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Autore: Adeia Di Elferas    09/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dopo essersi preso il suo tempo per rassicurare al meglio Ottaviano e riprendersi un minimo dal viaggio, Giovanni, prima di fare altro, aveva immediatamente voluto vedere Paolo Vitelli.

Erano nel padiglione del comandante e questi aveva appena spiegato al Medici quello che era successo prima del suo arrivo e gli equilibri che si stavano creando al campo. Aveva anche insistito con tono molto infastidito sulla necessità di gestire Achille Tiberti e 'il Conte Riario', perché il primo si comportava come se avesse ricevuto direttamente dalla Contessa l'investitura di condottieri, mentre il secondo rallentava ogni operazione lanciando minacce ai suoi, quando questi davano idea di ascoltare più Tiberti che non lui.

“Questo fatto è presto risolto.” disse il Popolano, agitando con fare quasi infastidito una mano guantata, mentre con l'altra si massaggiava un po' nervosamente le gambe, che aveva preso a fargli molto male: “Ottaviano Riario è a capo e io sono il suo primo consigliere. Tiberti è un Capitano come tanti e quindi vedrò di rimetterlo in riga.”

Gli occhietti a mezz'asta del Vitelli lo squadrarono a lungo. Trovava molto strano quel fiorentino.

Prima di tutto, non aveva capito appieno il senso del suo repentino arrivo al campo. Era mandato da Firenze? Era mandato dalla Tigre?

E poi, non aveva il fisico da soldato, ma sembrava trovarsi a suo agio, lì in mezzo agli uomini d'arme. Da quel poco che Paolo gli aveva sentito dire, era anche abbastanza sveglio e ferrato in tema di strategia e tattica. Aveva una sicurezza di sé nel discorrere di tali argomenti, che non poteva essere dovuta a un'imbeccata frettolosa di qualcuno appena prima della sua partenza.

“Molto bene.” disse piano Vitelli, incrociando le braccia, lunghe e muscolose, sul petto: “E ora passiamo alle cose serie.”

Il Medici ascoltò con attenzione il piano del comandante, che aveva individuato come maggior punto debole del nemico la strada che collegava Pisa a Cascina. Secondo lui sarebbe stato facile e, per il nemico, molto debilitante se fossero riusciti a intercettare almeno un carico di rifornimenti o di armi e colpire i veneziani di sorpresa.

Giovanni soppesò ogni parola del Vitelli, facendo di quando in quando qualche osservazione ad hoc. Anche se aveva di suo un certo senso per quelle cose – che gli era valso il favore della Francia, a suo tempo, e con esso la piccola rendita a vita concessagli da Carlo VIII – il Popolano aveva imparato moltissimo osservando e ascoltando la moglie durante i consigli di guerra e seppe sfruttare quelle nuove conoscenze al momento giusto.

Quando un molto favorevolmente impressionato Paolo Vitelli lo lasciò libero di ritirarsi, il Medici volle vedere separatamente anche Achille Tiberti.

L'uomo, appena vide il fiorentino, seduto su uno sgabello da campo, il viso tirato e gli occhi cerchiati da pesanti occhiaie, commise l'errore di sottovalutarlo.

L'aveva sempre preso per un uomo calmo e moderato, perciò, quando il Popolano si mise a gridare, Achille ebbe un momento di forte smarrimento.

Giovanni avrebbe voluto essere più conciliante, ma il dolore sordo e molto forte che provava in quasi tutto il corpo – che ormai era diventato difficile discriminare esattamente la sua origine e la sua propagazione – lo aveva reso nervoso e poco incline alla pazienza.

Nelle sue parole, precise e decise, fece capire a Tiberti di starsene al suo posto, di servire la Sforza solo come gli veniva richiesto e di non prendere iniziative personali.

“O mia moglie vi sgozzerà come un vitello, con le sue stesse mani.” concluse il Medici, ormai senza forze, con un sospiro pesante e un cenno del capo, che stava a dire che Achille doveva considerarsi congedato.

Ci mise qualche minuto per riprendersi, ma alla fine il Popolano riuscì a tirarsi in piedi e andò dai soldati della moglie. Voleva mettere in chiaro anche con loro quali fossero le esatte gerarchie della campagna.

