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Autore: Class Of 13    11/06/2018    1 recensioni
[OkaKuri ftw | Raccolta di AU| Feels, fluff e tante risate]
Okabe Rintaro e Makise Kurisu, indipendentemente dal mondo in cui si trovano, sembrano essere destinati ad incontrarsi e ad innamorarsi con la misteriosa complicità di una farfalla azzurra...
#1 - Cooking!AU - Okabe e Kurisu lavorano nella cucina di un lussuoso ristorante di Tokyo.
#2 - Your Name!AU - Okabe e Kurisu si scambiano di corpo. Cosa mai vorrà significare?
#3 - Violet Evergarden!AU - Un maggiore dell'esercito e una silenziosa scienziata si incontrano sotto l'ombra minacciosa della guerra.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'This is Steins;Gate's choice. El. Psy. Kongroo.'
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Note dell'autrice: Questa storia è stata un vero parto. L'ho cominciata che Violet Evergarden aveva iniziato ad andare in onda da un mesetto e, tra crisi di mancanza di ispirazioni, crisi in cui non sapevo come scrivere una determinata scena e mancanza di tempo in generale, l'ho terminata solo qualche giorno fa.
Precisiamo: non serve aver visto Violet Evergarden per comprendere questa storia, perché essa è ambientata nello stesso mondo (di cui quindi ho ripreso la geografia) e al massimo scorgerete qualche breve riferimento all'opera originale, ma nulla di più, anche perché i dettagli necessari alla comprensione sono tutti spiegati nel testo. Sono oltre 18.000 parole (il mio personalissimo record çWç) di sofferenza, lo ammetto, ma parlare di sentimenti in un mondo in guerra non è facile, specie se i due personaggi in questione hanno una storia difficile alle loro spalle. Spero di non essere stata troppo banale o smielata in alcuni punti, in tal caso... tiratemi pure i pomodori virtuali addosso, me li merito.

Sicuramente è una storia piena di difetti e magari più in là nel tempo ci rimetterò mano e troverò duemila cose da cambiare, ma per il momento mi dovrò accontentare di questo risultato. Qui i personaggi hanno una caratterizzazione decisamente più simile a quella di S;G 0, quindi non soprendetevi se Okabe non fa l'idiota e se Kurisu non lo tempesta di risposte tsundere, la loro è una situazione davvero difficile. TwT

Per questa volta ho voluto riassumere le parti della storia tramite delle citazioni a canzoni di Fabrizio De André, perché le ritengo molto vicine alla poesia e in certo senso prese da sole è come se raccontassero già una storia da loro. E poi bisognava rendere omaggio alla parte bella della musica italiana. L'idea del fiordaliso infatti mi è venuta da un verso de "La Canzone di Marinella" ("Furono baci e furono sorrisi, poi furono soltanto i fiordalisi") e la fortuna ha voluto che il colore del fiore fosse straordinariamente simile a quello degli occhi di Kurisu. Mi è dispiaciuto un po' non poter citare la canzone in sé, ma alla fine non ho avuto la possibilità di inserirla nella trama.

Ah, per inciso: l'arma inventata da Kurisu non è altro che il Gas Nervino. Il suo funzionamento me lo sono studiato da quel magggggico posto che è Wikipedia. Tutte le info relative ai suoi effetti e al suo meccanismo d'azione sono già inseriti nella storia~ 

 



Per un periodo della sua vita aveva sentito dire che lo scopo dell’esistenza dell’uomo fosse ricercare la bellezza assoluta. All’epoca, complice la sua giovane età, non ci aveva dato molto peso ma, in quel momento, sentiva di poter dare almeno parzialmente ragione a quell'affermazione.

Tra le sue braccia giaceva quanto di più bello la vita gli avesse offerto. La pelle pallida illuminata dalla luce della luna, le ciglia scure che proiettavano lunghe ombre sulle guance immacolate, quel volto inaspettatamente dolce. Sembrava quasi che dormisse.

Nella sua relativamente breve esistenza aveva appreso come la vita fosse in grado di dare e togliere in ugual misura. Mai avrebbe voluto vedere quella figura che tanto amava col volto rigato di lacrime e macchiato dal sangue.

Il corpo tra le sue braccia emanava ancora lo stesso tepore della prima volta che lo aveva stretto a sé, in netto contrasto con il gelo che lentamente si stava impossessando delle sue membra.

Ah… Ho perso troppo sangue. Non sento più le gambe.

Avvicinò a fatica le labbra a quelle sottili della figura che riposava beata. Un lieve e tiepido respiro si levava da queste, così tenue da non condensarsi nell’aria gelida. Improvvisamente una gioia pura e selvaggia si impossessò del suo cuore: viveva ancora.

Avrebbe continuato a vivere anche se lui, che la stringeva disperatamente a sé, non sarebbe riuscito a seguirla e andare avanti.

Il suo pensiero volò a quante cose la vita le avrebbe riservato di lì in avanti: avrebbe pianto, avrebbe riso, avrebbe sofferto e gioito. Una nostalgia straziante si mescolò alla gioia e in quel momento si rese conto di aver vissuto soltanto perché lei potesse sorridere.

 

§



 

“Passano gli anni, i mesi, |
e se li conti anche i minuti, |
è triste trovarsi adulti |
senza essere cresciuti”.
(da “Un giudice” - Fabrizio De Andrè, 1971)

 

Fine Marzo - Leiden.

 

Non era difficile intuire perché il May Queen fosse la locanda più lussuosa di tutta la Capitale: un'antica struttura dagli interni in lucido legno, pavimenti ricoperti da tappeti pregiati e arazzi dai disegni intricati che si abbandonavano dalle pareti. Era un posto frequentato dall’aristocrazia e dagli alti ufficiali dell’esercito e, proprio per quel motivo, sentiva che non fosse adatto a lui.

«Kyōma! Da quanto!».

Una ragazza in divisa da cameriera e dallo sguardo furbo lo salutò energicamente nel momento in cui si avvicinò alla reception. Era un sollievo trovare una figura familiare in un posto in cui si sentiva così fortemente a disagio.

«Ah, buonasera, Rumiho. È da molto che non ci vediamo».

La ragazza gonfiò le guance in uno sguardo carico di disappunto. «Non conosco nessuna “Rumiho”. Faris è Faris, ricordi?».

«Oh, hai ragione, Faris, perdonami», rispose con un sorriso di scuse. «Ad ogni modo, sapresti dirmi in quale stanza si trova il Tenente Colonnello Tennōji?».

«Certamente!», trillò Faris entrando in “modalità lavoro”. «La prego di seguirmi da questa parte, signore!».

La cameriera lo guidò attraverso un corridoio illuminato da numerose lampade ad olio fino ad una porta in lucido mogano. «Hai notizie di Mayushii, per caso? Con la guerra di mezzo Faris teme che le sue lettere non le siano arrivate», domandò improvvisamente la ragazza abbandonando per un attimo il suo solito sorriso.

«Ah, sì. Ho ricevuto una sua lettera la settimana scorsa, pare che la presenza dell’esercito di Leiden nelle vicinanze della città abbia garantito una certa normalità del tenore di vita. Sembra che la famiglia di Mayuri sia impegnatissima con il lavoro, ultimamente».

«Faris è felice di sentirlo. Portale i miei saluti se dovessi capitare da quelle parti», la sentì raccomandarsi mentre prendeva congedo con un perfetto inchino. «Le auguro una buona permanenza al May Queen, gentile cliente!».

Osservò inespressivo la porta per diversi istanti. Oltre la barriera di legno e vernice si udiva soltanto un silenzio assoluto. Con un profondo respiro bussò due volte sul mogano scuro. Un uomo calvo e dalla statura impotente si attaccò sulla soglia, scrutandolo con aria truce. Represse un brivido di terrore e si posizionò immediatamente sull’attenti.

«Signore! Maggiore Okabe a rapporto».

La gigantesca sagoma del Tenente - Colonnello Tennōji lo scrutò minacciosa per alcuni istanti, per poi aprirsi inaspettatamente in un gran sorriso.

«Eccolo qui, l’uomo della serata!», esclamò Tennōji trascinandolo nella stanza e assestandogli una vigorosa pacca sulla schiena. «Accomodati, ragazzo, mangia tutto quello che vuoi».

Nella lussuosa suite della locanda, decorata con tende di tessuto damascate e mobili di lucido legno, era stato imbastito un tavolo colmo di pietanze dall’aspetto squisito. Okabe osservò le portate per qualche istante, avvertendo una forte sensazione di nausea nel momento in cui la bocca del suo stomaco si chiuse in segno di rifiuto.

«La ringrazio, ma ho già cenato», declinò infine l’invito rivolgendo un cenno di scuse con il capo prima di accomodarsi nella poltrona posta all’altro capo della tavola.

Il colonnello scoppiò in una fragorosa risata, prima di versare del vino nel proprio bicchiere. «Sei un ragazzo in gamba, ma dovresti mettere un po’ di carne su quelle ossa, o rischi di svenirmi sul campo di battaglia».

C’era qualcosa, nella persona del Colonnello Tennōji, che gli aveva sempre impedito di sentirsi a proprio agio in sua presenza. L’uomo sorrideva sempre in maniera bonaria e lo trattava in maniera quasi paterna, ma Okabe sentiva in qualche modo che il confine tra la gloria e la disgrazia fosse molto sottile, quando si trattava di quell’uomo.

«Signore, potrei sapere come mai ha richiesto la mia presenza, stasera?», domandò infine con cautela.

Tennōji finì di vuotare il proprio bicchiere con un sospiro soddisfatto. «Per congratularmi per la tua promozione a Maggiore, naturalmente. Ho sentito parlare molto bene del tuo coraggio in battaglia, perciò non mi sorprende che tu stia scalando in fretta i ranghi nonostante la tua giovane età».

«Ho solo svolto il mio dovere nei confronti della patria, signore».

«Sciocchezze!», tuonò l’uomo con un sorriso. «Godi di un’ottima fama nell’esercito del Leidenschaftlich. Come se la passa la tua famiglia? Immagino sarà orgogliosa di avere un figlio come te».

Okabe represse un sussulto. I suoi genitori erano due semplici agricoltori che vivevano del ricavato dell’esportazione dei propri prodotti nelle regioni vicine. Come il Leidenschaftlich, la regione di Enciel godeva di un clima mite durante tutto l’anno e le sue terre pianeggianti l’avevano resa un grande centro di produzione agricola dalla fervente economia. Tuttavia, con l'inasprirsi del conflitto tra le alleanze del Sud e del Nord, molte braccia nei campi erano state chiamate alle armi e per loro mandare avanti l’attività di famiglia si era fatto sempre più difficile. Okabe, allora solo 17enne, aveva deciso, nonostante le suppliche dei suoi genitori, di arruolarsi nell’esercito dell’alleanza del Sud, guidata dalla piccola nazione militare del Leidenschaftlich.
 

«… Sì, credo di sì».

Tennōji annuì appena, facendosi improvvisamente serio. «Ho una missione da affidarti che, se portata a termine, metterà la parola “fine” alla guerra prima dell’arrivo dell’estate».

Negli ultimi due anni la guerra era rimasta in una situazione di stallo in cui, nonostante la superiorità numerica dell’esercito dell’impero Gardarik a nord, nessuna delle due forze in conflitto riusciva a prevalere sull’altra. Il prezzo in vite continuava a farsi sempre più alto e le vita nelle città di confine si faceva sempre più dura a causa dei bombardamenti che avevano severamente danneggiato la linea ferroviaria che collegava tra loro le varie città del continente di Telesis.

«Porre fine alla guerra? Se mi permette, una cosa del genere sarebbe possibile solo conquistando Intens, la roccaforte nemica».

«Ottima osservazione, ragazzo mio, ed è proprio questo ciò di cui vorrei che tu e la tua squadra vi occupaste», confermò Tennōji alzandosi dalla sua poltrona.

Okabe sgranò immediatamente gli occhi. Volevano mandarlo a compiere una missione suicida? Certo, la sua famiglia avrebbe potuto vivere tranquilla a conflitto terminato, ma il pensiero della morte rimaneva comunque terrificante.

