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Autore: Adeia Di Elferas    18/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il papa sembrava aver trovato la quadra, in merito a tutta la questione che riguardava suo figlio Cesare.

Solo qualche giorno prima il Santo Padre aveva istituito una commissione che andasse a revisionare il matrimonio del re di Francia, con la finalità di annullarlo per permettergli di prendere una moglie che fosse più di suo gradimento.

In cambio, con continue rassicurazioni del legato speciale mandato dal francese, Luigi XII si impegnava formalmente a favorire l'ascesa politica del giovane Borja, nonché a spingerlo militarmente e finanche trovargli un buon partito in Francia.

Anche se Rodrigo non voleva separarsi da suo figlio, sapeva che recarsi alla corte del re sarebbe stata per lui una buona cosa e, ancor di più, imparentarsi con la nobiltà francese.

Tuttavia restava ancora l'annosa questione dello scioglimento dei suoi voti e, malgrado il padre fosse certo che il figlio sarebbe stato entusiasta di levarsi di torno la pesante cappa di Santa Madre Chiesa, Cesare sembrava tergiversare.

Anche quella sera, mentre il papa si godeva il venticello fresco che, finalmente, a sole calate spirava dalla finestra del balcone aperta, il figlio stava mugugnando ed esponendo tutte le sue perplessità.

“Non accetteranno mai quello che dirò...” stava borbottando il giovane, facendo passi nervosi e poi bloccandosi di colpo per agitare in aria una mano: “E poi mi faranno arrabbiare e non sarò più in grado di mantenere la calma e andrà a finire che...”

Rodrigo teneva gli occhi socchiusi, come se le lamentele del figlio non fossero altro che il ronzare fastidioso di una mosca. Cesare, da quanto Lucrecia si era risposata, era più intrattabile del solito e il pontefice aveva deciso di soprassedere.

Morto Juan, essendo Jofré ancora troppo giovane e troppo ingenuo, poteva contare solo su quella pietra grezza che si trovava davanti e dunque non era il caso di essere troppo duro con lui, in quel momento.

Tuttavia, un minimo di disciplina era necessaria.

Poteva chiudere un occhio sui suoi passatempi notturni, benché per un papa non fosse semplice sopportare i pettegolezzi che volevano il figlio un novello Giulio Cesare, ovvero 'marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti'.

Poteva anche far finta di non vedere come il giovane spendeva soldi in feste e vestiti, attirandosi le ire di quelli che non potevano permettersi di fare altrettanto.

E poteva anche sopportare la gelosia che Cesare dimostrava verso Lucrecia, anche quando, inavvedutamente, si metteva a battibeccare con lei in presenza di testimoni.

Malgrado tutto ciò, però, non poteva più sopportare la sua indecisione. E così, quella sera, annusando l'aria che profumava d'agosto, perse la pazienza.

“Ti scriverò io quello che dovrai dire davanti al concistoro.” fece Rodrigo, facendo vibrare le grosse nari e sollevando finalmente lo sguardo verso il figlio: “Ma dovrai leggere esattamente quello che scriverò. E dovrai essere credibile.”

Il giovane Borja smise di camminare nervosamente per la stanza e, la metà del viso segnata dal mal francese bagnata dalla luce della luna che rischiarava Roma, parve sul punto di controbattere.

Il Sommo Pontefice sollevò l'indice, ammonitore e, senza bisogno di alzare la voce, suonò abbastanza perentorio quando sottolineò: “Hai solo questa possibilità. Vedi di giocartela bene. Se vuoi essere davvero il mio braccio armato e l'erede del mio impero, devi imparare a rispettare gli ordini che ti do.”

Cesare, a quel punto, non sentì la forza di dire più nulla e, con un profondo inchino, chiese silenziosamente al padre il permesso di ritirarsi.

Non appena Rodrigo l'ebbe scacciato con uno sbuffo, il giovane andò quasi di corsa verso i suoi appartamenti. Sentiva che i tempi stavano accelerando e dunque non era più tempo di aspettare.

Sedutosi alla sua scrivania, sotto la luce di due candele, prese il necessario per scrivere e, con toni molto accesi e accorati, vergò una missiva urgente da consegnarsi al suo fraterno amico, Miguel de Corella, affinché facesse il possibile per raggiungerlo non appena potesse.

 

Il campo fiorentino era in completo fermento. Erano da poco arrivati i rinforzi promessi dalla Repubblica e Paolo Vitelli aveva trascorso la mattina passando in rassegna bombarde, passavolanti, sacchi di polvere da sparo, frecce e verrettoni.