Quando gli parve che tutti quanti avessero capito, avvantaggiato anche dalla disciplina che Caterina aveva saputo instillare nei suoi soldati e che la presenza del Medici aveva rinvigorito in tutti quanti, Giovanni si ritirò nel padiglione del figliastro che, su suo consiglio, era andato a sua volta dai suoi uomini a ribadire ulteriormente la questione.

Arrivato nella tenda, il Popolano si prese qualche momento per riprendersi. Avrebbe voluto cercare di dormire un po'. Il viaggio l'aveva sfiancato, anche se non era stato un tratto lunghissimo, e il suo morale era a terra.

Però sapeva che era indispensabile, ora che era lì, fare tutto quello che era in suo potere per difendere sua moglie e la sua famiglia. Chiamò allora uno dei suoi e gli dettò una lettera da spedirsi a Forlì il prima possibile.

“Aspettate...” disse poi, bloccando il soldato che stava già andando a cercare una staffetta rapida che potesse partire subito: “Voglio scrivere anche una lettera personale.”

“Volete che la scriva per voi?” chiese l'uomo, guardando di sfuggita le mani del Medici, adesso senza guanti, le cui dita apparivano più gonfie e arrossate che mai.

Il fiorentino fu quasi tentato di accettare, ma poi, pensando al contenuto della missiva che sentiva il bisogno di scrivere, fece segno di no e disse: “Non ci metterò molto. Aspettatemi fuori dal padiglione. Ve la consegnerò appena l'avrò chiusa.”

Così, rimasto solo, Giovanni si mise allo scrittoietto da campo e, stringendo i denti per il male e rammaricandosi per la grafia incerta che usciva dalla sua penna, scrisse direttamente a Caterina, parlandole come se l'avesse davanti a sé.

La staffetta partì abbastanza di buon'ora, assicurando che sarebbe stata a Forlì il più in fretta possibile. Il Medici aveva specificato all'uomo di aspettare la risposta alla prima missiva, affinché potesse ripartire subito, ma non della seconda.

“Ci vorrebbe troppo tempo – spiegò il Popolano, quasi con rammarico – e inoltre... Non c'è una vera risposta, quindi...”

Per il resto del pomeriggio attese che Ottaviano tornasse alla tenda e lo pregò di fargli avere qualcosa da mangiare.

Il figliastro, felice di avere una figura rassicurante come il patrigno accanto a sé, non si indispettì, come avrebbe fatto con altri, e anzi recuperò per lui quel che offriva il rancio e glielo servì con la docilità di un servo.

Il Medici in realtà mangiò poco, lo stomaco chiuso e la bocca amara, ma ringraziò ugualmente moltissimo Ottaviano, soprattutto per essere riuscito a trovargli da bere del vino che non fosse molto forte e che fosse poco speziato.

Si stava appena facendo buio e il campo ribolliva ancora di vita, ma Giovanni proprio non ce la faceva a stare ancora sveglio. Si sentiva intorpidito e rallentato e voleva dormire, nella speranza che al risveglio tanto il suo corpo, quanto la sua mente, sarebbero stati molti più freschi.

“Ti prego...” fece, rivolgendosi a Ottaviano, che, sullo sgabello, lo osservava mentre si cambiava per la notte: “Siccome vorrei riposare... Se potessi non far troppo rumore e magari evitare di ricevere gente, per stasera...”

Il Riario annuì subito e assicurò: “Spegnerò anche le luci, se volete. Baderò personalmente che non vi disturbi nessuno.”

Il Medici, che ormai vedeva solo la branda che era stata preparata per lui, gli si avvicinò e gli diede una piccola pacca sulla spalla, e, senza nemmeno accorgersene, un rapido bacio in fronte, come avrebbe fatto se quel ragazzo spaventato fosse stato davvero suo figlio e poi, con un sospirone, si coricò e si addormentò quasi subito.

Ottaviano, che era rimasto spiazzato dalla dolcezza con cui il patrigno gli aveva augurato la buonanotte, rimase seduto a fissarlo ancora a lungo, tanto da sentire la sera e poi la notte calare sul campo.

