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Autore: Adeia Di Elferas    20/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano si svegliò, smosso da un brutto sogno. Nel padiglione c'era un silenzio tutto particolare e al giovane bastò poco per capire che quella calma era legata all'assenza del Medici.

Dopo aver scrutato nel buio quasi perfetto della tenda ed essersi reso conto che il patrigno non era nella sua branda, la mente del Riario venne attraversata da tutta una serie di valutazioni, una peggiore dell'altra, che lo portarono a mettersi in fretta in piedi.

Infilò le brache e uno dei giubbetti che teneva accanto alle armi e poi, indossati anche gli stivali, andò all'ingresso del padiglione.

Sapeva che Giovanni se la cavava benissimo anche da solo, ma lo aveva visto troppo in difficoltà, in quei giorni, per poter stare tranquillo nel non vederlo in tenda di notte.

“Messer Medici..?” chiese, rivolgendosi al soldato che faceva da guardia lì fuori.

Questi, che si era messo a sedere e stava quasi per addormentarsi, si alzò di scatto e, cercando di ridarsi un contegno militare, rispose: “Ha lasciato il padiglione un po' di tempo fa. Mi ha detto che sarebbe tornato prima dell'alba.”

Ottaviano sospirò. L'aria profumata d'agosto gli riempì i polmoni e, mescolati ai dolci aromi di fiori ed erba, sentì nitidamente anche tutti gli odori che un campo di soldati portava con sé, da quelli spiacevoli come il tanfo degli abiti sporchi, a quelli più gradevoli, come gli ultimi effluvi che arrivavano dalle salmerie.

Indeciso sul da farsi, il ragazzo si vide davanti agli occhi sua madre, che lo accusava di aver messo in pericolo Giovanni e di non essersi preoccupato per lui. Così, a malincuore, si strinse un po' nelle spalle e disse alla guardia che sarebbe tornato presto anche lui.

Attraversò gran parte del campo senza sapere davvero dove cercare. Se per qualche motivo il Medici fosse stato nel padiglione di qualcuno, non avrebbe mai potuto scoprirlo.

Passò accanto a decine e decine di soldati che sonnacchiavano all'aperto, certi perché di lega troppo bassa per avere una tenda, certi per godersi il fresco della notte. Ne vide molti giocare ai dadi, benché Paolo Vitelli l'avesse espressamente vietato, e ne trovò ancora qualcuno intento a sistemare le proprie armi e armature alla luce di una torcia.

Siccome non aveva visto il patrigno da nessuna parte, fece un ultimo tentativo, per quanto credesse l'idea impossibile.

Passò dalle salmerie, ma non lo trovò, e da lì andò in coda al campo, laddove stanziava la varia umanità che si era messa al seguito dell'esercito.

Ottaviano conosceva abbastanza bene quella parte dell'accampamento e così riuscì a fare un'ispezione abbastanza accurata, e, con suo sollievo, non trovò il Popolano nemmeno lì.

Stava già riallontanandosi, di nuovo attanagliato dai dubbi su dove fosse Giovanni, quando una mano gli si posò sulla spalla e, in quella stretta, riconobbe quella del suo amico Manfredi.

Il giovane era a torso nudo, l'alito che sapeva di vino e, quando il Riario si voltò a guardarlo, gli disse, inclinando il capo e facendo ondeggiare un po' i lunghi capelli biondi: “Cerchi una donna? Se vuoi te ne consiglio io una che...”

“Sto cercando il mio patrigno.” lo interruppe il forlivese: “Scusami, ma non ho tempo...”

Manfredi si accigliò, e, alzando appena la voce, mosse un passo verso l'altro, che stava già andando via: “L'ho visto, sai... Prima... Mi sembra che sia andato verso il limitare del bosco... Da quella parte.” indicò un punto vago, che, però, al Riario parve già un'ottima partenza.

Lo ringraziò in fretta, e, sperando che il vino non avesse fatto straparlare il suo amico, ricominciò a cercare il Medici.

Non trovandolo lungo la fortificazione di legno che avevano usato per recintare il campo, si fece riconoscere dalle guardie e disse che voleva andare un momento nel bosco.

I due soldati, squadrandolo alla luce di una fiamma come se fosse pazzo, alzarono le spalle e gli diedero il permesso di passare.

Ottaviano sentiva le gambe molli e i rumori del bosco vicino lo facevano tremare. Però, ormai, era certo che Giovanni fosse lì per lì e voleva trovarlo.