Sembrava che la Signoria, dopo la netta vittoria a Valiceno, stesse davvero credendo in lui e quell'investimento ne era la prova più concreto.

Ludovico della Mirandola era stato mandato a Poggibonsi, dove aveva iniziato ad allestire un campo, in attesa che Giampaolo Baglioni e Ranuccio da Marciano gli si congiungessero.

“Cinquanta mila ducati – confermò Jacopo Pitti, che stava per partire anche lui alla volte di Poggibonsi, annuendo con serietà al comandante generale dei fiorentini, quando questi gli chiese che cifra portasse con sé – per la paga dei soldati.”

Quel commissario era arrivato al campo per scortare i rifornimenti e le armi, ma quello che interessava di più agli uomini del Vitelli era sicuramente la grande cassa piena di denaro che trasportava sul suo carretto personale.

Sentito ciò che il Pitti aveva da dire, gli occhi altrimenti un po' spenti di Paolo Vitelli si rianimarono e, con un paio di ordini, organizzò subito il tavolo della paga, andando poi avanti a discorrere con il messo fiorentino, principalmente per aggiornarsi sull'aria che tirava alla Signoria.

La circolazione di moneta sonante aveva dato ancor più fiducia alla maggior parte dei soldati del campo, anche se, quel dispiegamento di armi lasciava intendere solo una cosa: che il comandante aveva in programma una nuova manovra e che, questa volta, sarebbe stata molto più su larga scala.

“Se ci sarà bisogno – disse Giovanni, masticando un pezzo di formaggio secco che Ottaviano gli aveva recuperato nelle salmerie – dovremo essere pronti.”

Giusto il giorno prima, di comune accordo con il figliastro e con alcuni dei Capitani, il Medici aveva deciso di ordinare ad Achille Tiberti di tornare a casa. La sua presenza rischiava giorno dopo giorno di destabilizzare i soldati che avevano al seguito e secondo Giovanni quello era un rischio che non andava corso.

Malgrado la strenua fedeltà degli uomini scelti da Caterina per quella campagna, le parole al veleno che il cesenate sputava contro di lei, ricordando a tutti come fosse stato liberato per volontà fiorentina e non di certo per intercessione della Tigre, sembravano capaci di mettere a rischio la coesione della truppa.

“Ora più che mai dobbiamo dimostrare di essere indispensabili alla vittoria.” proseguì il Popolano, facendo un respiro fondo: “Quando ci siederemo al tavolo della pace, dobbiamo poterlo fare avendo voce in capitolo.”

Il Riario, accaldato per via dell'afa insopportabile d'agosto, annuì in silenzio e poi guardò di sottecchi il patrigno.

Il Medici mangiava lentamente, quasi facesse fatica. Anche se non lo voleva mostrare, il suo viso tradiva la sua insofferenza. Era smunto, cereo ed era chiaro che, in fondo, non si era ancora ripreso dalla sua prima battaglia.

Indossava un camicione un po' sporco, fradicio di sudore, e cercava di stare seduto dritto sullo sgabello, anche se era chiaro che quella posizione gli costasse una grande fatica.

Ottaviano, di notte, lo aveva sentito agitarsi spesso nel sonno e borbottare delle cose, ma, soprattutto, lo aveva sentito svegliarsi di soprassalto e poi respirare veloce, in affanno, rigirandosi nella branda come se non trovasse una posizione che lo sollevasse dal dolore che gli attanagliava piedi, gambe e mani.

“Voi sarete al mio fianco?” chiese Ottaviano, deglutendo rumorosamente.

“Se si attaccherà?” fece Giovanni, pleonastico, tanto per prendere tempo, prima di soffiare: “Non vedo perché no.”

Mentre il fiorentino deglutiva l'ultimo pezzetto di formaggio, il Riario si passò una mano sui capelli corti, che sentiva ancora come estranei a sé, e poi diede voce alla preoccupazione che ormai lo attanagliava da giorni: “Siete sicuro di farcela? State bene..?”

Il Popolano si morse il labbro. Il figliastro era visibilmente atterrito all'idea di non averlo al suo fianco, e dunque avrebbe voluto assicurargli la sua presenza senza indugio alcuno.