«Signore, con tutto il dovuto rispetto, la roccaforte di Intens è circondata dai monti e sia questa che il territorio circostante della regione di Bociaccia sono sorvegliate da un totale di circa 40.000 soldati dell’alleanza nemica, non avremmo...».

«Non temere, non è una missione suicida quella che voglio che tu intraprenda. Non correremmo mai il rischio di addentrarci in territorio nemico senza avere una strategia infallibile a supportarci. Anche se in questo caso bisognerebbe parlare più di un’arma, che di una strategia...», spiegò il tenente-colonnello. Il rumore dei suoi passi pesanti riecheggiò per il soggiorno della lussuosa suite, fermandosi davanti ad una porta di legno scuro non dissimile da quella di entrata. «Lascia che ti presenti la chiave della nostra vittoria».

Okabe avvertì un brivido corrergli lungo la schiena mentre una delle gigantesche mani dell'uomo bussava sul mogano laccato. Aveva il presentimento di essersi cacciato in qualcosa che era molto più grande di lui. Erano passati due anni e non era cambiato di una virgola.

«Ehi, signorina, abbiamo ospiti. Vieni a salutare».

Ci fu qualche breve istante di silenzio in cui Okabe riuscì a sentire solo il proprio respiro irregolare e il quieto ronzio dell’elettricità. Poi, all’improvviso, un rumore di passi leggeri si udì da quella che immaginò essere una camera da letto. Quando la porta si aprì con un leggero cigolio Okabe osservò qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.

Nella penombra della stanza un paio di occhi tra l’azzurro e il violetto circondati da ciglia lunghe e scure lo osservavano impenetrabili.

«Lei è Makise Kurisu, la nostra risorsa più preziosa nonché fulcro della tua prossima missione».

La ragazza, che sembrava avere circa la sua età, indossava una sciatta divisa da lavoro composta da un largo pantalone nero tenuto su da un paio di bretelle e una camicia bianca troppo grande per il suo corpo minuto. Sopra di essi svettava un logoro camice bianco. Come poteva una ragazza così giovane essere il fulcro di un’operazione militare?

Come se fosse stato in grado di capire i suoi pensieri in un solo sguardo, Tennōji intervenne nuovamente. «Non farti ingannare dalla sua giovane età. Questa signorinella è una scienziata piuttosto in gamba. È stata lei ad inventare l’arma che ci permetterà di conquistare Intens».

«Ah, ecco… Uhm, l-lieto di conoscerla, signorina Makise, mi chiamo Rintarō Okabe e… Uhm, sono un… maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich».

In tutta risposta al suo disastroso tentativo di presentazione, la ragazza si prostrò in un lieve inchino, lasciando che una massa di capelli ramati piena di nodi scivolasse sulle sue spalle.

«Sfortunatamente la signorina Makise è l’unica ad essere in grado di utilizzare la propria invenzione in maniera corretta, perciò si unirà al tuo plotone e viaggerà con voi verso la città di Kazaly. Lì vi riunirete con parte dell’esercito dell’Alleanza del Sud e marcerete verso Intens. Le montagne della regione di Bociaccia sono ricche di caverne e di boschi di sempreverdi, il tenente - colonnello Hashida vi attenderà da quelle parti e assieme alla signorina Makise elaborerete la strategia migliore per condurre l’assedio. Sono stato chiaro?».

Okabe deglutì il groppo amaro che si era formato nella sua gola. A soli 19 anni gli era stata affidata la vita di centinaia di uomini, di una ragazzina e, assieme ad essi, buona parte delle sorti di un conflitto che divideva a metà un intero continente.

Non si era arruolato né per l’onore né tantomeno per la gloria, ma solo perché il denaro del suo stipendio potesse garantire ai suoi genitori una vita tranquilla fino a che il conflitto non fosse giunto al termine. Nei due anni e mezzo trascorsi sul campo di battaglia aveva vissuto con la morte che pendeva sul suo capo come una spada di Damocle e ciò gli aveva fatto credere di essere stato costretto a crescere prima del tempo. Eppure la verità era ben altra: se con gli anni il suo corpo era diventato quello di un uomo, lui era rimasto il ragazzino codardo che era fuggito di casa per decretare la vita o la morte di persone che erano esattamente come lui.

 

§

 

Il Leidenschaftlich era diventato, nonostante le sue dimensioni estremamente ridotte, una nazione molto potente grazie alla sua favorevole posizione geografica. Nonostante le correnti a sud del continente fossero piuttosto violente, la piccola nazione godeva di baie e porti molto tranquilli che l’avevano resa il cuore commerciale del continente di Telesis.

Il territorio si faceva pianeggiante nell’avvicinarsi al mare e cominciava ad alzarsi in piccoli rilievi montuosi a nord, al confine con la regione di Bociaccia.

Il clima era generalmente mite durante tutto l'anno, con estati decisamente calde ma ventilate e inverni tiepidi ma piovosi.

Nonostante aprile fosse ormai alle porte, su quel sentiero di montagna a poche ore di cammino da Kazaly, un villaggio di confine che sorgeva sulle sponde di un fiume in mezzo ad una piccola valle, le temperature erano rimaste piuttosto rigide.

Gli uomini del contingente guidato dal Maggiore che l’aveva presa in custodia si erano ormai ritirati tutti nelle proprie tende per la notte, cercando riparo dall’insolito freddo nei sacchi a pelo. Sarebbero ripartiti all’alba per giungere alle porte di Kazaly prima che il sole raggiungesse lo zenit.

L’atmosfera della guerra non le piaceva affatto. Sebbene i soldati la ignorassero per gran parte del tempo e i ritmi di marcia non fossero eccessivamente pesanti, tra i ranghi aleggiava una sorta di tensione impalpabile, anche quando gli uomini si riunivano attorno al fuoco per affogare le proprie ansie e i propri timori nelle risate dettate dal consumo di bevande alcoliche di pessima qualità.

Trascorreva le proprie giornate in silenzio, osservando le facce scure e piene di cicatrici delle persone con cui marciava e che, su ordine del Maggiore, si assicuravano che rimanesse sana. A volte le era capitato di capitare sotto la custodia di qualche ufficiale donna che, per cercare di trascorrere in maniera più piacevole il tempo interminabile dei loro spostamenti, aveva tentato di intavolare una conversazione con lei, ma Kurisu, non trovando alcuna utilità nel perdersi in futili chiacchiere con persone per cui era poco più di un oggetto, si chiudeva nel suo solito silenzio.

Quella notte, per qualche motivo, sembrava non riuscire a dormire. Non poteva dire di empatizzare con quelli che, presumibilmente, avrebbe dovuto chiamare “commilitoni”, perché l’idea di morire non la spaventava affatto. Era passato già diverso tempo dal momento in cui era giunta alla conclusione che la morte fosse una parte naturale e fondamentale del ciclo della vita e si accontentava di studiare le leggi che governavano l’uomo e la natura per trascorrere in maniera interessante il tempo che la separava dall’imprecisato giorno in cui il suo ciclo vitale sarebbe giunto al termine.

Era seduta su un tronco di legno davanti a ciò che rimaneva del fuoco, godendosi nella quiete della notte il calore delle fiamme e della deliziosa miscela di caffè che custodiva come un piccolo tesoro personale.Contemplava in che modo potesse alterare le percentuali delle varietà di semi usate nella miscela per rendere il sapore più ricco, quando un rumore di passi la sorprese, portandola immediatamente sul chi vive.

Dubitava si trattasse del Maggiore, l’uomo - di cui proprio non ricordava il nome - la considerava un impiccio, con molta probabilità, perciò lasciava la responsabilità della sua custodia ad altre persone e non si interessava del modo in cui trascorreva le sue giornate.

«Uhm, ecco… Mi scusi, non… Io non… Non volevo disturbarla, signorina Makise, mi… mi perdoni».

La voce che l’aveva inondata di scuse era sottile e delicata e apparteneva ad un ragazzo il cui aspetto la rispecchiava perfettamente. Gracile, dalla pelle pallida come porcellana e corti capelli scuri. Era sicura che, se le ciocche che incorniciavano appena il volto del giovane fossero state più lunghe, non avrebbe esitato a scambiarlo per una bellezza androgina che avrebbe suscitato l’invidia di molte giovani donne dell’aristocrazia.

Il ragazzo sobbalzò, rivolgendole un’espressione terrorizzata. Persa nelle sue considerazioni, doveva averlo osservato con troppa intensità, spaventandolo.

In una tacita offerta di pace, si spostò verso un’estremità del tronco, guardando con espressione curiosa il giovane che ricambiava il suo sguardo con esitazione. Con la mano libera indicò il posto accanto al proprio in un tacito invito ad accomodarsi.

«Uh, ecco… Grazie. Mi perdoni il disturbo».

Normalmente avrebbe completamente ignorato la presenza di altre persone, continuando a comportarsi come se non ci fosse nessun altro. Non le piaceva stare in mezzo alla gente, specialmente quando si trattava di sconosciuti ma la visione di qualcuno così giovane nei ranghi dell’esercito aveva pizzicato la sua curiosità.

Il giovane si era seduto accanto a lei con una grazia ed eleganza che non avrebbe mai associato ad un soldato, mantenendo un’aria di timida riservatezza che in qualche modo percepiva affine alla sua indole.

Osservandolo da vicino riuscì a notare come l’uniforme che portava indosso gli stesse leggermente larga e si ritrovò a pensare come fosse fondamentalmente sbagliato che una persona simile avesse a che fare con la guerra.

«Mi scusi se l’ho disturbata, signorina Makise. Non mi aspettavo di trovare qualcun altro in piedi a quest’ora», si scusò il soldato per l’ennesima volta, osservando i propri piedi con aria sinceramente dispiaciuta. Kurisu trovò in qualche modo tenero il suo atteggiamento e si ritrovò a scuotere appena il capo, lasciando intendere come non fosse necessario inondarla di scuse per qualcosa di simile.

«La verità è che proprio non riesco a dormire, stanotte. Domani saremo a Kazaly e… e poi...».

Kurisu lo osservò curiosa, cercando di capire a cosa fosse dovuta l’improvvisa esitazione. Il giovane alzò improvvisamente lo sguardo, guardandola per qualche istante con una certa ritrosia prima di parlare.

«La verità è che… ho paura. Ho così tanta paura che ogni passo che mi porta più vicino al confine mi riempie di terrore. Io…non sono tagliato per fare il soldato».

La voce del ragazzo tremava, quasi fosse in procinto di piangere e Kurisu si domandò perché, pur non temendo lei stessa la morte, provasse dolore per uno sconosciuto che invece la temeva più di ogni altra cosa.

«Sa, non ho scelto io questa vita. Io volevo diventare una Bambola di scrittura automatica, avevo perfino frequentato la scuola di Leiden. Mi sono finto donna pur di inseguire il mio sogno. Poi, però, mio padre mi ha scoperto e mi ha costretto ad arruolarmi».

Kurisu si ritrovò ad ascoltare le parole pronunciate da quella voce delicata con più interesse di quello che si sarebbe mai aspettata. Ancora una volta il suo intuito non l’aveva ingannata: quel ragazzo dall’aspetto così fragile possedeva una volontà che bruciava con grande ardore. In qualche modo si sentì estremamente vicina a quella figura di una bellezza quasi eterea che la osservava esitante.

«Mi… Mi scusi. N-non so cosa mi sia preso. Sono… Sono sicuro che troverà piuttosto strano quello che ho detto, non ci faccia ca...».

«Come… Come ti chiami?».

«Ah… Oh… Uhm… Ruka. Ruka Urushibara», fu la risposta quasi automatica che ricevette.

In pochi istanti l’espressione di disagio dipinta sul volto delicato del suo interlocutore si trasformò in una di puro stupore, la luce tenue delle fiamme che si rifletteva nei grandi occhi sgranati del giovane. «Ma… Ma lei… Parla!».

Kurisu alzò un sopracciglio, avvertendo un angolo della bocca tirarsi su in un’espressione di leggero divertimento nel vedere una reazione così sincera e spontanea. «Sì, certo, sono in grado di svolgere l’azione del parlato, se è questo che intendi. Semplicemente… Non mi piace farlo».

