo per prendere tempo, ma non sapeva cosa dire.

“Zio!” la voce di Pierfrancesco ruppe il silenzio pesante che si era creato tra i due Popolani e tolse, almeno per il momento, il più giovane d'impiccio.

“Hanno capito che eri arrivato e non sono riuscita a trattenerli...” spiegò debolmente Semiramide, sulla porta, mentre Pierfancesco, Laudomia, Ginevra e Vincenzo correvano incontro allo zio, saltandogli al collo a turno.

Il Medici era felicissimo di rivederli e gli parvero tutti cresciuti moltissimo, rispetto a quando era partito. Mentre vedeva con la coda dell'occhio la cognata e Lorenzo scambiarsi qualche battuta molto tesa a voce bassa, l'uomo si concentrò per un momento sui nipoti, che, ricoprendolo di parole e sorrisi, gli stavano quasi facendo dimenticare tutto il resto.

Tuttavia, dopo qualche momento, l'Appiani batté le mani e richiamò i figli all'ordine: “Avanti! Si parlerà con vostro zio a tavola. Adesso lasciatelo in pace! Ha fatto un viaggio molto lungo e deve andare a sistemarsi...”

Ubbidienti alla madre, tutti e quattro si congedarono da Giovanni con calore, ma anche con solerzia. Solo Ginevra, per un momento, si trattenne più degli altri, abbracciandolo di nuovo.

Lorenzo li osservò e notò una strana smorfia di dolore, che il fratello non era riuscito a dissimulare, attraversargli il viso mentre con il suo peso la bambina, aggrappataglisi al collo, gravava sulle sue gambe.

Semiramide, come una mamma chioccia, portò fuori dal salone il piccolo capannello di figli e così i due fratelli rimasero di nuovo soli.

Avvicinandosi quasi minacciosamente, il Popolano più vecchio prese per il colletto del giubbetto il più giovane e gli ringhiò contro, non riuscendo a trattenersi: “Mi hai sempre scritto che stavi bene, che la tua malattia era clemente, che non avevi alcun disturbo. Perché non mi hai detto la verità?”

Giovanni, occhi negli occhi con il fratello, avrebbe voluto dirgli che aveva taciuto tutto soprattutto per paura, come se, non dicendoglielo, la verità fosse un po' meno reale. Non glielo aveva mai scritto anche per non impensierirlo. Questo almeno all'inizio, poi era subentrato anche altro.

E fu proprio quello che animò le sue parole nel rispondere, scostandosi di colpo dalla presa di Lorenzo: “Perché sono diventato padre e tu non hai nemmeno avuto il cuore di dirmi che eri felice per me.”

“Perché io non ero felice per te!” sbottò il Medici maggiore, dando uno spintone all'altro.

Giovanni barcollò sulle gambe irrigidite dallo sforzo protratto in quel lungo viaggio, ma era pronto a contrattaccare, se non fosse ricomparsa Semiramide per dire: “Avanti, la cena sarà in tavola tra poco – disse la donna, guardandoli preoccupata, conscia di aver interrotto qualcosa di serio – forse Giovanni vorrà cambiarsi...”

Questi ringraziò con un cenno del capo e, ravviandosi i corti riccioli castani, fece un cenno al fratello e poi si rivolse alla cognata: “Non farò tardi.”

 

Caterina, quella sera, sentiva uno strano nodo allo stomaco. Era una sorta di agitazione che non aveva una spiegazione logica immediata. Si trattava più che altro di una sorta di sesto senso, come se il suo corpo la volesse mettere in guardia su qualcosa.

I motivi di preoccupazione, in effetti, non le mancavano, tuttavia non collegava quello stato di ansia latente alle emergenze contingenti, quali la scarsità di cibo, la siccità nei campi e le febbri che stavano ormai lambendo chiaramente la città.

La nutrice di Ludovico era piombata preda dell'epidemia e in tutta Forlì i casi cominciavano a moltiplicarsi.