Finalmente, quando già stava perdendo le speranze, sentì qualcuno piangere.

Seguì il rumore, muovendosi con passi leggeri, e a un certo punto, seduto contro uno dei primissimi alberi, riconobbe nel buio il profilo del Medici.

Stringeva qualcosa in mano e piangeva a singhiozzi, facendo sembrare quello sfogo quasi più una manifestazione di paura che non di tristezza o altro.

Il fiorentino era andato a rifugiarsi in quel punto già da un paio d'ore. All'inizio voleva solo stare in solitudine e pensare un po'.

Gli faceva male tutto il corpo e anche per arrivare fino a lì aveva fatto una fatica immane. Però non se la sentiva di restare nel padiglione con Ottaviano.

Si era addormentato come nulla fosse, quella sera, eppure dopo poco si era svegliato di colpo e non era più riuscito a riprendere sonno. La sua testa si era impantanata in una serie di pensieri che lo avevano fatto sudare freddo e, prima di rendersene conto, si era alzato, si era vestito e aveva cercato un posto tranquillo.

Appoggiato al tronco dell'albero aveva cercato di distrarsi e aveva ripensato alla sua infanzia, trascorsa con sua nonna, suo padre e suo fratello tra i campi e i boschi. Poi aveva ricordato la sua adolescenza. Il senso di precarietà che era seguito alla morte di suo padre e poi lo stupore e a volte l'insofferenza per la vita a Firenze. Aveva ricordato le prime volte in cui aveva rubato un cavallo per scappare fuori città, quando proprio non sopportava più il palazzo, e poi aveva rivissuto i litigi con i cugini e l'esilio a cui lui e Lorenzo erano stati costretti.

Aveva risentito suo fratello annunciargli la sua volontà di mandarlo a Forlì come ambasciatore e il nervosismo che aveva provato, all'idea di avere un compito tanto delicato.

Gli era tornato alla mente il giorno in cui era arrivato in Romagna, in quella che, poi, sarebbe diventata casa sua. Rivide il viso di Caterina, accaldato e sudato, e i suoi occhi verdi quando, nel mezzo di un duello, l'aveva guardato per la prima volta.

Da lì aveva cominciato a pensare a lei, solo a lei. Alla Casina e alle giornate passate nei boschi, alle lunghe notti trascorse nella loro stanza a leggere e amarsi, a tutte le volte in cui l'aveva scelta di nuovo, calpestando qualunque cosa, perfino, a volte, la propria coscienza.

E poi aveva pensato a Ludovico. E tanto gli era bastato per mettersi a piangere.

Quella notte sentiva come non mai il fiato della morte sul collo. Gli sembrava che il suo cuore battesse più in fretta, come se volesse fare in tempo a consumare tutti i battiti che gli erano concessi prima che la fine arrivasse.

Era una sensazione che lo atterriva così tanto che, per farsi forza, aveva preso il nodo nuziale che portava appeso a una catenina e lo aveva stretto nel pugno, baciandolo di quando in quando, come sperando che sua moglie, anche se lontana, potesse dargli la forza.

La parte più debole di lui voleva tornare subito a casa. Ma poi il suo lato più coriaceo gli imponeva di restare.

Aveva preso un impegno ed era ancora in grado di svolgerlo, anche se forse non appieno.

Anche se il suo fisico probabilmente non gli avrebbe permesso di scendere di nuovo in battaglia, il Medici sapeva che Ottaviano resisteva solo grazie alla sua presenza. Se avesse lasciato il campo, anche quel ragazzo senza bussola avrebbe ceduto, e non voleva che lo facesse.

Aveva promesso a Caterina di fare tutto quello che fosse in suo potere e non intendeva rimangiarsi la parola.

Però...

Non era la mancanza di comodità del campo, né lo stile di vita spartano che imponeva la vita militare a provarlo. Era la nostalgia. Era la sensazione di avere poco tempo. Era la tragica consapevolezza di non essere più quello di prima.

Se pensava a suo figlio, poi, il cuore gli diventava grosso come una noce. Standogli lontano, in quei giorni, si stava perdendo molte cose di lui e, forse, se fosse riuscito a tornare a Forlì, gli sarebbe mancato il tempo per recuperare.

Era così immerso nella sua anima, in quel momento, che non si accorse nemmeno che nel buio qualcuno lo stava osservando.