Ruka Urushibara inclinò leggermente il capo, assumendo un’espressione piuttosto confusa. «Non… le piace?».

«Esatto. Trovo che le parole siano inutili. La gente riempie la propria esistenza di parole vuote, utilizzandole come un modo per occupare il tempo che separa ogni singolo essere umano dalla propria inevitabile fine. Penso che sia uno spreco di energie parlare quando non si ha nulla di importante da dire».

«Le parole sono inutili...», ripeté il ragazzo a se stesso come a volersi accertare del significato stesso della frase.

«C’è una cosa che vorrei chiederti», cominciò posando la tazza di caffè sul terreno e voltandosi verso il suo interlocutore. «Cos’è una “bambola di scrittura automatica”?».

Per la seconda volta quella notte, Ruka Urushibara le rivolse un’espressione sinceramente stupita, come se avesse appena domandato il significato di qualcosa di molto ovvio o di molto inaspettato, per poi mostrare un sorriso entusiasta. Ancora una volta pensò che la presenza di una persona così pura in quel posto fosse qualcosa di profondamente sbagliato.

«È comprensibile che non ne abbia sentito parlare», spiegò il ragazzo in tono comprensivo. «Si tratta di un fenomeno nato alcuni anni fa ma che è passato in sordina a causa della guerra. Le “bambole” sono delle ragazze, generalmente di bell’aspetto, che si occupano di scrivere lettere per conto della gente».

«Sono degli scribi, dunque».

«In apparenza potrebbe sembrare così, ma in realtà sono molto di più!», gli occhi di Ruka Urushibara si illuminarono di una gioia abbagliante. «Molte persone hanno difficoltà ad esprimere a parole concetti come le emozioni per via della loro natura astratta, perciò spetta alle Bambole comprendere questi sentimenti e metterli per iscritto. In questo modo il destinatario di una lettera può percepire le emozioni che il mittente voleva che cogliesse».

L’entusiasmo con cui Ruka Urushibara parlava del proprio sogno era qualcosa che non le era mai capitato di vedere. Naturalmente era in grado di spiegare con minuzia i fenomeni chimici e biologici dietro quell’ “emozione" ma vederla manifestarsi con una tale intensità era un’esperienza nuova.

«Perciò il compito delle bambole è… descrivere queste emozioni?».

«In un certo senso è così, ma è il vero significato del loro compito che rende così speciale questo mestiere. Le parole… hanno molto più potere di quello che potrebbe pensare, signorina Makise. Le parole possono creare legami persino tra persone che sono separate da tempi e spazi enormi. Possono dare speranza, conforto, possono esprimere dolore, gioia, amore... anche quando la voce viene meno».

In linea teorica riusciva a cogliere perfettamente ciò che significava essere una bambola di scrittura automatica: comprendere i sentimenti di una persona ed elaborarli in una forma scritta che fosse allo stesso tempo più comprensibile ed esteticamente piacevole. Ciò che non riusciva a capire era come un insieme di caratteri associati a formare delle parole o una vibrazione delle corde vocali potessero unire emotivamente le persone.

L’essere umano nasceva come una creatura fondamentalmente sola, dal momento che ogni uomo era in linea di massima in grado di comprendere completamente solo se stesso e i propri bisogni. Naturalmente alcuni tratti della personalità, così come negli animali, venivano acquisiti tramite la stimolazione dei neuroni specchio causata dalle interazioni sociali, ma dubitava seriamente che due persone potessero capirsi realmente, specialmente attraverso una forma di comunicazione facilmente fraintendibile e abusata come la parola.

Eppure riusciva a comprendere dallo sguardo raggiante di Ruka Urushibara come lui credesse sinceramente nel potere delle parole e si ritrovò a pensare che forse, quel giovane soldato a cui la vita aveva brutalmente tarpato le ali avrebbe potuto cambiare un po’ lo stato delle cose, se gli fosse stata data la possibilità di farlo. Improvvisamente sentì una grande tristezza pesarle addosso.

«Mi dispiace che tu non abbia potuto realizzare il tuo sogno», disse infine con voce carica di un rammarico così sincero da stupire persino se stessa.

Inaspettatamente, Ruka Urushibara sorrise, rivelando tutta la bellezza dei lineamenti delicati del proprio volto. «Non deve essere triste per me, signorina Makise. Oka- Volevo dire, il Maggiore mi permette di scrivere lettere per conto dei soldati analfabeti, perciò è un po’ come se a modo mio stessi vivendo il mio sogno».

Kurisu volse lo sguardo verso la valle circondata dai monti dove sorgeva la cittadina di Kazaly. Dietro il profilo scuro delle montagne la luce del sole cominciava a rischiarare il cielo.

«Sarà meglio che vada in tenda a prepararmi», annunciò Ruka alzandosi dalla posizione che aveva occupato fino a quel momento. «La ringrazio infinitamente per la compagnia».

Nonostante la sua espressione fosse tranquilla, Kurisu percepì distintamente il tremolio nella sua voce. «Urushibara», chiamò improvvisamente. Il ragazzo si voltò verso di lei con aria interrogativa. «Quando torneremo a Leiden… vivi la tua vita come vorresti veramente. Non permettere a nessuno di dire cosa devi o non devi essere, perché tu sei tu».

Una risata cristallina si levò nell’aria frizzante dell’alba.

«Che strano. Conosco una persona che mi ha detto la stessa identica cosa!».

 

§

 

Il paesaggio che circondava Kazaly era profondamente diverso da quello della nazione di Enciel o da quello che circondava la Capitale.

La piccola valle, dove scorreva un affluente del grande fiume Temis, era protetta da numerose cime montuose di modesta altitudine ricoperte da una fitta vegetazione. Nell’aria fresca del primo mattino l’odore della resina e del terreno impregnavano l’aria della foresta, la cui quiete era interrotta soltanto dal verso sporadico di qualche uccello e dal rumore soffice di passi sulla terra umida.

Scrutando la mappa per qualche istante calcolò che sarebbero giunti nei pressi della città nel giro di un paio d’ore di cammino, subito dopo aver attraversato la foresta. L’idea di aver ormai raggiunto il confine era tanto rincuorante quanto snervante: non avevano incontrato forze nemiche durante il loro viaggio, ma sapeva che non sarebbero stati così fortunati una volta entrati nel territorio della nazione di Bociaccia.

Il suo sguardo saettò verso la persona la cui vita o morte avrebbe determinato l’esito della guerra: Kurisu Makise, con indosso un’uniforme militare decisamente troppo grande per lei, camminava inespressiva accanto al giovane Ruka Urushibara, il quale sembrava parlarle con entusiasmo di qualcosa.

Era una scena bizzarra, si concesse di pensare. Era raro vedere Rukako rivolgersi con una tale naturalezza a qualcuno, e la visione assumeva i toni dell’assurdo se soffermava la propria attenzione sul fatto che il suo interlocutore fosse una donna che sospettava non potesse nemmeno essere qualificata come essere umano.

Makise Kurisu non aveva detto una singola parola dal momento in cui l’aveva incontrata e tra i ranghi del suo plotone girava voce che fosse in realtà completamente muta. Obbediva agli ordini senza fiatare, senza cambiare espressione, osservando tutto e tutti con lo stesso sguardo vuoto. Era quasi incredibile pensare che qualcuno del genere possedesse una mente tanto geniale da riuscire ad inventare un’arma che avrebbe potuto ribaltare le sorti della guerra.

D’altro canto Rukako, che conosceva sin da bambino, era sempre stato un ragazzo estremamente timido e poco propenso a conversare con le altre persone. Suo padre, che godeva di alcune conoscenze nell’esercito, aveva fatto sì che venisse assegnato al suo stesso plotone poco prima della sua promozione al grado di maggiore.

Ruka era di costituzione fragile e di una delicata bellezza insolita per un ragazzo di soli sedici anni; era sempre stato prima un bambino e poi un giovane uomo molto sensibile alle emozioni altrui, cosa che spesso lo aveva portato ad essere oggetto delle prese in giro dei suoi coetanei. Quando qualche anno prima gli aveva confessato titubante di essersi iscritto alla scuola per Bambole di scrittura automatica di Leiden, Okabe non aveva potuto fare altro che esprimere il proprio sostegno. Tutto ciò che aveva sempre desiderato era vedere le persone a lui care essere felici, perciò, quando improvvisamente Ruka era passato da “amico” a “sottoposto” gli si era spezzato il cuore.

La sua posizione di maggiore, ovviamente, portava con sé altri benefici, oltre alla paga più che lauta, perciò aveva deciso di proteggere quel suo caro amico con tutte le sue forze, tenendolo lontano dal campo di battaglia e affidandogli il compito di scrivere lettere per conto dei suoi commilitoni o per le famiglie di coloro che erano caduti nel conflitto.
Era la prima volta che vedeva Ruka sorridere e parlare con così tanto entusiasmo da quando era entrato nell’esercito, perciò decretò che non aveva importanza con chi facesse amicizia fintanto che il suo caro amico trovasse un po’ di felicità all’interno dell’orrore della guerra.

«Attenzione!».

Un grido improvviso squarciò la quiete della foresta, seguito dal fragore di uno sparo. A pochi metri di distanza il corpo senza vita di un suo commilitone si accasciò per terra mentre il rumore degli spari si mischiava alle grida dei suoi uomini. Il suo sguardo saettò tra gli alberi, scorgendo alcuni uomini in mimetica nascosti tra i rami.

«Correte al riparo, è un’imboscata!», gridò con quanto fiato aveva in gola prima di gettarsi dietro uno spuntone roccioso che sorgeva dal terreno. Prese un respiro profondo: dalla sua posizione riusciva a scorgere due uomini appostati su due alberi ad un paio di metri di distanza intenti a sparare a vista. Dalle sue spalle provenivano urla indistinte e colpi di fucile. Il suo cuore batteva con furia contro la sua gabbia toracica, ogni sensazione amplificata di mille volte nel suo cervello.

«Io sono... Kyōma Hōōin!», sussurrò rivolgendosi a nessuno in particolare prima di sporgersi sulla superficie rocciosa e sparare due colpi decisi. Una sensazione di disgusto risalì dal profondo della sue viscere mentre i due uomini rovinavano per terra tra urla agonizzanti.

Hōōin Kyōma non era nessuno. Era una personalità immaginaria che la sua mente aveva prodotto per evitare di essere sopraffatta dalla paura di avere a che fare con la morte. Pensare di non essere se stesso almeno in quegli istanti gli infondeva il coraggio necessario a premere il grilletto.

Diede un rapido sguardo ai suoi dintorni: tra gli alberi e i cespugli giacevano riversi i cadaveri di diversi uomini ma, con un sospiro di sollievo, notò che gran parte di questi indossavano un’uniforme diversa dalla sua. Fu allora che li vide: alcuni metri più in là, correndo a perdifiato verso un’insenatura tra due rocce, c’erano Ruka Urushibara e Kurisu Makise.

Le sue gambe parvero muoversi prima ancora che il suo cervello impartisse un vero e proprio ordine. Un bruciore acuto scoppiò sulla sua guancia destra quando un proiettile la sfiorò. Il suo corpo pareva di piombo e i pochi metri da percorrere davano l’impressione di non finire mai.

«Quei capelli! È la scienziata!».

L’esclamazione proveniente dalle sue spalle ebbe lo stesso effetto di un secchio d'acqua gelata. Il suo campo visivo fu immediatamente riempito dalla visione degli inconfondibili capelli ramati di Kurisu Makise e dal giovane uomo che, gettandosi su di lei, la trascinò con sé per terra. Una macchia scura si allargò sulla schiena di Ruka Urushibara.

Puntò i piedi sul terreno umido, cercando di rallentare la propria corsa per poi schiantarsi al suolo, il sapore della terra che si mischiava a quello del sangue nella sua bocca. Con uno sforzo di volontà sovraumano si rialzò solo per sentire le gambe cedere immediatamente sotto il peso della fatica, costringendolo ad inginocchiarsi.