Il padiglione era ormai quasi del tutto al buio e si sentivano a mala pena gli ultimi schiamazzi dei soldati che stavano là fuori. C'erano notti, come quella, in cui il campo fiorentino pareva quasi una grande giostra. Era un po' come se stessero giocando, più che facendo una guerra. Anche se alcuni battaglioni avevano perso già dei membri, la maggior parte dei presenti non aveva ancora messo mano alla spada e dunque viveva quei giorni in relativa tranquillità.

“Allora, amico, che ne dici di...” la voce prorompente di Ottaviano Manfredi arrivò dall'ingresso del tendone come una pugnalata nel buio.

Il Riario, prima ancora di accertarsi che il patrigno non si fosse svegliato – Giovanni sembrava avere un sonno molto pesante – corse dal faentino e gli tappò la bocca: “Fai silenzio!” gli sussurrò.

Manfredi occhieggiò verso il Popolano che, coperto fino alla vita, dormiva secco: “Sono venuto a chiederti se ti va di fare un giro con me alle salmerie. Ho sentito dire che si è unita al seguito qualche donna di queste parti e...”

“Ti ho detto di fare silenzio!” ribadì il Riario, iniziando a spingere verso l'uscita l'amico: “Questa sera non vengo proprio da nessuna parte.”

Manfredi si sistemò un po' i lunghi capelli biondi e poi, con gli occhietti che sorridevano più di quanto non facessero le labbra, commentò a voce molto bassa: “Come vuoi. Si vede che sei ancora un ragazzino... Arriva il babbo e diventi un angioletto.”

Il forlivese avvertì uno strano fastidio nel sentire in qualche modo prendere in giro anche Giovanni, se non altro nel tono e nell'affettazione dell'accento toscano della voce dell'amico, perciò rispose, con una certa fermezza: “Siamo in guerra. Ci vogliono regole.”

“Ma sentilo. Non sembri nemmeno tu.” borbottò Manfredi, già uscendo, scuotendo il capo come se trovasse il comportamento dell'amico del tutto assurdo: “Saremo anche in guerra, ma non è che se stai andando incontro alla morte, devi per forza rinunciare ai piaceri della vita...”

Il Riario non disse altro, lasciandolo andare fuori e poi, per quanto gli desse sicurezza restare accanto a Giovanni, prese la spada corta che era appoggiata alla rastrelliera e andò fuori dal padiglione con uno sgabello, sedendosi davanti all'entrata.

Non era certo che il Medici stesse correndo qualche pericolo, né pensava di essere in grado di difenderlo in caso di bisogno, ma quell'uomo era l'unica persona, a parte il suo defunto padre, che, in tutta una vita, gli avesse mai dimostrato un briciolo di affetto, o che, almeno, non gli avesse mai mostrato aperta ostilità.

Dunque si mise a fare la guardia e, per la prima volta da che era al mondo, capì che significava fare realmente il possibile per proteggere qualcuno.

 

Lorenzo scosse il capo, segnando con l'indice la parte che non lo convinceva: “Qua va cambiata, non la si può lasciare così.”

“Come vorreste correggerla?” chiese il messo della repubblica, voltando appena il foglio, per vedere a quale parte si riferisse il Popolano.

Il Medici, che aveva ceduto, alla fine, alle suppliche della moglie, era andato alla Signoria per perorare la causa del fratello. Sapeva benissimo come andavano le cose, soprattutto da quando era cambiato il governo, a seguito della rovinosa caduta di Savonarola, e dunque era conscio del fatto che, senza la giusta spinta, la richiesta di Giovanni sarebbe caduta nel vuoto, finendo dimenticata nel giro di pochi giorni.

Semiramide aveva insistito tanto, arrivando perfino a convincerlo a passare la notte insieme – dopo tanto tempo – per poi dargli il tormento fin quasi a mattino fatto, e dunque, stremato, Lorenzo, appena dopo il sorgere del sole, aveva indossato il suo abito estivo migliore, aveva messo al collo la spessa collana d'oro che gli dava ancor più importanza, ed era andato verso il palazzo della Signoria, deciso a far pesare il suo cognome.

“Vorrei togliere il nome di mio fratello.” spiegò il Medici, con semplicità.

L'altro si fece pensieroso un momento, poi obiettò: “Non sarebbe legale. Il nome del marito va specificato, o la cittadinanza...”