Tuttavia, non poteva essere certo di essere in grado di prestargli sempre il suo aiuto. In quegli ultimi giorni aveva notato un gonfiore alle gambe che non aveva mai avuto prima. Si era anche reso conto di avere spesso il fiato corto, anche per sforzi lievi, e urinava molto meno di quanto avrebbe dovuto. Si sentiva sempre stanco, e, quando per necessità passava qualche ora in compagnia di Capitani o comandanti del campo mostrandosi bene o male abbastanza in forma, la pagava poi con ore di torpore e sonnolenza.

Tutti quei sintomi gli ricordavano troppo da vicino i racconti che aveva sentito sulle ultime settimane di vita di suo cugino, Lorenzo il Magnifico. E così, per evitare di cadere in una crisi di panico, semplicemente cercava di non pensarci.

“Non lo so.” ammise, convinto che la verità fosse sempre meglio di una menzogna.

Ottaviano annuì appena. Immaginava già una risposta del genere.

L'aria nel loro padiglione sembrava essersi rarefatta. Da fuori arrivava il vociare dei soldati e il caldo si infilava anche sotto la spessa stoffa del tendone, tuttavia tanto al Medici quanto al Riario pareva di essere in una bolla estranea al mondo.

“Farò quello che posso, come posso e finché posso.” sussurrò alla fine Giovanni, con uno strano nodo che gli stringeva la gola: “E quando non potrò più... Non lo farò più.”

Il ragazzo annuì con un cenno del capo e poi, mentre il fiorentino cambiava drasticamente argomento, chiedendo ragguagli sui pezzi di artiglieria arrivati da Firenze, Ottaviano fece del suo meglio per ricacciare in fondo all'anima il peso che quell'affermazione portava con sé.

 

Il sole era alto e rendeva la cima delle montagne quasi brillante. Faceva caldo, ma più la colonna di soldati si inerpicava per i sentieri stretti quanto mulattiere, più l'aria si rinfrescava.

Bartolomeo d'Alviano era smontato da cavallo quasi subito, deciso a farsi vedere appiedato, come la maggior parte dei soldati che lo seguivano.

Trovava che facesse bene al morale della truppa, vedere che anche chi stava al comando stava faticando. Era una vecchia lezione che aveva imparato in prima persona, quando aveva seguito da ragazzino le imprese del cognato Virginio, primo tra tutti, nel suo esercito, a essere pronto a spaccarsi la schiena. E poi anche sua moglie, Bartolomea, con la dedizione che metteva nella cura del suo castello e delle sue difese, gli aveva inculcato questo prezioso ammonimento.

Così, avanzando a passo spedito, continuando a passare dalla coda alla testa della colonna e viceversa, Bartolomeo si faceva vedere da tutti i suoi uomini e instillava in loro la convinzione di essere appoggiati e sostenuti.

Questa suggestione era ancora più di vitale importanza, in quell'inizio di agosto. Stavano andando verso Tagliacozzo e da lì fino a L'Aquila, dove avrebbero dovuto forzare le resistenze della città, appoggiando i fuoriusciti contro quelli ancora trincerati dentro le mura.

Si trattava quasi di una punizione per la sua irrequietezza, l'Alviano lo sapeva fin troppo bene e un po' si sentiva in colpa verso i suoi soldati che si trovavano così ad affrontare un viaggio stancante e una campagna che probabilmente si sarebbe dimostrata inutile.

Qualche settimana prima, Bartolomeo aveva attaccato il castello di Porchiano, ma aveva contravvenuto ai patti fatti sia con il cognato Giampaolo Baglioni, sia con Giulio Orsini, che era tra quelli che pagavano la sua condotta.

Doveva essere un'azione lieve, quasi un diversivo, e invece lui si era fatto prendere la mano e aveva demolito una parte delle mura della città, depredando – senza averne avuto l'ordine – tutto il bestiame che aveva trovato.

Anche quando Giulio si era lamentato apertamente con lui, l'Alviano era andato avanti imperterrito, scoprendosi capace di incanalare la rabbia nella guerra e infliggendo, assieme a Ferrante Farnese che lo affiancava, oltre duemila ducati di danno ai suoi avversari.

A fine luglio, poi, per cercare di calmarlo e farlo ragionare, gli era stato mandato il protonotario apostolico Giovanni Olivieri, commissario del legato di Perugia.

Bartolomeo, saputo del suo arrivo, non l'aveva nemmeno voluto ricevere.

E così, nel giro di poche ore, gli era arrivato l'ultimatum. Gli si ingiungeva di andare a L'Aquila, abbandonando il fronte su cui era impegnato, e scaricare le proprie energie là.