Impugnando il fucile che gli pendeva da una spalla, si voltò, sparando non appena il nemico entrò nel suo campo visivo. Quando l’uomo si accasciò per terra, con un copioso rivolo di sangue che scorreva dalla testa là dove la pallottola aveva disintegrato l’osso e lacerato la carne, Okabe corse in direzione opposta, raggiungendo i suoi commilitoni.

Ruka Urushibara giaceva riverso sulla schiena, la testa posata sul grembo di Kurisu Makise, il cui volto, pallido come un cencio slavato, lo osservava in palese stato di shock, lo sguardo azzurro che saettava freneticamente tra la sua figura e quella del ragazzo tra le sue braccia.
I suoi occhi incontrarono quelli appannati del suo amico, il quale gli sorrise debolmente.

«Rukako…!».

Una flebile risata gorgogliò dal petto del giovane seguita da un rivolo di sangue scuro che scendeva da un angolo delle sue labbra pallide.

«… a-andate», la sua voce era flebile, poco più di un sussurro. «Okabe… Kurisu…  grazie… di tutto».

Un dolore così forte da mozzargli il respiro si impadronì del suo petto mentre, prendendo per mano Kurisu Makise, corse verso le sagome dei suoi compagni, cercando la salvezza oltre il confine della foresta.

In una luminosa mattina di primavera, Okabe Rintarō, maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich, aveva lasciato morire una delle persone che aveva giurato di proteggere a costo della sua stessa vita.

 

§



 

«Anche la luce sembra morire |
nell'ombra incerta di un divenire».
(da “Inverno” - Fabrizio De Andrè, 1968)

Le forze militari del Leidenschaftlich stanziate presso le mura di Kazaly accolsero il suo plotone senza grandi cerimonie, occupandosi immediatamente di curare i feriti e di fornire un alloggio ai sopravvissuti. Sarebbero rimasti accampati sulle sponde del fiume che attraversava la città per una settimana, per poi partire insieme alle altre truppe alla volta di Capria, capitale dello stato di Bociaccia poco distante dalla roccaforte di Intens.

Dopo aver dato disposizioni affinché i cadaveri fossero recuperati prima del calar della sera, Okabe si rinchiuse nella tenda assegnatagli, dedicandosi a scrivere il rapporto sul viaggio da consegnare al suo superiore. Sentiva che, se non avesse tenuto occupata la mente, avrebbe perso quel barlume di lucidità che gli aveva permesso di non abbandonarsi alla disperazione e al senso di colpa.

«Maggiore!», lo chiamò la voce di un soldato, costringendolo ad abbandonare il rifugio della tenda. Un uomo di mezza età con un incisivo mancante lo accolse sull’attenti, un’espressione allarmata sul volto bruciato dal sole.

«Riposo. Cosa succede?», domandò stancamente massaggiandosi il setto nasale con i polpastrelli.

«È… È impazzita, signore!», fu la risposta tanto criptica quanto concitata dell’uomo.

«Chi sarebbe impazzito? Spiegati meglio».

«La scienziata! Volevano seppellire il corpo del novellino con la faccia da donna, ma si è messa in mezzo e non lascia avvicinare nessuno al cadavere!».

Okabe si lasciò sfuggire un pesante sospiro, trattenendo l’impulso di prendere a pugni l’uomo per il modo in cui aveva descritto il suo defunto amico. «Dove si trova, ora?».

«Nel cimitero militare, signore, verso il lato est delle mura».

§


Le lunghe ombre del crepuscolo oscuravano parzialmente la grande distesa verde costellata di tumuli. Alcuni di questi erano ornati da fiori, altri erano semplici cumuli di terra su cui torreggiava un elmetto sudicio. In un angolo lontano, sotto i rami di un grande albero in piena fioritura, Kurisu Makise scavava con foga quasi maniacale nel terreno umido. Accanto alla donna, avvolto in un telo pieno di rattoppi, giaceva il cadavere del giovane Ruka Urushibara.

Nonostante la mancanza mancanza di luce data dal tramontare del sole al lato opposto della valle, Okabe riuscì a scorgere le mani graffiate e incrostate di sangue e terra della scienziata. Senza proferire parola, si inginocchiò accanto alla donna, afferrandone con delicata fermezza i polsi. Kurisu Makise alzò finalmente lo sguardo verso di lui, il volto inespressivo. I suoi occhi, resi scuri dalla luce fioca del crepuscolo, erano spenti e privi di vita. Sembrava che le avessero tirato via quel po’ di umanità che aveva dato parvenza di possedere.

Aprendo con delicatezza i pugni serrati di Kurisu, posò l’asta di legno consunto di una pala sui suoi palmi tremanti. Poi, con la stessa silenziosa reverenza con cui le si era avvicinato, infilò le mani nella terra smossa e ne sollevò una grossa manciata, gettandola sull’orlo della buca che la donna aveva cominciato a scavare. Dopo alcuni istanti, la punta di ferro arrugginito della pala si unì alle sue mani.

Terminarono la sepoltura che era ormai notte, rimanendo ad osservare in silenzio il tumulo e la corona di fiori candidi posta sopra di esso. Un profondo sfinimento pesava sulle sue membra e sul suo cuore, e Okabe non poté che essere egoisticamente grato di ciò, rimandando i suoi pensieri al mattino seguente, quando il corpo e la mente avrebbero ritrovato un fioco barlume di energia.

In lontananza si udiva lo scrosciare pigro delle acque del fiume e il verso di qualche gufo nascosto nei boschi. Poi, improvvisamente, un singulto strozzato ruppe la quiete della sera.

«Perché… Non è… giusto…».

Per un attimo credette di aver avuto un'allucinazione uditiva. Dopotutto i fattori scatenanti c’erano tutti. Eppure, quando i suoi occhi misero nuovamente a fuoco la figura di Kurisu Makise, i movimenti delicati delle sue labbra non lasciarono spazio a supposizioni: aveva parlato.

Nonostante questo, ciò che lo stupì di più non fu il fatto che la donna da cui dipendevano le sorti della guerra fosse effettivamente in grado di parlare - lo aveva trovato tutto sommato ovvio, quasi come se, per qualche assurdo e inspiegabile motivo, avesse sempre pensato che fosse così -  a lasciarlo in preda al più puro stupore fu il fatto che dai suoi grandi occhi solitamente inespressivi scendevano piccole e brillanti perle alla luce della luna. Kurisu Makise stava piangendo la morte di Ruka Urushibara.

«Signorina Maki-».

«Non è giusto… non meritava di morire…», la sua voce, rotta dai singulti del pianto, era sottile, inaspettatamente delicata. I suoi occhi pieni di lacrime lo fissavano con un’intensità quasi intimidatoria.

«Io...».

«Tu…! Tu lo hai lasciato morire!».

I pugni della donna, ancora sporchi di sangue misto a terra, si abbatterono con violenza sul suo petto, facendo vibrare l’impatto fino alle profondità dei suoi visceri. Il suo stomaco sembrò precipitare in un baratro senza fondo, il groppo nella sua gola si fece troppo difficile da mandare giù.

«È tutta… È tutta colpa tua!».

Okabe chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime bruciassero sulle sue guance ferite. Rimase immobile, lasciando che i pugni continuassero a colpirlo con veemenza. La realtà piombò sul suo cuore con la stessa violenza cui veniva picchiato: Ruka era morto e nulla avrebbe potuto riportarlo indietro.

«Lo so».

 

§




«Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano |
cosa importa se sono caduto se sono lontano |
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole |
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole».
(da “Hotel Supramonte” - Fabrizio De Andrè, 1981)

Kazaly - Inizio aprile.


Mayuri Shiina aveva la stessa età di Ruka Urushibara. Era poco più bassa di lui, con dei capelli scuri un po’ ribelli che le incorniciavano appena il volto leggermente paffuto e adornato da un sorriso sereno. Le iridi cerulee circondate da folte ciglia la osservavano curiosa mentre le tendeva una mano dalle dita piccole ma sottili.

«Forza, andiamo, signorina Kurisu», la incitò in tono allegro, trascinandola in maniera decisa ma gentile all’interno di una casa in pietra di modeste dimensioni circondata da un piccolo e rigoglioso giardino. «Abbiamo un sacco di cose divertenti da fare assieme!».

In quella brillante mattina di inizio primavera la peculiare figura di Mayuri aveva improvvisamente fatto irruzione nella sua tenda all’interno dell’accampamento, sostenendo di essere stata incaricata dal Maggiore Okabe di prendersi cura di lei per quel giorno.

“Mayushii desidera tanto fare amicizia con te!”, aveva esordito con una naturalezza e un’onestà che l’avevano completamente spiazzata. Così, ancora intontita dal sonno, si era lasciata trascinare, seppur con un certo riserbo, per le viuzze della vivace cittadina.

Dopo essere stata convinta, a suon di sorrisi e di rimproveri benevoli, ad accettare la squisita colazione preparatale, scorse Mayuri Shiina osservarla intensamente per alcuni istanti con l’aria di qualcuno in profonda contemplazione per poi aprirsi in un’espressione di leggero disappunto.

«Così non va. Scienziata o meno, una bella ragazza come la signorina Kurisu non può andare girando con la divisa e i capelli conciati in quel modo», si sentì rimproverare.

Kurisu le rivolse uno sguardo perplesso, domandandosi quale connessione potesse avere il suo aspetto con la professione che svolgeva. Non serviva particolare cura della propria apparenza per pensare in maniera lucida.

«Mayushii adesso le prepara un bel bagno caldo e le sistema quella divisa», annunciò trionfante prima di posare le piccole mani sulle sue spalle e spingerla verso una porta in legno situata in fondo ad uno stretto corridoio su cui si affacciavano altre due stanze.

Non avrebbe definito Mayuri Shiina come una persona insistente o fastidiosa, ma sicuramente non era una ragazza come le altre. In qualche modo sembrava brillare di luce propria con il suo modo di fare dolce ma inflessibile. Nonostante la sua giovane età, l’atteggiamento con cui le si rivolgeva le ricordava un po’ quello di una madre nei confronti di una figlia un po’ capricciosa.

«Oh, che capelli splendidi che ha, signorina Kurisu», esclamò passando pazientemente una spazzola tra le sue ciocche bagnate. «Sono di un colore bellissimo e si pettinano così facilmente. Sono sicura che i bambini si divertirebbero un mondo a giocarci».

Al suo sguardo interrogativo Mayuri socchiuse gli occhi, lasciando che un sorriso più delicato prendesse il posto della sua espressione raggiante. «Mayushii la domenica insegna ai bambini che non possono permettersi un’istruzione. Le ricorda quando lei, Okarin e Ruka erano piccoli».

Kurisu osservò il volto di Mayuri Shiina riflesso nello specchio del piccolo bagno: il suo sorriso non accennava a voler lasciare le labbra sottili, ma c’era qualcosa, un dolore nascosto dietro le sue iridi cerulee, che in qualche modo rendeva la sua espressione di una tristezza infinita.

«Sa, noi tre siamo cresciuti nello stesso posto, un villaggio della nazione di Enciel. Eravamo inseparabili, parte di un gruppo di combinaguai di cui Okarin era il leader indiscusso. I miei genitori sono dei sarti abbastanza rinomati ed erano sempre impegnati con il lavoro, perciò io sono stata cresciuta da mia nonna. Due anni fa, poco prima che Okarin si arruolasse nell’esercito, mia nonna morì improvvisamente e la mia famiglia decise di trasferirsi qui a Kazaly, così da essere più vicina alla capitale. Non ho più rivisto Ruka, da allora».

Per alcuni secondi un silenzio malinconico riempì la piccola stanza da bagno. La guerra non aveva fatto altro che strappare gente alla propria patria, persone innocenti ai propri cari. La guerra non faceva altro che togliere, senza dare nulla in cambio se non una vacua gloria che il tempo avrebbe logorato.

Il pensiero che qualcosa che aveva ideato con la sua mente e costruito con le sue stesse mani potesse porre fine a quell’atrocità era fonte di orgoglio e di speranza, ma d’altro canto la morte di Ruka Urushibara le aveva fatto comprendere come la scienza non fosse onnipotente come aveva sempre creduto e che, per quanto la morte fosse il naturale compimento del ciclo vitale, la vita della persone rimaneva comunque qualcosa di estremamente prezioso che andava protetto.