“Voi sapete chi sono e cosa ho fatto per questa repubblica.” lo interruppe Lorenzo, che non aveva alcuna voglia di mettersi a mercanteggiare: “Se ci sono problemi, parlerò direttamente con il Gonfaloniere.”

A quel punto il messo strinse le labbra e, trattenendo visibilmente uno sbuffo, chiese un momento affinché potesse andare a chiedere proprio al Gonfaloniere se avesse tempo e modo di ricevere il Medici già quella mattina.

Nell'attesa, il Popolano venne riportato nel cortile d'ingresso, in modo che non intralciasse oltre, o almeno quella era l'impressione che si era fatto lui.

Se non fosse stato per suo fratello, che pareva tenere davvero tanto a quella cittadinanza per la moglie, il Medici se ne sarebbe andato volentieri anche in quel momento, lasciando che la pratica marcisse in fondo alla pila come tutte le altre.

Mentre aspettava, Lorenzo vide passare davanti a sé più di un segretario e di un messo della repubblica. Entravano, uscivano, si fermavano a discorrere e solo alcuni lo salutavano. Quel dettaglio, gli stava facendo nascere qualche domanda, quando, a strapparlo dai suoi pensieri, arrivò la voce di un concittadino che ormai conosceva abbastanza bene.

“Messer Medici...” disse Niccolò Machiavelli, che gli era arrivato alle spalle: “State bene?”

Lorenzo raddrizzò un po' la schiena e poi, scontroso, rispose: “Sì, perché?”

“Nulla, mi parevate un po'...” fece l'altro, una mano che correva pensosa al mento a punta e l'altra che teneva delle carte: “Non mi direte che siete in pena per vostro fratello?”

“Che c'entra mio fratello?” chiese il Popolano, facendosi ancor più ruvido, gli occhi tondi puntati in quelli da lince del suo interlocutore.

“Ho incontrato Jacopo Salviati, questa mattina e mi ha detto, chiacchierando, che adesso vostro fratello è al confine e che si unirà alla battaglia...” soppesò Niccolò, sondando le reazioni del Medici come meglio poteva, benché il suo viso fosse una vera e propria maschera: “Dunque mi chiedevo se...”

“Messer Medici...” il messo che aveva chiesto a Lorenzo di attendere era tornato e interruppe provvidenzialmente le parole di Machiavelli: “Il Gonfaloniere vi attende. Prego...”

Il Popolano si affrettò a seguirlo e, prima di sparire, si voltò un momento verso Niccolò e gli disse, tanto per ripagarlo della sua simpatia: “Dovreste tagliarvelo, quel ciuffo di capelli. Vi fa sembrare un arzatore.”

 

Caterina stava controllando i conti fatti dal suo cancelliere, mentre Luffo Numai, Cesare Feo e i Capitani che prendevano parte al Consiglio di guerra aspettavano che lei dicesse qualcosa.

Per far fronte alla carestia, la Sforza aveva dovuto spolpare in pochi giorni le riserve messe da parte per mesi e in più le febbri che stavano accompagnando quell'estate infuocata non la smettevano di mietere vittime.

Fino a quel momento, per fortuna, avevano colpito solo la parte più debole della popolazione, ma nulla poteva assicurarle che la situazione non sarebbe peggiorata.

L'esercito, privato del considerevole – almeno per i suoi numeri – contingente inviato nel pisano era molto più vulnerabile di quanto non fosse mai stato prima di allora. Le munizioni e le armi erano l'unica cosa che non le mancavano, ma temeva che prima o poi i suoi problemi sarebbero stati notati.

Se Antonio Maria Ordelaffi, per esempio, avesse subodorato il reale stato in cui verteva in quei giorni Forlì, avrebbe potuto ordinare un attacco e a quel punto forse nemmeno la rocca di Ravaldino sarebbe riuscita a resistere.

“Mia signora...” il Capitano Rossetti, che non partecipava al Consiglio perché impegnato nella ronda, era arrivato sulla porta, lasciata aperta per il caldo, e aspettava il permesso di entrare.

“Che c'è?” chiese Caterina, sollevando lo sguardo dalla mappa che stava sul tavolone centrale, su cui teneva appoggiati i palmi delle mani.

L'uomo si fece un po' da parte e lasciò intravedere una staffetta che, da quanto pareva provata, doveva essere appena arrivata: “Due lettere dal fronte. Una richiede una risposta immediata.”