Luffo Numai aveva cercato di convincere la Contessa a chiudere le porte, per evitare tragedie inutili, ma, per la prima volta da parecchio tempo, la Tigre aveva preso una decisione seguendo solo ed esclusivamente uno slancio emotivo.

Sapeva benissimo che, per quanto apparentemente troppo prudente, la misura suggerita dal Consigliere a lungo termine si sarebbe dimostrata la migliore. Anche se i commerci fossero rimasti paralizzati per qualche settimane, le vite risparmiate avrebbero finito per rendere vantaggiosa la decisione.

Però, quando vi aveva riflettuto un attimo di troppo, aveva anche pensato che, a porte chiuse, le eventuali lettere di Giovanni non le sarebbero arrivate e tanto era bastato per risolversi a tenerle aperte.

Era ormai sera inoltrata e Ravaldino era abbastanza tranquilla. In quei giorni, benché ci fossero voci di ribellioni nel riminese e agitazioni veneziane nella zona di Ravenna, a Forlì si respirava un clima abbastanza pacifico.

I soldati, tanto al quartiere militare, tanto alla rocca, parevano intenti ad approfittare di quel frangente per riposarsi un po', compatibilmente con i soliti lavori di preparazione della difesa, e così, a quell'ora, a parte un paio di guardie che avevano appena avuto il cambio al portone, la Sforza non incontrò nessuno in corridoio.

Aveva già mangiato, non molto e in fretta, per colpa della strana sensazione che le bloccava lo stomaco, ma non aveva voglia di andare in camera. In più sapeva che in quel momento da Ludovico c'era la nuova nutrice che lo stava allattando e non voleva vederli. Non aver potuto nutrire di persona il figlio nel momento in cui ce n'era stato bisogno, l'aveva punta nell'orgoglio e quindi preferiva evitare di assistere.

Non sapendo che fare, decise di cercare Bianca. Era quasi certa che fosse in cucina, perché l'aveva sentita farfugliare qualcosa in merito a Galeazzo, quando il ragazzino le aveva chiesto se quella sera avrebbe cantato per tutti o si sarebbe ritirata presto.

Così la Contessa scese fino nelle cucine e, già prima di entrare, ebbe la conferma che la figlia fosse lì.

“No, non dico che non sia bello, ma...” stava dicendo proprio Bianca, la voce un po' restia.

La Tigre si fermò e restò nella penombra in ascolto, curiosa di sapere di chi stessero parlando le cuoche e sua figlia.

“Ma allora non vi vedrete più?” chiese una delle sguattere di cucina, continuando a pulire il tagliere che era stato usato per portare in tavola l'arrosto della sera.

La ragazzina arrossì un po', prendendo uno dei canovacci e iniziando ad asciugare i mestoli che un'altra delle sguattere aveva appena lavato: “No.” disse, abbastanza lapidaria.

“Peccato...” buttò lì la cuoca, armeggiando con i resti della minestra che ancora erano tenti in caldo nel paiolo e versandone una ciotola per ogni presente: “Mi sembrava un bel giovane. E anche molto... Intraprendente.”

Stavano parlando di uno dei soldati del quartiere militare che aveva prestato servizio alla rocca un paio di anni prima. Bianca l'aveva conosciuto attaccando discorso una volta che era stata in città e poi si erano incontrati qualche volta.

Lui aveva una ventina d'anni ed era davvero di bell'aspetto e, ormai, quasi non si rendesse conto di aver davanti una ragazza che sulla carta aveva un marito, non si sarebbe accontentato più solo di qualche bacio.

Tuttavia, quando aveva osato chiederle esplicitamente qualcosa di più, Bianca, che pure provava per lui un'attrazione non indifferente, aveva declinato con decisione, arrivando perfino a chiedergli di non incontrarsi più.

Ciò che l'aveva frenata, però, non erano né Astorre Manfredi, né la paura di essere scoperta da sua madre, né di venir meno alle promesse fatte a Giovanni.