«Accidenti, Mayushii si è lasciata trasportare dalla nostalgia e ha parlato troppo». La voce di Mayuri, tornata alla sua solita spensierata dolcezza, la riscosse dalle sue riflessioni. Lo sguardo della ragazza era fisso sulla sua uniforme militare, accuratamente ripiegata e riposta su una sedia addossata alla parete.«Mmmh, Mayushii teme proprio che dovrà chiedere ai suoi genitori di sistemarla, dei rattoppi di emergenza non durerebbero niente».

In realtà le condizioni della divisa che le era stato ordinato di indossare non avevano grande importanza, nella sua ottica. Non partecipava ai combattimenti e per lei quegli abiti non erano altro che un modo per confondersi tra i soldati, dal momento che i vestiti che era solita indossare avrebbero attirato con fin troppa facilità l’attenzione del nemico. Quando però aprì finalmente bocca per esprimere la propria opinione, Mayuri la interruppe scuotendo vigorosamente il capo.

«Mayushii non accetta proteste, perciò adesso le presterà un bell’abito e la porterà in giro a fare un po' di compere, signorina Kurisu».

Nella sua tutto sommato breve esistenza Kurisu aveva incontrato poche tipologie di persone: c’erano le persone meschine e opportuniste come suo padre, che volevano usare il suo intelletto a scopo di lucro, c’erano le persone con una mentalità focalizzata sul raggiungimento dei propri obiettivi come il tenente-colonnello Tennōji e c’erano le persone che temevano e allo stesso tempo veneravano la sua intelligenza.

Ruka Urushibara e Mayuri Shiina non appartenevano a nessuna di queste: pur non conoscendo nulla di lei se non la sua fama di scienziata, non desideravano altro se non la sua amicizia e la sua comprensione. Il suo cuore si riempì improvvisamente di un’emozione nuova.

«Grazie, Mayuri», disse semplicemente voltandosi verso di lei.

Il sorriso che ricevette in risposta fu una stella nel firmamento notturno.

 

§


Era stata una giornata che lo aveva portato a nutrire una sorta di ambivalenza nei confronti della sua posizione all’interno dell’esercito. Se da un lato la sua carica di Maggiore lo aveva costretto a trascorrere il giorno chiuso nella sua tenda a scrivere lettere alle famiglie dei caduti, dall’altro lo aveva aiutato nel tenere la mente occupata, accantonando temporaneamente il dolore per la morte di Ruka.

Kurisu Makise aveva ragione: era tutta colpa sua. Se fosse stato più attento, se fosse stato di più pronta reazione e soprattutto… se avesse accettato di rischiare la propria vita per cercare di portarlo in salvo, forse il suo amico sarebbe stato ancora lì con lui. Ovviamente sapeva anche quanto fosse inutile e deleterio perdere tempo nel rimuginare su qualcosa che, in quanto appartenente al passato, era ormai immutabile, ragion per cui si era tenuto occupato con la burocrazia fino a quando il suo corpo non aveva ceduto alla stanchezza.

Nonostante il tempo trascorso dal suo arruolamento e le esperienze vissute sul campo di battaglia, Okabe continua a considerarsi un codardo. L’unica cosa di cui era sempre stato veramente capace era pensare a se stesso, ignorando i sentimenti degli altri: aveva deciso di abbandonare uno dei suoi amici di una vita per proteggere Kurisu Makise e il tutto solo per il fine ultimo di porre rapidamente fine ad una guerra che minacciava costantemente la sua incolumità. Non riusciva nemmeno a trovare il coraggio di scrivere ai propri genitori, i quali ricevevano notizie su di lui soltanto tramite Mayuri e allo stesso modo, quel giorno, non era stato in grado di scrivere una lettera ai signori Urushibara per comunicare loro della morte di loro figlio.

«Ma guarda un po’... chi avrebbe mai detto che nascondessi un corpicino del genere».

La voce, decisamente troppo entusiasta e alta per i suoi gusti, proveniva dall’esterno della sua tenda.

Okabe sospirò. Non era raro che qualche soldato del suo plotone, durante le soste in città, cercasse la compagnia di qualche prostituta. Ogni giorno poteva essere l’ultimo, perciò molti dei suoi uomini cercavano di godersi il presente il più possibile, indugiando in abitudini che trovava, forse anche a causa della sua giovane età, piuttosto discutibili. Tuttavia non aveva mai trovato motivo di riprenderli o di biasimarli, dal momento che le loro attività al di fuori del campo di battaglia non lo riguardavano fintanto che queste non influivano sull’esito delle operazioni militari.

“Potrebbe almeno essere più silenzioso”, pensò seccato mentre impilava ordinatamente le lettere scritte.

«La nostra scienziatina da strapazzo era un diamante grezzo, eh? Perché non vieni a farmi compagnia? Ci divertiremo, te lo prometto».

Gli sarebbe piaciuto poter dire di aver sentito male o di non aver capito a chi quelle parole fossero rivolte, perché non era sicuro di poter sopportare ulteriore stress emotivo senza esplodere. Tuttavia, quel po’ di buonsenso che gli era rimasto fu sufficiente a ricordargli che parte del suo compito consisteva nel proteggere Kurisu Makise, la quale, proprio come lui, aveva subito un grande lutto.

«”No”? Non sai usare quella deliziosa vocina che sicuramente possiedi? O forse vuoi che sia io a tirartela fuori? Dopotutto sai come si dice, no? Chi tace acconsente».

Inspirando profondamente, Okabe si alzò dalla brandina, marciando a passo deciso verso l’uscita della tenda. Aveva tutta l’intenzione di dirne quattro al suo sottoposto, avrebbe spiegato che essere soldati non implicava poter fare i propri comodi con i comuni civili e che la signorina Makise meritava di essere rispettata non solo in quanto loro alleata, ma anche - e soprattutto - in quanto essere umano.

Un gemito di dolore seguì un rumore secco ed improvviso. Sul terreno davanti alla sua tenda giaceva agonizzante, mentre con le mani andava a coprirsi un occhio, il proprietario della fastidiosa voce di qualche istante prima e, a poca distanza da lui, una semplice scarpa nera. A meno di un metro dall’uomo, tra gli sguardi a metà tra l’ammirato e il terrorizzato del resto dell’esercito, Kurisu Makise, priva di una scarpa, osservava il malcapitato con malcelato disgusto. Dopo alcuni istanti di imbarazzante silenzio in cui persino lui rimase senza parole, la donna, fasciata in un delizioso abito color glicine, si chinò con grazia per recuperare la calzatura usata come arma, lasciando che una cascata di lisci capelli ramati scivolasse lungo le sue spalle.

In quel momento il Maggiore Rintarō Okabe ebbe la realizzazione più ovvia e scontata dei suoi 19 anni di vita, una realizzazione scontata persino per un bambino ma che aveva tardato a giungere fino a quel momento.

Kurisu Makise era una donna.

Teoricamente parlando, quella nozione gli era stata chiara sin dal momento in cui il colonnello Tennōji gliel’aveva affidata, ma praticamente parlando la sua testa sembrava non aver colto appieno il concetto fino a quel momento. E se da una parte si sentiva un completo idiota per l’ovvietà delle sue riflessioni, dall’altra pensava di non potersi biasimare completamente per queste: dopotutto in quel mese Kurisu Makise gli aveva rivolto la parola soltanto una volta, senza contare il modo in cui aveva palesemente evitato di avere a che fare con lui. A ciò si aggiungeva il fatto che, le poche volte in cui le loro strade si erano incrociate, l’aveva vista indossare abiti maschili, portando la sua mente a conformarla agli altri suoi sottoposti.

«Co… Cosa sta succedendo, qui?», riuscì infine a domandare.

Kurisu Makise sbuffò, palesemente contraria all’idea di dovergli delle spiegazioni. «Mi sembra ovvio, no? Sono stata importunata e ho reagito di conseguenza».

Un brusio carico di stupore si levò dagli spettatori nel momento in cui la donna parlò e Okabe sentì per la prima volta una forte empatia nei confronti dei suoi commilitoni. Non era una conclusione insensata pensare che Kurisu Makise non fosse in grado di parlare, perciò comprendeva piuttosto bene lo shock generale.

«Adesso, con permesso, vorrei tornare alla mia tenda», sentenziò stizzita la scienziata mentre Okabe la guardava allontanarsi con un’espressione che, se fosse stato in grado di vedersi, gli avrebbe terribilmente ricordato quella di uno stoccafisso.

«Maggiore, quella lì è un demonio», commentò il suo sottoposto alzandosi finalmente da terra. Il suo occhio destro stava già assumendo una tonalità pericolosamente tendente al violetto.

La figura di Kurisu sparì nell’oscurità che si era insinuata tra le tende dell’accampamento.

«E tu sei un idiota, Kamakura».

 

§

Quando la mattina dopo Mayuri si era presentata in accampamento con un gran sorriso sulle labbra chiedendogli di pranzare insieme, Okabe non pensava che l’invito comprendesse la presenza di Kurisu Makise. Dopo quanto era accaduto nella foresta era piuttosto sicuro che la donna provasse nei suoi confronti un sentimento pericolosamente vicino all’odio e, per evitare di complicare ulteriormente la loro già difficile convivenza, aveva pensato di starle ancor più lontano di prima.

In realtà cosa si nascondesse dietro il silenzio di Kurisu, che osservava assorta il modo in cui Mayuri trafficava con gli utensili da cucina, suscitava in lui un certo grado di curiosità. Tutto ciò che sapeva era che si trattava di una persona estremamente intelligente che nutriva un’assoluta confidenza nelle proprie capacità e che in qualche modo si era in qualche modo guadagnata l’affetto incondizionato dei suoi due più cari amici.

«Okarin», la voce della sua amica d’infanzia si levò da dietro i fornelli, dove era intenta a tagliare alcune carote. «Mayushii non vuole essere pedante, ma… dovresti prenderti più cura di te stesso».

Okabe sentì le proprie labbra stendersi in un sorriso: era così tipico di Mayuri preoccuparsi tutto il tempo per gli altri, anche quando apparentemente era impegnata a fare altro. Era una delle sue caratteristiche che desiderava non cambiassero mai, perché, a suo modo, la rendeva unica.

«Non hai motivo di preoccuparti per me, sto bene, come puoi vedere».

Mayuri si voltò, brandendo il coltello con minacciosa innocenza. «A Mayushii le bugie non piacciono. Quel brutto taglio che hai sulla guancia si infetterà, se non lo curi».

«Oh», si ritrovò a dire mentre le sue dita andavano automaticamente in cerca della ferita. Erano stati giorni così pieni di eventi che non vi aveva dato più pensiero. «È solo un graffio, guarirà da solo».

L’espressione di Mayuri si fece carica di disappunto mentre posava la mano libera su un fianco, puntando il coltello nella sua direzione con fare accusatorio. «Mayushii non vuole sentire scuse», disse voltandosi poi verso Kurisu, seduta al capo opposto del tavolo rispetto a lui. «Kurisu, tu sei una dottoressa, vero? Potresti disinfettare la ferita di Okarin?».

Kurisu sobbalzò sulla sedia, rivolgendo a Mayuri un’espressione a metà tra l’esasperato e lo scioccato. «Possiedo delle conoscenze mediche di base, ma credo che sia meglio che sia tu ad occuparti di una cosa del genere».

Mayuri scosse il capo con un sorriso. «Mayushii è molto impegnata con la cucina e poi è sicura che non potrà mai essere brava quanto te».

Okabe si ritrovò ad osservare la scena interdetto, non riuscendo a comprendere a cosa fosse dovuta tutta l’improvvisa insistenza della sua migliore amica. Mayuri era una persona estremamente perspicace, quando si trattava degli altri, doveva sicuramente aver notato come Kurisu detestasse stare in sua prossimità.

«… D’accordo», si arrese infine Kurisu con un sospiro sconfitto.

«Trovi tutto il necessario nell’armadietto del bagno», trillò Mayuri tornando a dedicarsi alle verdure del suo stufato.

Per qualche motivo Okabe ebbe la sensazione di essere appena stato incastrato dalla sua migliore amica.