La Contessa deglutì, quasi tentata di chiedere a tutti di uscire, per poter leggere le parole di Giovanni per conto suo, ma alla fine ordinò: “Leggete a voce alta quella che richiede risposta immediata.”

Fu il castellano a prendere in mano la situazione. Afferrò le missive, si fece dire quale fosse quella urgente, l'aprì in fretta e cominciò a leggere a voce alta.

Si trattava di un riassunto della situazione al campo e una notifica di quello che il Medici aveva fatto al suo arrivo. L'unica cosa che fosse una vera e propria domanda, riguardava l'impegno che gli uomini della Sforza avrebbero dovuto avere nelle battaglie a venire.

Caterina si morse il labbro e poi, sospirando, guardò di nuovo la mappa, cercò di valutare in fretta la questione e poi concluse: “Dite a mio marito che i nostri uomini dovranno essere in ogni scontro importante. E mio figlio li dovrà guidare.”

La staffetta annuì, già spiritualmente pronta per tornare sui suoi passi, quando, appena prima di vederlo sparire, la donna sollevò una mano e aggiunse, il collo che prendeva un po' di colore: “E ditegli... Ditegli di stare attento.”

L'uomo annuì e fece un mezzo inchino, per poi ripartire all'istante. Nel frattempo, il castellano porse alla Tigre l'altra lettera.

La Sforza sospirò e poi, capendo che non sarebbe riuscita a concentrarsi, sapendo che la lettera di suo marito l'aspettava, dichiarò: “Per adesso il Consiglio è chiuso. Vi farò sapere quando sarà riconvocato.”

Senza aspettare oltre, Caterina andò di volata nella stanza che aveva condiviso con Giovanni da che erano sposati e che, ora che era da sola, usava solo saltuariamente, trascorrendo quasi ogni notte o nella stanza di Ludovico, o in quella delle letture o, addirittura, alla Casina.

Era tardo pomeriggio eppure il caldo non demordeva. Così spalancò la finestra e si sedette sul letto.

Aprì la lettera con delicatezza, come avesse paura di romperla, e cominciò a leggere. Notò subito la grafia del marito, benché fosse un po' stentata in alcuni punti e capì dopo poche righe che l'aveva scritta si persona perché non voleva che altri sentissero le sue parole.

Dopo una prima parte in cui la rassicurava, dicendole che, malgrado qualche piccolo acciacco, non stava poi tanto male, c'era un lungo paragrafo centrale in cui si perdeva a ricordare le ore che avevano passato insieme prima della sua partenza e poi, andando più indietro, il loro matrimonio e la prima volta che si erano amati. In certi punti scendeva tanto nei dettagli che la donna si sentiva avvampare e la mancanza del marito si faceva quasi insopportabile.

Era un messaggio molto lungo, che doveva essergli costato molta fatica, tanto che le ultime righe erano scritte con una grafia pessima, per quanto ancora leggibile.

L'ultima parte era dedicata a Ludovico. Benché il Medici pareva essersi imposto di non apparire troppo sentimentale, le parole con cui descriveva la voglia di rivedere e riabbracciare il figlio, fecero scivolare qualche lacrima dagli occhi della Sforza.

Arrivati all'ultima riga, gli occhi verdi di Caterina si fermarono sulla firma 'il tuo Giovanni'. Anche se sapeva che quel gesto era inutile, istintivamente baciò il nome del marito e poi tirò su col naso, asciugandosi le guance con la manica dell'abito.

'Pensami la notte, ch'io penserò a te al medesimo modo'. Chiudeva il Popolano, appena sotto la firma.

La Tigre passò lentamente la punta dell'indice su quella richiesta, messa lì come per caso, ma che, lo sapeva, doveva essere scaturita con forza dal cuore del marito.

Richiuse la lettera, mettendosela sul cuore e si abbandonò sul materasso, fissando il soffitto. Dopo qualche minuto, la riaprì e rilesse la parte centrale, quella più esplicita, tanto da non sembrare nemmeno opera della penna di Giovanni. Con un sospiro, si abbandonò ai ricordi e si chiese quando e sé l'avrebbe potuto riabbracciare.