L'uomo, dopo un primo momento in cui aveva rifiutato l'idea, si era reso conto che a disubbidire di nuovo avrebbe rovinato tutto quanto. Gli era costato troppo, davvero troppo, risposarsi per poter far sfumare tutto per un colpo di testa.

Così aveva preparato i suoi ed era partito.

Mettendo un piede davanti all'altro, sul sentiero pieno di sassi, Bartolomeo non faceva altro che ripensare a Bartolomea e come fosse morta. Poi ripensava a Pantasilea, con cui aveva condiviso il letto una sola volta, e a come si fosse sentito, una volta legatosi a lei. Pensò a suo figlio Marco e a come fosse per lui un mezzo sconosciuto, benché avesse il suo sangue e quello della sua amatissima Bartolomea.

Dicevano tutti che fosse diventato più taciturno e duro che mai. Non poteva dar loro torto. Si rendeva conto per primo di essersi fatto ancor più stringato e inflessibile che mai. E non poteva farci nulla. Era come una reazione di difesa dietro cui si era trincerato e dalla quale si sentiva difeso.

Non voleva tornare dalla sua seconda moglie, ma sapeva che a guerra finita avrebbe dovuto farlo.

Una discendenza legittima sarebbe stata l'unica cosa che l'avrebbe messo saldamente nelle fila dei Baglioni, permettendogli di acquisire potere e, con quello, sicurezza. Era ciò che Bartolomea voleva per lui e dunque era per lui indispensabile arrivarci.

Rimasticando rabbia e nervosismo, Bartolomeo tornò alla testa della colonna e, guardando per un momento il sole che batteva sopra la sua testa, si chiese cosa ne avrebbero fatto di lui, gli astri che giocavano con la vita degli umani.

 

Caterina si passò la pezza bagnata di fresco sulla fronte. Le febbri non le stavano dando tregua, ma da un paio di giorni le permettevano, se non altro, di ottemperare a molti dei suoi doveri.

Doveva stare spesso coricata e sua figlia Bianca non perdeva occasione di aiutarla e dedicarle attenzioni, arrivando quasi a sorprenderla.

Conosceva la natura fondamentalmente caritatevole della figlia e sapeva molto bene quanto fosse propensa a tendere una mano a chi ne aveva bisogno, ma, visti tutti i loro trascorsi, non si era aspettata una simile solerzia.

A tratti, soprattutto quando si era ripresa dopo essere stata di nuovo priva di coscienza, le era quasi parso di scorgere negli occhi blu scuri della figlia un certo senso di colpa. Ricordava molto bene come anche Bianca, malgrado tutto, fosse stata complice, più o meno animosa, dei suoi fratelli, nell'uccidere Giacomo. Lei aveva sempre voluto dimenticarsene e far finta che non fosse così, perché non voleva odiare pure lei. Però, in quegli sguardi nervosi, in quel tono di voce sottile e che le avrebbe dovuto infondere coraggio, Caterina sentiva chiaro e forte un tentativo di Bianca di farsi perdonare una volta per tutte.

Su ordine espresso della Sforza, poi, la ragazza le portava spesso Ludovico. Caterina non aveva paura di contagiarlo, perché si era convinta che il suo male avesse poco a che fare con una malattia precisa e così non si negava il piacere di passare qualche ora con il figlio più piccolo accanto.

I suoi altri figli, in quel frangente, stavano reagendo in modi molto diversi. Da quando si era ritirata in pianta quasi stabile nella sua stanza, uscendone solo raramente per andare a controllare il lavoro di addestramento delle truppe, Cesare non le aveva fatto visita nemmeno una volta.

Galeazzo, su suo stesso suggerimento, si stava sfinendo con gli addestramenti e, di quando in quando, aveva preso parte al Consiglio Cittadino, con la scusa di fare da portavoce della madre, se necessario.

Quando la Tigre aveva chiesto a Luffo Numai come se la stesse cavando suo figlio, l'uomo le aveva risposto senza ombra di affettazione: “Benché messer Galeazzo sia poco più che un bambino, sta dimostrando di sapere già che vuole dire, essere al comando.”

Questa considerazione aveva scaldato tanto il cuore della madre che, si diceva da sola, forse era in parte merito suo se si stava riprendendo, per quanto lo stesse facendo molto a fatica.