Ottaviano lo stava guardando da un bel po', a distanza di sicurezza, e ci aveva messo un po' per capire, tra i lamenti e i singhiozzi, le poche parole che erano uscite dalle labbra del fiorentino.

Quando aveva udito abbastanza distintamente il nome 'Caterina', aveva avuto la conferma ai suoi dubbi e così, volendo essere discreto e lasciare al patrigno quel momento di raccoglimento, voltò i tacchi.

Forse avrebbe dovuto restare e farsi vedere e cercare di consolarlo, ma sapeva di non essere capace.

Così, quando tornò al padiglione, si svestì di nuovo e si rimise nella branda. Sentì rientrare Giovanni qualche ora dopo, quando stava già per albeggiare.

Quando venne il momento di svegliarsi, il Riario si comportò come nulla fosse, tuttavia il rossore ancora vivo degli occhi del Medici furono per lui un tormento.

Da un lato, la profonda sofferenza di quell'uomo – l'unico uomo veramente buono che avesse mai conosciuto – lo faceva sentire pronto a fingere sicurezza di sé e permettergli di tornarsene a Forlì.

Dall'altro, però, la sua codardia e la paura lo rendevano egoista come sempre e, ben lungi dal riuscire ad afferrare al volo quella possibilità di riscatto morale come figlio e come uomo, Ottaviano sapeva di non essere in grado di quel gesto di altruismo.

Così fece semplicemente finta di niente, limitandosi ad aiutare il patrigno come poteva nel vestirsi e nel sistemarsi, per poi, come sempre, lasciarsi difendere quando si dovettero presentare alla riunione quotidiana nel padiglione di Paolo Vitelli.

 

Achille abbracciò con forza il fratello Polidoro e i presenti al banchetto esultarono. I due Tiberti si guardarono per un po' e poi, dandosi a vicenda una bella pacca sulla spalla, si misero a sedere uno accanto all'altro.

La festa che era stata organizzata nel loro palazzo dava ad Achille un calore che non credeva di poter sentire più.

L'ultima prigionia era stata per lui una prova molto più ardua di quanto non si potesse immaginare e trovarsi di nuovo sano e salvo, con davanti pietanze fumanti, il suono armonioso degli strumenti dei musici nelle orecchie e della gente che lo accoglieva con gioia sedendosi a tavola con lui aveva addirittura qualcosa di incredibile.

“Allora, raccontami.” fece, rivolgendosi a Polidoro, che stava già tracannando il vino e attaccando l'arrosto.

“Come credo tu già sappia – fece il fratello, scrutando quelli che erano a tavola con loro e soffermandosi sulla moglie di uno degli invitati – sono accorso qui a Cesena per dar man forte a Malatesta Malatesta da Sogliano...”

Disse quel nome con tono ironicamente pomposo e poi rise per un po'. Achille non trovava la cosa molto divertente. Rievocare quella famiglia, ostile alla Tigre, gli faceva ricordare come stesse contravvenendo a un ordine di Giovanni Medici, che al campo di Paolo Vitelli era la voce della Sforza.

“Era in crisi contro il Governatore Pontificio che lo minacciava.” proseguì Polidoro, tornando abbastanza serio: “Ho sistemato la questione. E a breve attendo una visita di Gaspare Sanseverino.”

“Vuoi passare al soldo di Milano?” chiese Achille, accigliandosi.

“Chi lo sa.” fece l'altro, versandosi ancora da bere: “Intanto sentiamo che ha da dire. E poi tutti sanno che il Moro ha paura di Venezia. È possibile che mi stia mandando Sanseverino per carpire informazioni e vedere se sia il caso di lasciare Firenze al suo destino.”

L'altro strinse le labbra, sentendo di colpo lo stomaco annodato. Benché si fosse sentito tradito dalla Tigre, pensare di essere in casa di comandanti al soldo di Venezia, di essere fratello di un uomo al soldo di Venezia...

“Non hai fame?” gli chiese Polidoro, guardandolo interrogativo, notato che l'altro non aveva ancora toccato cibo.

Achille scosse il capo e domandò: “E Palmerio?”

Il fratello sbuffò: “Non è ancora in grado di far la guerra, se è questo che vuoi sapere. La ferita che l'ha sfigurato sarebbe il meno, a questo punto... È la gamba che lo blocca ancora.”