Era stata una frase, una velata allusione fatta dal ragazzo, un giorno, mentre chiacchieravano da soli in un vicolo tranquillo del quartiere militare, a farle ripromettere a se stessa che non lo avrebbe mai accettato.

Stavano parlando distrattamente di come la stagione fosse calda e di come certi inverni fossero stati freddissimi e il ragazzo aveva cominciato a parlare di camini, rammaricandosi di quelli che c'erano nelle stamberghe del quartiere militare e ricordando con nostalgia quelli dei baraccamenti della rocca, quando alla fine aveva aggiunto, appena prima di cambiare discorso: “In alcune camere a Ravaldino ce ne sono di enormi... Quello della stanza di tua madre era piccolo, invece, ma faceva un caldo incredibile...”

“Non andava bene per me.” rimarcò Bianca, dato che la cuoca sembrava seriamente rammaricata.

“E va bene... Avanti, mangiamo qualcosa.” fece la domestica, mettendo sul tavolone le ciotole di minestra.

Caterina sbirciò dentro le cucine e, quando vide la figlia seduta assieme a due sguattere, alla cuoca e a un altro paio di serve, tutte intente a scambiarsi confidenze, si sentì di troppo e se ne andò.

Giovanni l'aveva messa in guardia sulla distanza tra lei e Bianca e sul fatto che la figlia avesse bisogno di averla vicina. Però faceva fatica a essere diversa con lei e, ne aveva appena avuto la riprova, anche la ragazza preferiva confidarsi con altri che non fosse lei.

 

La tavolata a palazzo Medici era abbastanza silenziosa. Anche se Pierfrancesco aveva tenute occupate le orecchie di tutti per un bel pezzo, parlando degli studi di calcolo e bilancio che stava facendo, alla fine si era giunti a un punto morto.

I figli di Lorenzo e Semiramide, arrivati all'ultima portata, avevano lasciato la sala da pranzo e si erano ritirati per la notte, lasciando i tre adulti da soli e liberi di confrontarsi come meglio preferivano, lontani da orecchie indiscrete.

“Sicuro di star bene?” chiese l'Appiani, fissando preoccupata le mani del cognato che, toltosi i guanti per riuscire a mangiare, faticava visibilmente anche solo a tenere in mano un cucchiaio.

“Ho detto di sì.” rispose, un po' ottusamente, Giovanni, la voce un po' impastata.

Per cercare di stare calmo, aveva bevuto qualche bicchiere di vino e, non essendovi più avvezzo, quel minimo eccesso gli era bastato per farlo sentire più che alticcio.

“Ovvio che non sta bene.” si intromise Lorenzo, secco, schiacciando con rabbia qualche resto di guscio di noce rimasto sul tavolo: “Quella strega gli avrà anche dato dei veleni per accelerare il suo male e potersi prendere tutti i suoi soldi.”

“Ma che stai dicendo...” sbuffò il Popolano più giovane, allungando a fatica le gambe sotto al desco e inclinando un po' la testa di lato.

“Ti fa vivere come la plebaglia in una rocca piena di soldati, privandoti delle comodità di una casa come questa – proseguì imperterrito Lorenzo, senza alzare lo sguardo, i gusci ormai ridotti a polvere – continua a chiederti soldi, chissà con quanti uomini ti ha tradito e... Ma guardati! Bevi come un saccomanno... Scommetto che è lei che ti ha dato l'abitudine...”

Giovanni buttò gli occhi al cielo e, dando un colpo al tavolo con la mano – facendosi più male del previsto – si alzò ed esclamò: “Non resto qui a sentirti insultare mia moglie! Vado a dormire. Uscirò prima dell'alba, non preoccuparti che non ti disturberò.”

Semiramide allungò un braccio, come a volerlo fermare, ma di fatto restò immobile accanto al marito, mentre il cognato, con passo claudicante e la testa un po' confusa, lasciava la sala per andare in quel che era stata per anni la sua camera.