 

§

La situazione era palesemente imbarazzante. Non riusciva ancora a comprendere come Mayuri, a suon di sorrisi e parole gentili, fosse riuscita a ficcarlo in quel genere di situazione.

Sotto il sole gentile della primavera, seduta accanto a lui su una panchina del piccolo giardino di casa di Shiina, Kurisu Makise si stava accingendo a disinfettare la sua ferita. La sua espressione era inquieta mentre, con una scioltezza sorprendente, bagnava un pezzo di stoffa con un liquido dall’odore pungente.

Era la prima volta che gli capitava di osservarla così da vicino. Prima di allora i loro incontri erano avvenuti a debita distanza o in momenti di grande tensione in cui la sua attenzione era focalizzata su altro. I suoi occhi, adombrati da lunghe ciglia, fissavano concentrati la ferita sulla sua guancia mentre le labbra erano contratte in una linea sottile. Era sorprendente con quanta serietà avesse preso una semplice medicazione e Okabe si ritrovò a pensare che quella strana donna doveva davvero amare il proprio mestiere.

Un leggero verso di sorpresa fuggì dalle sue labbra nel momento in cui, con una delicatezza sorprendente, Kurisu andò a posare la stoffa sulla sua ferita, premendo leggermente. Una sensazione di intenso bruciore pervase la sua guancia, strappandogli un sibilo di dolore.

«Sii paziente. Durerà solo qualche minuto», disse Kurisu andando ad incontrare il suo sguardo per la prima volta dalla notte della sepoltura di Ruka Urushibara. I suoi occhi erano leggermente allungati, le iridi di un azzurro così intenso da sembrare quasi violetto. Il suo viso era piccolo e affusolato, incorniciato da lunghe ciocche di capelli liscissimi e da una frangetta irregolare che le cadeva appena sopra gli occhi.

È… davvero una bella ragazza.

Resosi improvvisamente conto del percorso intrapreso dai suoi pensieri, distolse prontamente lo sguardo dalla figura della scienziata ancora intenta a tamponare con delicatezza la sua ferita. Il lombrico che stava cercando di nascondersi sotto uno dei sassi nel terreno gli parve improvvisamente molto interessante.

«Ehi», lo chiamò Kurisu.

Okabe sobbalzò, sentendosi come un bambino colto con le mani nella marmellata.

«… Mi dispiace per l’altra sera. So che questo non cambierà il fatto che mi odi, ma sono stata ingiusta nei tuoi confronti».

L’espressione sul volto della ragazza era contrita, quasi a voler rafforzare il concetto espresso dalle proprie parole. Okabe la osservò esterrefatto per qualche istante, incapace di processare immediatamente il significato dell’accaduto. Non aveva idea di come avrebbe dovuto reagire, ma pensò che una buona base di partenza sarebbe stata ricambiare la sincerità.

«Io… non ti odio. La verità è che hai ragione. Ruka… Ruka è morto per colpa mia, perché non ho fatto nulla per salvarlo. Perciò hai tutto il diritto di odiarmi o di incolparmi».

Kurisu abbassò lo sguardo, spostando la mano dalla sua guancia e giocherellando nervosamente con il tampone. «Non sei tu l’oggetto del mio odio. L’altra sera mi sono fatta sopraffare dalle emozioni e ti ho addossato colpe che non hai».

La sua espressione mutò in una che mai le aveva visto fare prima di allora. Sembrava così fragile da dargli l’impressione di potersi dissolvere nel momento in cui avesse distolto lo sguardo.

«La verità è che la persona che odio più di chiunque altro è me stessa. Ruka Urushibara si sarebbe potuto salvare se io non gli fossi stata d’impiccio, se non l’avessi messo in una situazione così rischiosa standogli vicino durante l’assalto».

«Sono sicuro che Ruka avrebbe cercato di proteggerti anche se ti fossi allontanata da lui. Ma io… Se solo fossi stato più veloce, se solo...».

«Basta così, voi due».

La voce di Mayuri, apparsa improvvisamente sulla soglia, risuonò decisa per il piccolo giardino.

«Mayushii non era lì con voi, questo è vero, ma è certa che la colpa non sia né di Okarin né di Kurisu. La responsabile di tutto questo dolore, di tutte queste perdite… è soltanto la guerra».

«Mayuri, io…», provò a dire Okabe prima di essere nuovamente interrotto.

Mayuri stava piangendo.

«Mayushii… Mayushii ve lo chiede in ginocchio. Ponete fine a questa guerra… Non lasciate che Ruka sia morto invano!».

Con sua grande sorpresa Kurisu si alzò dalla panchina, raggiungendo Mayuri in poche falcate. Prendendo le mani della sua amica tra le proprie, parlò con voce risoluta.

«… lo faremo. Lo giuro sulla mia stessa vita».

 

§

 

«Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riuscire ad esprimerlo con le parole».
(da "Un matto" - Fabrizio De Andrè, 1971)

 

«Come? Aiutarti a scrivere delle lettere? Guarda che sono una scienziata, non una Bambola di scrittura automatica».

Nei giorni successivi all’invito a pranzo di Mayuri il rapporto tra lei e Okabe era migliorato. Dall’ignorarsi completamente erano passati a rivolgersi goffi saluti, suscitando peculiari reazioni tra i soldati che variavano da esclamazioni di stupore a fischi e risate.

In realtà il fatto che il tempo di Okabe fosse occupato in gran parte dai suoi doveri di ufficiale dell’esercito le dava un certo sollievo: non avrebbe saputo cosa dire nel caso avesse cercato di fare conversazione con lei e l’idea di sprecare del tempo prezioso in chiacchiere inutili la irritava non poco. Perciò, quando a due giorni dalla partenza da Kazaly Okabe si era presentato alla sua tenda nel cuore della notte chiedendole con aria disperata di aiutarlo a scrivere delle lettere, era stata colta da uno stupore non indifferente.

Era sempre stata molto brava ad inquadrare la personalità di coloro che la circondavano. La sua vita era stata un susseguirsi di persone che cercavano di usarla per i propri fini, perciò, chiudendosi nel suo silenzio, aveva imparato ad osservare e capire la gente da piccoli gesti, dalle inflessioni della voce, dalle parole scelte.

Proprio per questo motivo Okabe per lei rappresentava un piccolo mistero. Era senz’altro diverso da persone come suo padre e il colonnello Tennōji: era ligio al proprio dovere ma possedeva una morale, era dotato di discrete capacità strategiche, era trattato con rispetto da tutti i suoi commilitoni e i suoi più cari amici sembravano nutrire una profonda ammirazione nei suoi confronti. Da un punto di vista estetico non era particolarmente attraente: la sua eccessiva magrezza veniva accentuata dall’elevata statura, il volto scavato e gli occhi perennemente cerchiati da profonde occhiaie gli davano un aspetto quasi trasandato. Un suo segno distintivo, tuttavia, era la sua aria perennemente malinconica, come se ci fosse qualcosa che segretamente lo affliggeva su cui non riusciva a proferire parola.

Se non altro poteva dire che Rintarō Okabe la incuriosiva.

«E poi perché dovresti avere bisogno di aiuto? Voi ufficiali dell’esercito non dovreste essere abituati a scrivere lettere ai familiari dei caduti?».

«Sì, questo non posso negarlo, tuttavia...», si interruppe fissando i propri piedi con aria contrita. La tenue luce della lampada ad olio creava giochi di ombre sul volto del giovane uomo davanti a lei e per un attimo ebbe l’impressione che Okabe fosse invecchiato di dieci anni in pochi istanti. «Vorrei scrivere ai genitori di Ruka Urushibara e… alla mia famiglia».

Kurisu sollevò un sopracciglio con fare scettico, non comprendendo quale fosse il motivo di tanta esitazione. «Tu e Urushibara non eravate amici d’infanzia?», domandò con sincera curiosità facendo cenno di sedersi accanto a lei sulla brandina.

Dopo qualche momento di esitazione Okabe obbedì. «Inoltre, perché dovresti avere bisogno del mio aiuto per scrivere ai tuoi genitori? Io e te potremmo al massimo definirci “conoscenti”».

Okabe sospirò pesantemente, tenendosi la testa tra le mani. «Ascoltami, io non so nulla di te e tu non sai nulla di me, è vero. È proprio per questo motivo sono venuto a chiederti aiuto. Credo che non riuscirei a dire quello che vorrei se provassi a scrivere da solo o se chiedessi aiuto a Mayuri».

Kurisu si portò una mano al mento con aria assente, riflettendo in silenzio per alcuni istanti. «Capisco. Effettivamente, per quanto possa sembrare un controsenso, alcuni meccanismi psicologici di difesa possono venire meno quando ci si rapporta con persone con cui si ha poca confidenza».

«Io non voglio… che Mayuri soffra».

Okabe aveva parlato all’improvviso in tono greve, l’espressione sul volto emaciato nascosta dalla penombra della tenda. Kurisu lo osservò sorpresa per qualche istante prima di annuire piano.

Sarebbe risultato evidente per chiunque il fatto che Okabe Rintarō e Shiina Mayuri fossero legati da un profondo affetto. Proprio per questo era certa che Okabe non fosse all’oscuro della sorprendente perspicacia della sua amica d’infanzia, la quale si preoccupava sempre più per lui e per gli altri suoi cari piuttosto che per se stessa. Poteva dire con un buon margine di certezza che una delle ragioni principali per cui il Maggiore Okabe avesse chiesto l'aiuto di una scienziata dalla fama controversa come lei era il non voler dare a Mayuri ulteriori motivi di preoccupazione nei suoi confronti.

Kurisu si alzò dalla brandina con un cigolio, dirigendosi verso il suo unico bagaglio riposto in un angolo della tenda. «Va bene, ti darò una mano. Però non posso garantirti un buon risultato, è la prima volta che scrivo una lettera».

Okabe le rivolse uno sguardo perplesso. «Non hai mai scritto una lettera? Voglio dire, sei una scienziata, dovresti sapere come si fa…».

«Hai centrato il punto della questione. Sono una scienziata, non una Bambola di scrittura automatica. Oltretutto la mia è stata un’istruzione piuttosto atipica anche per una persona di scienza», fu la risposta seccata di Kurisu mentre rovistava tra i propri averi. Pochi istanti dopo riemerse dalla penombra con alcuni fogli sgualciti e una penna stilografica che aveva l’aria di essere di pregevole fattura.

«Non capita tutti i giorni di vedere una cosa del genere», commentò Okabe osservando l’oggetto mentre Kurisu lo riponeva con cura sul tavolino di legno consunto che presumeva avrebbe utilizzato come scrivania.

«Beh, non ci sono macchine da scrivere in accampamento e non ho alcuna intenzione di andare fino in città per procurarmene una. Perciò ti dovrai accontentare».

Okabe parò le mani davanti a sé, quasi a volersi difendere dalla pungente schiettezza della scienziata. «La mia non era una lamentela, ero soltanto colpito dalla bellezza di quella penna».

«È un regalo», si lasciò sfuggire Kurisu. Le sue mani sottili svitavano il tappo dell'oggetto con la destrezza e la cura di chi aveva compiuto quel gesto già molte volte.

«Del tuo ragazzo?».

Kurisu si voltò di scatto, rivolgendo al giovane uno sguardo che avrebbe potuto uccidere, ma non riuscendo a nascondere il rossore sulle sue guance. Perché improvvisamente il maggiore si interessava alla sua vita? E, ammesso e non concesso che fosse necessario farlo per qualche assurdo motivo, perché doveva interrogarla proprio su un argomento così futile e imbarazzante?

Okabe in tutta risposta le scoccò uno sguardo terrorizzato prima di profondere in una serie di goffe giustificazioni. «Voglio dire, le ragazze di buona famiglia che hanno più o meno la tua età sono generalmente già promesse in sposa a qualcuno, perciò… ecco…».

«… La questione non ti riguarda», tagliò corto. Non le piaceva quella sensazione di imbarazzo. «Ti conviene iniziare a dettare se non vuoi che perda la pazienza. Queste chiacchiere inutili mi fanno venire mal di testa».

 

§

 

«”Mamma, papà. È da lungo tempo che medito di scrivervi ma è soltanto ora, dopo due lunghi anni di silenzio, che trovo il coraggio di farlo.