L'uomo della Sforza annuì e chiese: “E quando potrà, credi che passerà anche lui alla dipendenze del Doge?”

“Non vedo perché no.” fece subito Polidoro, eruttando e poi ingozzandosi di nuovo: “Come dopo tutto farai anche tu, no?”

Achille fece un cenno molto vago con il capo, ma la sua testa era già altrove. Si trovava davanti a un dilemma.

Doveva comportarsi da uomo e restare fedele a colei a cui aveva votato la sua vita prestandole giuramento, oppure doveva scegliere la via più semplice?

 

“Ridolfi non ha tutti i torti, però.” si permise di dire Cesare Feo, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi contro lo schienale della sua sedia.

La Contessa sembrava lievemente in remissione, tuttavia, non appena si affaticava un po', sentiva il bisogno di sedersi, se non addirittura coricarsi, e così, dopo aver passato in ispezione l'arsenale della rocca, si era ritirata nello studiolo del castellano per discutere dell'ultima lettera arrivata da Imola.

Caterina sospirò, seduta in poltrona, le gambe che le facevano male, ancora deboli per la febbre, e un lieve strato di sudore sulla fronte.

“Forse non avrà tutti i torti – ammise, pensando che in effetti la tranquillità apparente del papa non poteva portare a nulla di buono – ma non mi sembrano i ragionamenti che fa lui di solito.”

Cesare Feo incrociò le braccia sul petto e guardò per un momento la sua signora. Doveva concordare con lei. Anche se non conosceva troppo il Governatore di Imola, non gli era mai parso un fine conoscitore della politica e dei suoi sotterfugi. Era un ottimo contabile, un accorto amministratore e anche un discreto arruffapopoli, ma nulla più.

“Mi sembra più un'idea degna di vostro nipote Tommaso.” disse alla fine la Tigre, mordendosi poi l'interno della guancia, appena agitata dal nominare un uomo su cui aveva contato molto e per tanto tempo, per poi vederlo allontanarsi sempre di più e per un motivo che ancora la faceva soffrire.

Il castellano deglutì e si rimise seduto dritto: “Non volevo dirlo a voce alta, mia signora, ma credo la stessa identica cosa.”

Caterina strinse le labbra. Avrebbe preferito che Tommaso le avesse scritto di persona, esponendo apertamente il suo punto di vista, senza affidare le sue parole a Ridolfi. Ma forse era meglio così per entrambi.

“Quindi che cosa avete intenzione di fare?” chiese Cesare, dopo un momento di silenzio.

La donna iniziò a tamburellare sul bracciolo della poltrona. Il castellano la osservò con attenzione mentre, quasi distratta, si spostava una piccola ciocca di capelli chiari dalla fronte e sporgeva un po' in fuori il mento.

“Secondo me – fece lei, dopo un po' – nemmeno il papa sa da che parte rivolgersi. Dicono che il re di Francia abbia ottenuto una revisione del suo matrimonio e questo mi fa pensare che ovunque Rodrigo voglia creare il suo impero, lo farà usando i soldati di Luigi, ma...”

Il Feo parve colpito da quel collegamento. Anche lui aveva sentito di quella novità, ma non aveva avuto la prontezza di fare quel calcolo.

Con un velo di autoironia, si disse che quello era uno dei tanti motivi per cui lui sarebbe sempre rimasto un castellano, mentre persone come la Sforza erano destinate a grandi cose.

“Comunque sia...” riprese la Leonessa, sbuffando: “Avete mandato quella lettera a mio fratello Piero?”

L'uomo annuì e confermò: “Certo, mia signora. Il castellano di Forlimpopoli ha già ricevuto gli ordini e mi ha anche già risposto, dicendo che provvederà all'istante a reclutare più contadini possibili...”

Alla Contessa, in realtà, quel genere di arruolamenti di massa non piacevano. Teneva molto al suo esercito, addestrato e disciplinato, e aumentarne le schiere di colpo, forse, si sarebbe rivelato pericoloso.

Tuttavia temeva come non mai che la guerra si spostasse, arrivando a lambirla. C'erano stato tafferugli a Rimini e nel ravennate si erano registrate scomposte scorribande veneziane. Chi poteva assicurarle che presto non sarebbe successo qualcosa di simile anche alle sue terre?

Così aveva cominciato da Forlimpopoli e Imola. Se fosse stato necessario, avrebbe ingrossato anche le fila forlivesi, ma per quello voleva aspettare di capire come sarebbe proseguita la guerra a Pisa e, ancor più importante, come sarebbe evoluto il suo stato di salute.