 

Il banchetto per le nozze di Lucrecia e Alfonso era stato preparato nei minimi dettagli. Pur non essendo luculliano come quello che aveva dato il via al fallimentare matrimonio tra la Borja e Giovanni Sforza, si poteva ben dire che quel cenone fosse degno di un re.

Il cibo, tanto e ottimo, assieme al vino, aveva avuto il potere di rimettere tutti d'accordo e i parenti dello sposo e della sposa avevano smesso di punzecchiarsi, finendo per godere assieme dei piaceri della tavola.

L'unico momento di vaga tensione che si era vissuto ancora era stato di nuovo merito di Cesare che, volendo, secondo il padre, fare una ragazzata, era sparito per poi ripresentarsi travestito da unicorno, a simbolo della purezza e della grazia della sorella.

Lucrecia l'aveva guardato malissimo, ma aveva preferito non riprenderlo a voce, per evitare che qualcuno potesse leggere tra loro una tensione eccessiva, per essere quella tra fratello e sorella.

I festeggiamenti erano andati avanti per molte ore, fino a che, a notte inoltrata, i vassoi erano stati del tutto svuotati e così le brocche di vino e si era deciso di mettere a letto gli sposi.

Lucrecia aveva atteso quel momento da tutto il giorno. Anche se temeva in qualche modo che il marito – per quanto, ne era certissima, già ben a conoscenza del fatto che lei fosse tutt'altro che illibata – potesse sollevare questioni una volta all'opera, il desiderio che provava di farlo suo era più forte di tutto il resto.

Non aveva mai sentito un'attrazione tanto forte per nessun altro uomo e sapeva, nel profondo, che tra lei e Alfonso sarebbe nato un amore passionale, oltre che duraturo.

La stanza che era stata scelta per loro aveva nel centro un grande letto a baldacchino. Le sedie, già posizionate poco lontane dal talamo, richiamarono alla memoria della diciottenne dei ricordi orribili del suo primo matrimonio. Quella volta, però, insistendo con il padre, aveva ottenuto il permesso di chiudere il più possibile le tende, permettendo ai testimoni di dare udienza, più che visione, alla consumazione del matrimonio.

Quando lei e Alfonso vennero messi l'uno accanto all'altra, entrambi in vestaglia da notte, sotto le lenzuola, la giovane attese che i tendaggi venissero tirati e qualche candela spenta prima di gettarsi tra le braccia del ragazzo.

L'Aragona, desideroso quanto lei, si tolse subito il camicione e poi sfilò anche quello della moglie, le sistemò una ciocca di capelli d'oro dietro l'orecchio, iniziando a baciarla e poi si mise sopra di lei, e la prese, senza perdere altro tempo.

Fuori, sulle sedie, i prelati scelti metà per parte borgiana e metà per parte aragonese, ascoltavano e cercavano di sbirciare lo sbirciabile, ma nessuno avrebbe potuto avere dubbi sul fatto che entrambi gli sposi si fossero messi di buona voglia a svolgere il compito che Dio imponeva loro.

Cesare, che aveva preferito sedersi distante dal letto, a un certo punto non resse più. Sapeva quanto quell'unione fosse importante per suo padre e dunque represse l'istinto primordiale di aprire di scatto le tende del baldacchino e stringere le mani attorno al collo di Alfonso.

Per riuscire a trattenersi del tutto, però, fu costretto a uscire direttamente dalla camera, lasciando che la sorella si divertisse in modo tanto sfacciato con quel napoletano, ma non davanti a lui.

 

Per quanto ci avesse provato, Giovanni non era riuscito a prendere sonno. Per distrarsi, appena il vino aveva smesso di annebbiargli la mente, si era messo a riguardare i documenti che il mattino seguente avrebbe portato alla Signoria.

Stava per rimetterli in ordine, quando, facendogli fare un mezzo salto sulla sedia, qualcuno bussò alla porta.

Prevenuto, credendo che potesse essere Lorenzo, chiese chi fosse, ma a rispondergli fu la cognata.