Sforzino, invece, sembrava imbarazzato. La voleva incontrare tutti i giorni, così almeno dicevano le balie da cui non si staccava mai, però, quando arrivava nella sua stanza, finiva per restare in silenzio e andarsene dopo poco, come se gli fosse bastato vedere che era ancora viva.

Questione tutta a parte era Bernardino. Il bambino, che dalla partenza di Giovanni si era fatto molto più schivo e guardingo, era stato dalla madre in tutto un paio di volte e – Caterina ne era rimasta molto colpita – in entrambe le occasioni l'aveva fissata in modo strano. I suoi grandi occhi l'avevano squadrata e poi, prima che si riempissero di lacrime, si erano fatti duri e il piccolo, senza dire altro, era scappato fuori dalla stanza.

La Contessa si era arrovellata parecchio, nelle ore passate insonni con pezze bagnate in testa e i brividi della febbre che la scuotevano, e alla fine aveva capito che cosa ci fosse di così particolare nello sguardo di quel figlio: paura.

“Dunque abbiamo pensato – stava dicendo il cancelliere Cardella – di farvi raffigurare vostro figlio Ottaviano a cavallo, in assisa di Capitano.”

La Sforza guardò di sfuggita la medaglia che lei stessa aveva ordinato di far coniare. Non riusciva a rivedere suo figlio nell'uomo spavaldo e aitante che era stato impresso nel metallo.

Tuttavia, dopo un ultimo sguardo, che la fece solo sentire peggio, al pensiero della discordanza tra realtà e finzione, fece un cenno al cancelliere e concluse: “Va benissimo come l'avete fatta fare.”

L'uomo, allora, fece un inchino e se ne andò, felice di poter riferire ai coniatori che il loro lavoro era stato apprezzato dalla Contessa.

Bianca ricomparve sulla soglia. Per discrezione, aveva lasciato la madre parlare da sola con il suo cancelliere.

“Potevi restare...” disse piano la Leonessa, cercando di rimettersi dritta nel letto, le spalle contro la testiera e un paio di cuscini dietro la schiena: “In fondo sono cose che riguardano tutti noi...”

“Non volevo impicciarmi.” fece la ragazza, portandole un calice colmo di acqua fresca aromatizzata: “Non sta bene per me voler ascoltare certi discorsi.”

Caterina bevve con un po' di fatica quel liquido che, in fondo, le diede un certo sollievo. Poi alzò lo sguardo verso Bianca.

La stanza era illuminata dal sole d'agosto e l'aria sembrava rarefatta. Faceva caldo, eppure la Tigre sentiva dentro di sé un brivido gelato, anche se, se ne rendeva conto, tutti gli altri nella rocca si stavano sciogliendo per l'afa.

“Non devi sempre pensare a cosa sta bene e a cosa no.” la riprese la Contessa, che avrebbe sperato di vedere nella figlia ancora quella viva e fresca curiosità che le era stata propria fino a pochi anni prima: “Devi sempre essere al corrente di quello che ti capita intorno. Non ti ho cresciuta per essere un'insulsa dama di corte, ma una donna.”

Bianca non la guardò rimettendo il calice sul mobile e poi sistemandosi sulla sedia accanto al letto, le mani in grembo e un'espressione tranquilla in viso. Aveva capito cosa intendesse dire sua madre, tuttavia avrebbe voluto rimbeccare in molti modi, partendo dal fatto che era stata spesso assente e arrivando a dirle che non tutti potevano essere come lei, una donna capace di tenere in pugno uno Stato in un mondo di uomini.

Alla fine, invece, fece prevalere la sua indole pacifica e commentò: “Avete ragione.”

La Tigre non era molto convinta dal tono della figlia, ma, nel muoversi un po' nel letto, sentì tutti i muscoli dolere e così le scappò un piccolo gemito, al quale, pronta come una scheggia, Bianca si alzò di scatto dalla sedia e le si avvicinò chiedendole come stesse.

“Sto bene, per Dio... Bene...” borbottò Caterina, spostandosi dalla fronte una ciocca di capelli – più bianchi che biondi – e poi, le fece segno di rimettersi seduta.

Il silenzio che si stava protraendo tra loro portò la donna a guardare di nuovo verso la figlia. E rimase abbastanza sorpresa nel vedere che Bianca la stava osservando con intensità.

“Che c'è?” le chiese, sentendosi quasi messa a nudo da quello sguardo.

“Come state?” ripetè la ragazza, con voce bassa.