Nonostante il passare del tempo, credo di non essere affatto cambiato o maturato, continuo a seguire ciò che il mio cuore impulsivamente mi suggerisce, finendo inevitabilmente con il fare del male agli altri. Non ci sono parole che possano esprimere appieno il rammarico che provo nell’essere andato via contro la vostra volontà, arrivando al punto di arruolarmi di nascosto pur di fare ciò che egoisticamente credevo fosse la cosa giusta. Per quanto sono certo che queste mie parole possano essere di ben poco conforto, desidero che sappiate che non c'è giorno in cui non vi abbia pensati e non abbia pregato il destino perché foste felici ed in salute.

In questi due anni sono successe molte cose; la mia impulsività mi ha portato a scalare inaspettatamente i ranghi e adesso ricopro la posizione di Maggiore dell’esercito del Leidenschaftlich e mi auguro che i miei guadagni vi permettano di vivere serenamente, poiché, se ho lasciato voi e la placida vita di paese in favore della crudele realtà della guerra, è soltanto per questo motivo.

In un’occasione più lieta non avrei mancato di annunciarvi con gioia e sollievo di essere in buona salute, oltre che vivo, ma la realtà dei fatti è che in questo momento non sento di essere meritevole del dono della vita che voi mi avete dato con amore. In questi anni ho compreso che, se un dio effettivamente esiste, deve essere in possesso di un crudele senso dell’umorismo, perché ha permesso che una persona innocente perdesse la vita per difendere la mia. Il giovane Ruka Urushibara ha combattuto splendidamente durante un’imboscata del nemico per proteggere me e un’altra persona che, come lui, non avrebbe mai dovuto essere testimone di questo orrore. Le sue ultime parole sono state di gratitudine nei miei confronti, ma non posso fare a meno di ritenermi immeritevole anche di queste, poiché se avessi rischiato di più, se avessi messo in gioco la mia stessa vita, forse sarei finalmente riuscito a proteggere qualcuno. Con immutato affetto, Okabe Rintarō"».

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato e, stranamente, scoprì che non poteva importargli di meno. Inizialmente, quando Makise Kurisu aveva ammesso di non aver mai scritto una lettera, aveva creduto di essersi effettivamente rivolto alla persona sbagliata.

Eppure, nel momento stesso in cui le parole avevano abbandonato le sue labbra, Kurisu aveva subito una trasformazione davanti al suo sguardo incredulo. La schiena dritta nonostante lo scomodo sgabello su cui era seduta, il modo in cui spostava le lunghe ciocche di capelli ramati mentre era concentrata, il modo in cui la luce abbracciava i contorni morbidi del suo viso, il miscuglio di emozioni silenziose che scorrevano sul suo volto mentre con mano sicura e grafia elegante metteva su carta i pensieri di un uomo distrutto dalla guerra. E poi la sua voce sottile, le inflessioni che questa assumeva mentre leggeva con espressione ogni singola parola, quasi i suoi sentimenti si fossero riversati in quella ragazza così strana eppure così bella per poi fluire tramite la sua penna.

Kurisu Makise poteva non essere una bambola di scrittura automatica, ma brillava di malinconica bellezza e intelletto sopraffino più di qualunque altra persona lui avesse mai incontrato.

«Quindi? Soddisfatto?», la voce della scienziata lo riscosse dallo stato di contemplazione in cui era caduto senza rendersene conto.

«Sono… davvero sorpreso. Hai fatto un lavoro incredibile», commentò con sincera ammirazione.

Vide Kurisu concedersi un sospiro di sollievo per poi aprirsi in un leggero sorriso. «Meno male. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con i miei studi, perciò mi sono dovuta basare sulle mie generiche conoscenze sul mestiere delle Bambole di scrittura e sulla letteratura di genere epistolare in cui mi sono imbattuta nel corso degli anni. Sicuramente è possibile ottenere risultati migliori, ma personalmente non posso lamentarmi».

Okabe sentì le proprie labbra tendersi in un sorriso, per poi lasciarsi sfuggire una leggera risata.

«E-ehi, cos’hai da ridere?», domandò Kurisu visibilmente stizzita.

«Nulla, nulla. Solo… è insolito sentirti parlare così tanto. Ti facevo una persona taciturna», ammise distogliendo lo sguardo dalla ragazza per concentrarlo sul bagliore tenue della stilografica riposta sulla scrivania improvvisata.

«Devo ammettere di non essere un’amante delle conversazioni, specialmente quando l’argomento di discussione è qualcosa di futile. Lo ritengo uno spreco di energie», precisò Kurisu osservando seria i fogli vergati dalla sua grafia. « Prima di conoscere Urushibara pensavo che le parole fossero inutili, perché nella scienza non sono sufficienti, una teoria va sempre dimostrata, altrimenti non rimane altro che un involucro vuoto».

«È stato Rukako a parlarti delle bambole di scrittura automatica?».

Kurisu annuì piano, socchiudendo gli occhi.

«È stato… la notte prima che succedesse. Ci siamo incontrati per caso davanti al fuoco dell’accampamento. Trovo tristemente ironico come mi abbia confessato di non riuscire a dormire per la paura. La morte è la conclusione naturale della vita, ma lui… non meritava di morire così presto. Non ha nemmeno avuto la possibilità di realizzare il proprio sogno».

«In un certo senso...», cominciò Okabe stringendo i pugni, il suo sguardo che incontrava finalmente quello di Kurisu. «È riuscito a realizzarlo, i suoi sentimenti hanno lasciato un segno su qualcuno, così come il suo amore per le parole».

La scienziata scosse il capo e, per la prima volta, Okabe riuscì a scorgere distintamente sul suo volto l’ombra di tutto il suo dolore.

«Avrebbe potuto fare affidamento su qualcuno migliore di me. Sono stata cresciuta perché capissi i fatti, non le emozioni, per poi vedere il mio intelletto venduto al miglior offerente. Accetta la realtà, Okabe, io non posso realizzare il suo sogno, mi manca quella fondamentale caratteristica dell’essere umano che è l’empatia».

Com’era possibile che Kurisu, in tutta la sua brillante intelligenza, non riuscisse a comprendere la grandezza di ciò che aveva appena fatto? Non sapeva nulla di lui, della sua vita, del suo dolore, eppure solo sentendo la sua storia, condividendo con lui la sofferenza per la scomparsa di Rukako, era stata in grado porre in maniera indelebile, nero su bianco, i pensieri che lo avevano tormentato per gli ultimi due anni.

«Perché non capisci?», domandò in tono più aggressivo di quel che avrebbe voluto. «Se tu non provassi nulla, se tu non capissi le emozioni, non saresti stata in grado di scrivere quella lettera, non avresti pianto per la sua morte e non avresti sentito alcun senso di colpa!».

Perfino lui, che di lei conosceva soltanto il nome e poco più, era riuscito a scorgere quella delicatezza e quella fragilità che non sarebbero mai dovuti appartenere ad un campo di battaglia, quella capacità di comprendere il dolore degli altri al punto da renderlo proprio. Chiunque avesse ridotto Kurisu Makise a pensare che l’unica cosa di valore in lei fossero le sue capacità intellettuali doveva essere stato un mostro.

«… Sì, io non capisco, hai perfettamente ragione», disse piano Kurisu, la voce ridotta a poco più di un sussurro. «Non capisco perché nessuno mi ha insegnato a farlo. Non capisco perché non c’è libro che spieghi cosa rende una persona “umana”».

Okabe sussultò nell’udire lo schietto candore di quell’ammissione, il sentore dell'amara verità che lo attendeva nelle parole di Kurisu che stringeva il suo cuore in una morsa gelida.

«Sono figlia di uno scienziato, di un fisico. Non so cosa abbia visto in me, ma dal momento in cui ho imparato a parlare ha deciso che avrei seguito le sue orme. Non mi importava trascorrere la mia esistenza chiusa in casa, immersa nei libri e nelle lezioni dei miei precettori. Mio padre, che per me era tutto, parlava sempre con orgoglio della mia intelligenza, mi trattava come se fossi preziosa e tanto mi bastava per provare felicità», spiegò Kurisu con un sorriso amaro.

Ne parlava come se la cosa non la riguardasse, ma la sua espressione tradiva tutta la tristezza e la rassegnazione che provava.

«Poi, un giorno, fu cacciato dal laboratorio in cui lavorava, accusato di aver usato i loro fondi per i propri fini personali. Più la sua fama nella comunità scientifica precipitava, più si diffondeva la voce del mio genio. Fu un duro colpo al suo orgoglio, una ferita così profonda da portarlo a non sopportare più la mia sola esistenza. Così, quando alcuni alti ufficiali dell’esercito gli proposero una somma di denaro sufficiente da farlo vivere agiatamente per il resto dei suoi giorni in cambio della completa giurisdizione sulla mia persona, mi gettò via senza pensarci due volte».

«Kurisu, io… Mi...».

Per quanto avesse immaginato come dietro una figura criptica come la sua ci fosse una storia difficile, non avrebbe mai potuto prevedere quanto questa potesse essere ingiusta e crudele. Vivere un’esistenza alla mercé della volontà altrui, senza poter scegliere il proprio destino era una condanna più crudele della morte.

La giovane donna scosse nuovamente il capo, mordendosi le labbra sottili.

«Come può una persona come me, che ha vissuto per l’arida conoscenza dei libri, capire cosa significhi essere umani? È bene che io rimanga nel ruolo che mi è stato assegnato sin dall’inizio: la scienziata prodigio inventrice dell’arma che ribalterà le sorti della guerra».

Okabe sentì gli occhi bruciare per le lacrime non versate, le lacrime che avrebbe voluto spendere ancora e ancora per la sorte che era toccato al suo amico e per la sorte che era toccata a Kurisu, entrambi vittime di un destino che non conosceva pietà.

Si era sempre egoisticamente sentito come un eroe tragico, protagonista della propria triste avventura, ma adesso comprendeva finalmente l’abisso che lo separava da chi una tragedia l’aveva vissuta per davvero. Se lui aveva avuto la possibilità di decidere da solo la propria sorte scegliendo di gettare la propria vita in guerra sfuggendo ad un'esistenza vuota e priva di un vero e proprio scopo, Kurisu Makise e Ruka Urushibara non avevano avuto possibilità di scelta, costretti ad abbandonare i propri sogni per sottostare a ciò che altri avevano determinato per loro.

«Perdonami», fu tutto ciò che riuscì a dire.

Kurisu, in tutta risposta, gli sorrise, una singola lacrima che correva lungo una guancia pallida. «Non è colpa tua».

 

§


Primavera non bussa, lei entra sicura, | come il fumo lei penetra in ogni fessura, | ha le labbra di carne, i capelli di grano, | che paura, che voglia che ti prenda per mano. | Che paura, che voglia che ti porti lontano”. (Un chimico - Fabrizio De André, 1971)
 


Ultima decade di Aprile, Bociaccia.
 

Nonostante fosse ormai primavera inoltrata, le regioni settentrionali dell’impero Gardarik mantenevano temperature rigide. Avevano attraversato solo da qualche giorno il confine tra il Leidenschaftlich e Bociaccia, entrando ufficialmente in terra nemica. Il clima freddo ma sereno aveva accelerato i tempi di marcia grazie all’assenza di precipitazioni nevose, permettendo all’esercito alleato di raggiungere il sentiero tra i monti al confine settentrionale nel giro di una decina di giorni.

L’uomo a capo del gruppo di ricognizione, affannato e con il terrore dipinto negli occhi, era corso da Okabe, distante pochi metri da lei, annunciando a gran voce come a massimo un’ora di cammino il contingente nemico che difendeva Capria, la fiorente capitale dello stato, fosse in attesa del loro arrivo, armato di cannoni.

Il suo sguardo incontrò quello ambrato di Okabe, il quale le rivolse un’espressione disperata. Non era necessario essere esperti di strategia militare per comprendere come l’unico modo per riuscire ad oltrepassare l’ultima linea di difesa prima della roccaforte di Intens era sabotare i cannoni mandando un gruppo in avanscoperta. Gli uomini che avrebbero intrapreso quella missione si sarebbero trovati faccia a faccia con il confine sottile che divideva la vita dalla morte, affidando le proprie sorti ad un gioco crudele.