Semiramide entrò con passo leggero. Era in vestaglia e portava appresso una candela. Si sedette accanto a lui, alla scrivania, e, senza dargli il tempo di dire qualcosa, gli chiese di Caterina.

Voleva sapere che persona fosse, come fosse il loro matrimonio e se davvero per Giovanni era la Tigre di Forlì, la donna giusta.

Il Medici le parlò con franchezza, raccontandole – senza mai scendere nei dettagli – com'era cominciata tra loro e la profonda intesa che li univa. L'Appiani allora volle sapere tutto del bambino e Giovanni, con la fierezza paterna che aveva provato fin da quando aveva saputo che avrebbe avuto un figlio, le disse ogni cosa.

“Sono felice per te.” disse la donna, appoggiandogli una mano sul braccio e sorridendogli: “Da come ne parli, si sente che sei felice.”

“Vorrei che anche Lorenzo la pensasse come te.” le confessò il Popolano, mesto.

Semiramide sospirò e poi, guardando distrattamente la camera, soffiò: “Lorenzo... Non è facile, per lui. Si sente tradito. Cerca di capirlo.”

“Anche lui dovrebbe cercare di capire me.” ribatté Giovanni, trovando, per la prima volta, insopportabile il modo in cui la cognata lo difendeva malgrado tutto.

“Viste da fuori, le tue scelte possono sembrare avventate, lo capisci anche tu.” fece l'Appiani, cercando le parole migliori: “E poi Lorenzo, da che è morto Averardo, non è più lo stesso. Quando te ne sei andato, per lui è stato un colpo durissimo e, sapere che ti eri sposato e ti eri fatto una famiglia lontano da Firenze...”

“La verità è che mio fratello mi ha sempre considerato una sua proprietà e io non volevo rendermene conto.” si incaponì Giovanni.

“Sbagli a pensarla così.” dissentì la donna: “Se Lorenzo fa così è solo perché ha paura di perderti.”

Il Popolano fece una mezza smorfia e le chiese di parlare d'altro. Voleva metterla a parte della sua decisione di chiedere la cittadinanza per Caterina e per i figli, e quello era il momento migliore per farlo.

“Io devo partire subito e non è detto che riesca a tornare, quindi non potrò seguire la pratica da vicino...” spiegò l'uomo, mentre Semiramide leggeva le carte.

“Farò quello che posso.” assicurò lei, annuendo con decisione.

Il cognato la ringraziò e poi, vedendo come fosse quasi l'alba, i due si congedarono con un abbraccio e il Medici le assicurò: “Prima di andarmene, tornerò a salutare i miei nipoti e anche te.”

Dopo aver preparato gli incartamenti e dato ordine alla sua scorta di prepararsi, Giovanni si era permesso di fare un giro per il palazzo. Voleva rivedere gli ambienti che aveva abitato da ragazzo e in cui, forse, non sarebbe tornato mai più.

Era arrivato quasi al piano della servitù, quando riconobbe il profilo del fratello che guardava fuori dalla finestra che dava sul cortile.

Quando si avvide di lui, Lorenzo tossicchiò e raddrizzò le spalle: “Che ci fai qui?”

“Facevo solo un giro. Sto per andarmene, non avere paura. Non ti disturberò più.” rispose piccato il più giovane.

L'altro strinse le labbra e poi, tentando di moderare i termini e i toni, tornò sul discorso della sera prima: “Cerca di ragionare, Giovanni. Sciogli il tuo matrimonio e torna qui. Quella donna ti sta spennando come un pollo e ti sta facendo fesso. Ti rideranno dietro tutti quando sapranno quanti soldi hai speso per...”

“Sono i miei soldi, e li spendo come voglio.” lo zittì Giovanni, incredulo nel vedere il fratello così concentrato sul denaro.

Non era mai stato così, da che ricordava. Forse, pensò, essere il capofamiglia e aver riottenuto tutto quello che il Magnifico aveva tolto loro, gli aveva fatto perdere di vista tante altre cose.