La madre comprese che ribadire quello che aveva già detto sarebbe stato inutile, così sospirò e, con fatica, ammise: “Il mio corpo mi sta tradendo. Io l'ho sfruttato per anni, dando sempre per scontato che mi avrebbe sorretta fino alla fine, e adesso mi trovo qui, tanto debole da non riuscire nemmeno a stare in piedi...”

La Riario annuì, abbassando lo sguardo e poi chiese: “Siete in pena per messer Giovanni?”

A quella domanda, la Sforza strinse il morso e si prese un minuto prima di rispondere. La paura che provava per il marito era come un tarlo costante, che non la lasciava mai.

Ogni volta che arrivava un messaggio, temeva sempre di sentirsi dire che Giovanni era morto in battaglia, o che aveva avuto una crisi e non l'aveva superata. Era una paura così costante che a volte sembrava quasi un dolore fisico.

Però non ne aveva parlato con nessuno, facendo anzi finta di non esserne minimamente impensierita. Se qualcuno le nominava il marito, si metteva la sua maschera di sicurezza e diceva di essere molto contenta dei risultati che stava conseguendo, senza aggiungere altro.

“Sì.” disse solo, deglutendo.

Bianca annuì e poi fece: “Anche io. Mi manca.”

Caterina avrebbe voluto farla tacere. Sentir parlare a quel modo di Giovanni le metteva addosso ancora più ansia. Era quasi come se avessero chiuso il sepolcro ancora prima di riempirlo, quando lei, invece, aspettava con tutta se stessa di vederlo tornare e, una volta tornato, di non permettergli mai più di lasciarla.

La Leonessa stava per aggiungere qualcosa, quando qualcuno bussò. Disse allora alla figlia di andare ad aprire e di restare, nel caso di fosse trattato di ragioni di Stato.

Il Capitano Mongardini entrò nella camera con un inchino. Aveva portato con sé una ventata di caldo e di polvere, che stava a indicare che fosse appena tornato da una ricognizione.

“Achille Tiberti, mia signora...” fece, guardando la Contessa che, stesa a letto, coperta fino alla vita e bianca più del lenzuolo, gli mise quasi tristezza.

“Che ha fatto?” chiese la Sforza, trasecolando nel sentire quel nome.

“Ecco... Una staffetta stamattina è arrivata per dire che Tiberti stava tornando, su ordine di vostro marito – spiegò Mongardini, l'elmo sotto il braccio e ogni tanto uno sguardo anche a Bianca che, compita e silenziosa, se ne stava nel suo angolo ad ascoltare – ma ci è stato riferito, e io ho controllato di persona presso fonti affidabili, che ha aggirato Forlì ed è andato direttamente a Cesena.”

Quelle parole ebbero due effetti contrastanti in Caterina. In prima battuta, arrivò la perplessità. Non capiva come mai Giovanni avesse voluto mandar via un soldato valido come Tiberti dal campo, soprattutto dopo che Firenze stessa era riuscita a farlo liberare.

E in seconda battuta, invece, arrivò la rabbia.

“Come si è permesso!” sbottò, alzandosi di colpo, sorprendendo tanto la figlia, quando il Capitano Mongardini: “Se gli era stato ordinato di venire a Forlì, doveva venire a Forlì!”

L'uomo allargò le braccia e poi chiese: “Volete che mandi degli uomini ad arrestarlo?”

La Contessa era tentata, ma temeva incidenti con la nobiltà di Cesena, ed era l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento.

Così, dopo un respiro profondo, sentendo già le gambe tremare per la debolezza, si risedette sul letto e disse, perentoria: “No. Aspettiamo qualche giorno. Dopodiché gli scriverò personalmente.”

Mongardini annuì, non sapendo cosa fosse peggio, per il povero Tiberti e poi, chiesto se potesse fare altro e congedato, lasciò la camera.

“Avete intenzione di punirlo?” chiese Bianca, aiutando la madre a ricoricarsi.

La Tigre avrebbe voluto dire di sì, ma poi chiuse un momento gli occhi e domandò: “Tu che faresti?”

“Io non saprei.” rispose la giovane Riario, con sincerità.

“Per ora voglio pensare a riprendermi.” tagliò corto la Contessa, capendo che dalla figlia non avrebbe ottenuto spunti utili: “Appena Giovanni mi scriverà per spiegarmi perché ha allontanato Tiberti dal campo, vedrò cosa fare.”

E detto ciò, fece capire a Bianca che desiderava riposare e così la figlia, promettendole che sarebbe tornata più tardi, la lasciò sola a rimuginare.

   
 
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