 

Quella mattina, Giovanni si era finalmente svegliato in piena forma. Ci aveva messo qualche giorno a riprendersi da viaggio, ma poi, a parte qualche doloretto ormai fisso, aveva ritrovato una certa voglia di fare.

La staffetta era tornata quel giorno, presto, e aveva riferito le parole di Caterina. Il Medici aveva annuito appena, già aspettandosi quel genere di ordine, e poi, come combattuto, aveva fermato l'uomo che aveva riportato il messaggio e gli aveva fatto una domanda che esulava un po' dai piani bellici della Sforza.

“Come stava mia moglie?” gli chiese, in un sussurro appena udibile.

Erano soli, nel padiglione, visto che il Popolano era riuscito a convincere Ottaviano ad andare a ispezionare i suoi soldati assieme a un paio di Capitani.

La staffetta alzò appena le spalle e poi cercò di descrivere quello che aveva visto: “Bellissima come sempre, anche se un po' preoccupata.”

Giovanni annuì e poi soggiunse: “E mio figlio? Avete avuto notizie di lui?”

Il soldato si lasciò scappare un mezzo sorriso e confermò: “Prima di andarmene ho incontrato madonna Bianca...” sorvolò sul fatto che conosceva abbastanza bene la figlia della Contessa perché, quando aveva prestato servizio alla rocca, la ragazza spesso aveva giocato con lui ai dadi: “E in effetti lei mi ha detto di dirvi che messer Ludovico è in piena salute e aspetta il vostro ritorno.”

Giovanni fece un sorriso triste, ringraziò la staffetta e poi si preparò per la riunione indetta da Paolo Vitelli. Dovevano decidere il da farsi e il Medici aveva capito che si sarebbe deciso per attaccare.

Adesso che aveva avuto la conferma della linea di Caterina, poteva prendere una decisione con il cuore più leggero.

Il Consiglio durò parecchio, tanto che a metà, più per sedare un po' gli animi che altro, il comandante ordinò un momento di pausa.

“Il discorso è questo.” disse Paolo Vitelli, a un certo punto, prendendo in disparte Giovanni, mentre Ottaviano era intento a parlottare con Manfredi: “Il Conte non è affidabile.”

Il fiorentino capiva bene le perplessità di Vitelli. Si stava pensando di attaccare sulla strada che portava da Cascina a Pisa, in località Valiceno, ma per farlo si doveva avere una precisione e una coordinazione perfette.

Mettere i soldati della Tigre nelle mani di Ottaviano, in una situazione tanto delicata, sarebbe parso un azzardo a chiunque.

“Capite bene che i vostri uomini mi servirebbero, ma...” proseguì Vitelli, il naso lungo che fendeva l'aria calda di quel finale di luglio.

Il Medici sentì il cuore battere in modo irregolare per qualche istante, ma non vi fece caso. Era solo l'agitazione, perché sapeva già come avrebbe gestito la cosa.

Sua moglie si fidava di lui e aveva accettato di farlo partire solo per portare a termine un compito ben preciso: Ottaviano doveva farsi un nome e per farlo doveva combattere.

“Non abbiate paura per il Conte Riario.” disse Giovanni, sentendo la sua voce come se fosse quella di qualcun altro: “Sarò al suo fianco alla testa dell'esercito.”

Vitelli puntò i suoi occhi freddi in quelli quasi trasparenti del Popolano e poi, con una smorfia che pareva quasi divertita, fece un soffio e ribatté: “Se le cose stanno così...”

Il fiorentino fece segno di sì e il comandante non ebbe più nulla da obiettare, anzi, quando divise i compiti per l'agguato, dopo aver fatto passare in rassegna metà dei condottieri, concluse: “Quindi, Ludovico della Mirandola starà sul fianco e voi...” e indicò Ottaviano Riario, benché i suoi occhi fossero corsi a Giovanni, che gli stava accanto: “Starete nel gruppo di sfondamento assieme a me.”

Il figlio della Tigre deglutì rumorosamente e sbiancò.

Il Medici, che se ne accorse subito, gli posò una mano guantata sulla spalla e, mentre Vitelli passava oltre, dando gli ultimi incarichi e rivedendo i dettagli dell'operazione, gli sussurrò all'orecchio: “Io sarò al tuo fianco. Ti proteggerò come potrò. E tua madre sarà fiera di te.”

   
 
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