E poi c'era la questione di Giovanni... Voleva vederlo tornare, avrebbe voluto averlo con sé, avrebbe voluto andare a Pisa a prenderlo e riportarselo a casa. Ogni volta che ci pensava, sentiva un vuoto nel centro del petto. Solo Ludovico le dava qualche conforto, ma poi, quando si soffermava più del dovuto sugli occhi allungati del piccolo, così simili a quelli del padre, finiva per intristirsi tanto da voler piangere e quindi cercava di sviarsi dedicandosi ad altro.

“E poi c'è la questione di Manfredi...” soffiò, ricordandosi all'improvviso della lettera abbastanza stringata e aggressiva che Castagnino le aveva mandato il giorno prima.

Le ricordava solo che a gennaio Astorre Manfredi avrebbe compiuto quattordici anni e che a quel punto non ci sarebbero più state scuse valide per impedire a Bianca di raggiungerlo a Faenza.

La Tigre non aveva ancora risposto. Avrebbe voluto ribattere con un secco no, ma Faenza era in mano veneziana, ormai, e aizzarli a quel modo, con parte dell'esercito in Toscana, l'avrebbe messa troppo in pericolo.

Non voleva nemmeno dire di sì, con il rischio che la sua risposta venisse usata in gennaio come documento contro di lei, costringendola a far partire la figlia.

Tuttavia non sapeva più che cosa inventarsi per prendere tempo, se non evitare di rispondere alla missiva e sperare che Castagnino non ci riprovasse troppo presto.

“Vostra figlia....” iniziò Cesare, ma poi si zittì subito.

Stava per dire di aver visto Bianca, giusto la sera prima, in atteggiamenti equivoci con un giovane soldato di stanza alla rocca. Gli era già capitato di vederla vicina a qualche ragazzo e, anche quando l'aveva vista baciare qualcuno o parlarvi tanto fittamente da non lasciare dubbio sulla natura del suo interesse, il castellano se n'era sempre stato zitto.

Dal rossore che aveva preso il volto dell'uomo, la Contessa intuì vagamente che cosa stesse per dire, così preferì levarlo dall'impiccio: “Avete paura che si dimostri dal temperamento caldo come sua madre.”

“Non mi permetterei mai di fare una simile insinuazione sul vostro comportamento...” si schermì Cesare, in imbarazzo: “Solo so quanto peserebbe qualche incidente, per così dire, sulla politica del nostro Stato.”

“So bene anche io che l'annullamento delle nozze per mancata consumazione sarebbe la cosa più indolore per tutti.” borbottò la Leonessa, che non avrebbe voluto fare quel discorso con il Feo, benché capisse che anche la sua vita dipendeva da quel genere di intrighi diplomatici: “E sono convinta che mia figlia abbia la testa sulle spalle. Se per qualche motivo, però, dovessimo avere dei problemi...”

Il sospiro della donna lasciò poco di buono a che sperare e infatti il castellano indovinò quello che avrebbe detto ben prima che lei aprisse bocca.

“Se avremo dei problemi, sono pronta a marciare su Faenza, per proteggerla.” concluse lei: “Il suo matrimonio con Astorre ci ha fruttato anni di pace con la sua città, ma se dovesse essere necessario, io sono pronta a impugnare le armi, per mia figlia.”

'Al contrario di quanto ha fatto mio padre per me' soggiunse la Tigre, malignamente, nel suo pensiero.

Cesare parve convinto da quella decisione e stava per cambiare argomento, volendole sottoporre le possibili carenze di scorte alimentari a cui la rocca sarebbe andata incontro in caso di assedio immediato, quando qualcuno bussò alla porta.

Il castellano diede il permesso di entrare, dopo aver avuto il bene placito della Sforza che aveva annuito al suo sguardo, e così nello studiolo arrivò un soldato sulla ventina, dai capelli corti e scuri, spalle larghe e buon portamento.

Consegnò al Feo un resoconto stilato dal maestro d'armi, a cui la Contessa aveva chiesto di stilare un elenco puntuale delle munizioni presenti nel deposito.

Il castellano, prima di lasciarlo andar via, lo trattenne per controllare che tutto fosse in regola e mandarlo a chiedere spiegazioni in caso di necessità.