“Che siano i tuoi, è tutto da vedere.” precisò Lorenzo, alzando una mano.

“Che intendi dire?” chiese il fratello, con un brivido lungo la schiena.

“Che sei il secondogenito. La legge vede me, come erede di nostro padre.” disse, con ovvietà, il Popolano più vecchio.

“Abbiamo deciso anni fa di dividere tutto equamente, dalle case ai soldi.” gli ricordò Giovanni, incredulo davanti a quella che gli sembrava una minaccia.

“Sono cambiate tante cose, da allora.” fece Lorenzo: “Per esempio, all'epoca non eri stato raggirato da una sgualdrina che ha fatto passare per tuo un bast...”

Prima che potesse finire la frase, il Popolano più vecchio dovette alzare le braccia per difendersi dal fratello che, reso cieco e sordo dall'ostinata ostilità di Lorenzo verso Caterina e Ludovico, gli si era avventato contro.

I due fratelli, con i rispettivi limiti, andarono avanti a picchiarsi per un bel pezzo, cercando di strapparsi i vestiti e premendosi le mani sui volti, facendo anche volare qualche pugno nello stomaco, quando ci riuscivano.

Alla fine, tutti e due senza fiato, si divisero quasi di comune accordo. Anche da piccoli, a volte, era capitato loro di litigare a quel modo. Però, dopo una bella zuffa, il dissidio veniva dimenticato e tornavano amici come prima.

Quella volta, invece, quando riuscirono di nuovo a stare dritti e respirare normalmente, i loro sguardi si incrociarono come due lingue di fuoco.

“È un'ingiustizia, che nostra madre sia dovuta morire per lasciare vivere te.” sussurrò Lorenzo, ancora un po' in affatto, una mano sul ventre, dove l'altro l'aveva colpito poco prima con una gomitata.

Giovanni, a quelle parole, rimase di sasso. Il fratello, con quella semplice affermazione, gli aveva dato una conferma che aspettava da troppo tempo.

Quelle parole avevano liberato Lorenzo da un sentimento rimasto sopito nella sua anima per oltre trent'anni.

Il Popolano più vecchio, guardando il fratello minore, che tanto aveva amato e cercato di proteggere, piegarsi un po' su se stesso, gli occhi chiarissimi che si inumidivano e le labbra che si incurvavano in una smorfia di dolore, fece un paio di passi avanti e cercò di abbracciarlo, già pentito per quello che aveva detto.

Giovanni, però, si tirò indietro con gran rapidità, sottraendosi alla sua stretta. Quello che Lorenzo gli aveva detto, per lui era stato troppo.

Siccome, tuttavia, il fratello maggiore sembrava realmente affranto per il veleno che aveva sputato, il più giovane volle dargli un'ultima occasione per recuperare il suo affetto: “Sto andando alla Signoria per far avere la cittadinanza a mia moglie a i nostri figli. A tutti e sette. Se vuoi fare davvero qualcosa per me, fai pressioni al Gonfaloniere affinché la mia richiesta venga accettata.”

Poi, abbassando lo sguardo e facendo un mezzo sospiro, Giovanni concluse: “Stammi bene, fratello.”

“Ricordati che io sarò sempre la tua famiglia.” tentò in extremis Lorenzo, mentre l'altro già tornava verso le scale.

“Caterina è la mia famiglia.” ribatté il più giovane, a voce tanto bassa che, credette, l'altro non poteva averlo sentito.

Lorenzo, invece, era riuscito a udire benissimo quello che aveva sussurrato e, appena Giovanni fu fuori dalla sua vista, scoppiò a piangere, senza, però, trovare la forza di inseguirlo e cercare di riparare le cose, impedendogli di ripartire di nuovo lasciando aperta quella spaccatura che, sotto i primi raggi del sole di quella mattina di luglio, pareva davvero insanabile.

   
 
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