Mentre il ragazzo stava sull'attenti, le mani lungo i fianchi e lo sguardo fisso davanti a sé, Caterina lo osservò con attenzione e per qualche istante si perse a studiarlo.

Era giovane, ma dal profilo abbastanza virile. Era alto, muscoloso e dai tratti del viso regolari. Ad attirare la sua attenzione, più di tutto il resto, furono le sue mani. Erano belle e non rovinate, come invece capitava a molti soldati, per quanto giovani.

Stava già sentendo la sua inveterata fame tornare a morderla, quando finalmente Cesare lasciò andare il soldato e nella stanza tornò il silenzio.

Il castellano incrociò lo sguardo della sua signora e intravide il rossore sul suo collo. Aveva capito che la donna non era rimasta indifferente al giovane che era appena stato lì, ma preferì far finta di nulla e passare a parlare del grano.

La Sforza riuscì a distrarsi abbastanza in fretta, relegando il ricordo del ragazzo in un angolo e concentrandosi su problemi molto più pratici.

Tuttavia, mentre Cesare passava a elencare le spese di quel mese, la Contessa si trovò a ringraziare le febbri che l'avevano squassata in quei giorni. Per quanto terribili e pericolose, almeno le avevano tolto le forze e, facendo così, le avevano reso molto più facile restare fedele al suo Giovanni.

 

La metà d'agosto aveva scatenato l'afa più torrida possibile sul campo fiorentino nei pressi di Pisa.

L'umidità stava uccidendo ogni voglia di darsi da fare e tanti soldati, non vedendosi scelti nell'immediato per qualche missione, passavano le giornate a oziare.

Anche se Paolo Vitelli stava pianificando qualcosa di grosso, perfino i vari comandanti dei contingenti parevano disinteressati ai suoi progetti e indulgevano più del solito nel vino e nei riposi fuori programma all'ombra di una tenda o in compagnia di qualche donna.

Giovanni stava patendo quel clima come non mai. Aveva continuato il suo lavoro di mediatore ed era anche riuscito a convincere in modo abbastanza stabile i soldati forlivesi a seguire Ottaviano, in caso di battaglia, anche in sua assenza.

Aveva parlato a fondo con Ottaviano Manfredi e aveva contrattato con lui alcuni punti che, una volta finita quella guerra, avrebbe sviluppato assieme a Caterina. Si poteva conquistare Faenza, con il piano del Manfredi, e lo si poteva fare senza troppo spargimento di sangue. Però non si fidava a metterla a parte di quel piano per lettera. Se fosse stata intercettata da qualcuno, sarebbe stata la loro fine.

Aveva intrattenuto spesso conversazioni anche con Vitelli e con altri uomini di Firenze ed era certo che più di uno, al tavolo della pace, avrebbe spinto per riconoscere alla Sforza il suo ruolo.

Insomma, malgrado il suo fisico che gli stava impedendo anche solo di indossare l'armatura o impugnare la spada, se la stava cavando bene.

Però, quando tornava nel padiglione e si trovava solo, si vedeva le gambe gonfie, sentiva il respiro affannato e, soprattutto, la mente appannata.

Quella notte, dopo essere riuscito a prendere sonno a fatica – perché nessuna posizione gli dava sollievo – si svegliò di colpo, un paio d'ore prima dell'alba, con un grido lancinante.

Ottaviano, che dormiva poco lontano da lui, scattò in piedi e, con le mani che tremavano, mentre il Medici continuava a gridare di dolore, accese una candela prendendo il fuoco dal piccolo braciere centrale e gli si avvicinò.

Il fiorentino era contratto e trasfigurato dal male e non sembrava molto cosciente. Stringeva i denti e, quando il Riario trovò il coraggio di toccarlo, trovò la sua pelle arroventata come il ferro di un maniscalco.

Preso dal panico, provò a scoprirlo, per capire da dove arrivasse il dolore che lo stava distruggendo e quando vide i tofi delle sue gambe e della mani rosso come il fuoco e in parte spaccati, comprese che quella era la faccia più violenta della sua malattia che, alla fine, stava chiedendo il conto.

Faticando quasi a respirare e inciampando, facendo rovinare in terra la candela e reimmergendo Giovanni nell'oscurità quasi totale, Ottaviano corse fuori, in cerca di soccorso, senza nemmeno accorgersi di essere ancora in camicione da notte e di essere scoppiato a piangere.

   
 
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