Lei e Okabe non si erano parlati molto negli ultimi giorni a causa dei serrati ritmi di marcia ma spesso, come in quel momento, i loro sguardi si incrociavano in mezzo alla folla di persone agghindate nella medesima uniforme, quasi a volersi accertare che l’altro fosse ancora lì, su quella terra verde ricoperta dalla brina.

Il sole era calato dietro l’orizzonte già da diverse ore quando Okabe, con voce risoluta, arringò i 20 uomini che avevano deciso di mettere a rischio la propria vita per la possibilità di porre finalmente termine ai conflitti. L’Okabe che si rivolgeva sicuro ai propri sottoposti e che combatteva con tutte le proprie forze sul campo di battaglia era una persona leggermente diversa da quella che aveva avuto modo di conoscere nelle loro brevi ma intense conversazioni. Sembrava quasi che volesse infondere il coraggio che fingeva di possedere ai suoi commilitoni.

Non lo biasimava affatto per il suo provare paura, così come non aveva biasimato Ruka Urushibara quando le aveva rivolto la medesima confessione. Lei stessa era stata colta da un profondo senso di inquietudine dal momento in cui avevano lasciato Kazaly, un’inquietudine che riusciva a collegare unicamente al peso della promessa rivolta a Shiina Mayuri.

Era dunque questo che si provava a mettere in gioco la propria vita per il bene di qualcuno diverso da se stessi? Nessun altro doveva morire o soffrire per proteggerla.

«Voglio combattere», dichiarò decisa nel momento in cui Okabe le si avvicinò, pronto a darle le ennesime disposizioni su come muoversi per evitare di essere coinvolta nella battaglia.

La cicatrice scura che lo scontro nei pressi di Kazaly aveva lasciato sul volto del giovane spiccava in netto contrasto con la pelle illuminata dal pallore della luna. Non riuscì a vedere che espressione avesse ma una mano inaspettatamente grande e nodosa si posò attorno al suo polso sottile, strattonandola via senza dire una parola.

Per alcuni minuti si udì soltanto lo scricchiolio dei loro pesanti stivali sull’erba ricoperta dal gelo notturno e il vociare sommesso dell’esercito che si faceva distante.

Comprese di essere stata portata contro una delle pareti rocciose che costeggiavano il sentiero quando la sua schiena toccò la superficie dura della pietra, il profumo della terra umida che si mischiava a quello di Okabe. Nell’ombra i suoi occhi la osservarono in disperato silenzio, finché con un gemito sommesso, la fronte del giovane non si posò accanto al suo volto, a contatto con la roccia gelida.

Riusciva ad udire distintamente il suo respiro irregolare e il calore irradiato dalla vicinanza del suo corpo.

«Cosa succe-».

«Ti prego», la interruppe Okabe con voce strozzata. «Ti prego, non… Non farlo».

Kurisu si lasciò sfuggire un sospiro tremante, lasciando che il proprio sguardo si perdesse nella semioscurità che li circondava. «Non posso. Non voglio che altri innocenti muoiano per difendermi. Per una volta voglio essere io a decidere la mia sorte».

Un pugno colpì la roccia con un tonfo sordo. «Non capisci… Se dovesse succederti qualcosa… Se per caso tu...».

«Lo so, la sorte di questa guerra dipende dalla mia sopravvivenza. Ne sono cosciente», tagliò corto Kurisu.

Era stanca di sentirselo ripetere.

Comprendeva l’importanza strategica che lei - o meglio, la sua invenzione - ricopriva nella guerra, ed aveva tutta l’intenzione di non venire meno alla sua promessa di porre fine a tutto quello, ma voleva farlo contando sulle sue forze.

«Ma per una volta voglio - Ah!».

Senza alcun preavviso le braccia di Okabe Rintarō si strinsero attorno alla sua vita, trascinandola nel primo abbraccio che avesse mai ricevuto. Il suo corpo emanava un tepore quasi confortante, rispetto alle temperature rigide della notte, ma Kurisu non riusciva ad essere realmente felice per quel gesto.

«Se dovesse succedere qualcosa anche a te… non riuscirei a convivere con il rimorso». La voce sofferente di Okabe risuonò piano nel loro abbraccio.

Kurisu strinse convulsamente i pugni ai propri fianchi, mentre un sorriso amaro si stese sulle labbra screpolate dal freddo. «Ti istruirò su come usare la mia invenzione. Così se stanotte dovessi perire in battaglia potrete vincere anche senza la mia presenza».

«Davvero non capisci?».

L’intensità della disperazione nella voce di Okabe era pari a quella della sua stretta. Una mano nodosa si insinuò delicatamente tra i suoi capelli, accompagnando la sua testa sulla spalla dell’uomo davanti a lei.

«Pensi davvero che dopo aver perso Ruka, dopo tutto quello che è successo, abbia a cuore la tua sorte solo per il suo legame con l’esito di questa guerra?».

Silenzio. Oltre il loro abbraccio si estendeva soltanto l’oscurità.

La mente di Kurisu era un agglomerato di pensieri indefiniti. Si trovava in una terra straniera, tra le braccia di un uomo che fino a due settimane prima era soltanto un volto tra i tanti di coloro avevano voluto usarla. Lei di Okabe Rintarō non sapeva quasi niente e a legarla a lui non c’erano altro che gli eventi pieni di dolore di cui quel conflitto li aveva costretti a diventare protagonisti.

Qualunque esso fosse, il sentimento che li legava era un sentimento macchiato dal sangue.

«Okabe… Lasciami andare, per favore».

Un singhiozzo sommesso.

«Mi dispiace ma… rimaniamo così solo un altro po’».

Il dolore e la paura nelle parole di Okabe spezzarono qualcosa in lei.

«Io… non voglio morire ma...», si interruppe Kurisu allontanando il proprio volto dalla spalla che lo aveva accolto. I suoi occhi cercarono quelli dorati di Okabe, ancora arrossati dal pianto. «Devo correre questo rischio. Per Urushibara. Per Mayuri. Se non lo facessi… sarebbe come scappare dalle mie promesse».

Mayuri e Urushibara l’avevano trattata come se fosse la sua vita avesse un valore che andava ben oltre la sua intelligenza. L’avevano trattata come se fosse stata una normale ragazza di diciassette anni, non come una risorsa da sfruttare. E Okabe… Okabe la stava stringendo come se tenesse di vederla scomparire da un momento all’altro. Per queste persone che avevano mostrato tanta gentilezza nei suoi confronti la sua vita era qualcosa di importante, eppure… che senso avrebbe avuto giurare di porre fine alla guerra per poi rimanere in disparte, mandando a morire degli sconosciuti che non avevano alcun legame con lei?

Okabe sembrò percepire la determinazione che si nascondeva dietro le sue parole, perché sciolse la presa su di lei con un sospiro tremante.

«D’accordo, ti lascerò combattere», concesse chiudendo gli occhi. «Ma a due condizioni. La prima è che devi promettermi che stanotte non morirai».

Kurisu aprì la bocca per controbattere, interrompendosi poi con un sospiro. «È illogico promettere qualcosa di simile quando il fattore di rischio è così alto, ma va bene. Farò tutto ciò che è in mio potere per non morire».

«Secondo», continuò Okabe prendendo improvvisamente il suo volto tra le mani. Kurisu, colta alla sprovvista, sobbalzò. Riusciva a scorgere i suoi occhi fissarla intensamente nella penombra creata dal chiarore della luna. «Devi rimanere costantemente al mio fianco, lì dove io possa tenerti sotto controllo. Non ti devi allontanare da me».

«È inverosimile che tu riesca a prestare attenzione a me in mezzo al caos, dovresti porre condizioni più sensate», sbottò incrociando le braccia al petto. Un calore inspiegabile si diffuse improvvisamente sulle sue guance e Kurisu comprese, con un certo grado di orrore, di essere arrossita. Con che coraggio era in grado di pronunciare frasi da letteratura rosa di infima qualità poco prima di una battaglia in cui avrebbero rischiato la vita?

«Inoltre… Non puoi dire cose simili ad una ragazza come se nulla fosse! Si potrebbe fare un’idea sbagliata», lo rimproveró.

Le mani di Okabe non si scostarono dal suo viso.

«Fatti tutte le idee sbagliate che vuoi, l’importante è che tu mi stia vicino, dove posso tenerti d’occhio», fu la risposta spudorata che Okabe le rivolse prima di girare sui tacchi e dirigersi verso il resto del contingente.

Kurisu lo osservò allontanarsi per qualche istante, persa nei suoi pensieri. Non le era ancora chiaro per quale altra motivazione -oltre alla sua importanza strategica - Okabe tenesse così tanto alla sua vita. Più provava ad elaborare delle ipotesi, più queste le parevano tanto improbabili quanto illogiche.

Quando finalmente giunse in vista dei propri commilitoni intenti a prepararsi per l’imminente scontro, decise che la scelta più opportuna sarebbe stata rimandare la ricerca di una risposta ai propri quesiti al giorno successivo.

Voleva credere che sarebbe andato tutto bene.

 

§

 

Non provava una simile stanchezza dalla notte in cui aveva sepolto il corpo di Ruka Urushibara nel cimitero militare di Kazaly.

Aveva la sensazione di provare dolore ad ogni singolo muscolo del proprio corpo mentre nella sua testa rimbombavano ancora le urla della battaglia e il rumore degli spari.

L’attacco a sorpresa contro il contingente nemico a difesa di Capria volto a mettere fuori gioco i loro cannoni aveva avuto successo, ma tutti e 20 gli uomini del gruppo incaricato di fare da avanscoperta avevano ottenuto questo risultato sacrificando le proprie vite.

Per opera di un miracolo concesso da qualche entità sulla cui esistenza preferiva non interrogarsi, lui e Kurisu se l’erano cavata solo con qualche graffio e delle contusioni, anche se il numero di uomini su cui potevano contare era pressoché dimezzato.

L’alba scese silenziosa dal cielo, illuminando la grande distesa erbosa su cui lo scontro aveva avuto luogo. Il prato luccicante per la brina era puntellato dalle macchie scure del sangue e dei cadaveri mentre l’aria gelida ristagnava dell’odore nauseabondo della guerra. Un nuovo giorno aveva inizio sull’ennesimo desolante paesaggio di morte e disperazione.

Pian piano le rimanenti truppe si stavano radunando, cercando di prestare soccorso ai feriti. Il loro obiettivo era raggiungere Capria e ricongiungersi con le truppe del colonnello Hashida prima del calare del sole.

Un profumo delicato, ben diverso da quello della polvere da sparo e della morte, pizzicò le sue narici.

«Cosa c’è?», lo chiamò Kurisu. Come da promessa, non aveva lasciato il suo fianco per tutta la notte. Se erano usciti pressoché incolumi da quella battaglia era merito del loro essersi guardati le spalle a vicenda.

Quando le aveva chiesto se era pronta all’eventualità di uccidere qualcuno Kurisu aveva semplicemente annuito, rispondendo: “sono diventata un’assassina dal momento in cui ho costruito quell’arma. Devo assumermi le mie responsabilità”.

Per qualche motivo sentì che quelle parole, per quanto dotate di una loro logica, non corrispondevano affatto alla Kurisu che aveva conosciuto e che lo osservava con espressione stanca in quel momento.

«C’è un fiore lì, in mezzo ai cadaveri», rispose infine dopo qualche istante, puntando il dito davanti a sé.

Kurisu osservò in silenzio il prato per alcuni secondi. Poi, improvvisamente, il suo sguardo si illuminò, riacquistando un po’ di vigore. «È un centaurea cyanus», disse chinandosi per osservare meglio il fiore dai petali a metà tra l’azzurro e il violetto. «Se non erro è comunemente noto con il nome di “fiordaliso”».

Seguì l’esempio di Kurisu, chinandosi vicino l’oggetto della loro attenzione. Era piccolo e dai colori brillanti, dal profumo così delicato che probabilmente non si sarebbe accorto della sua presenza se non gli fosse stato così vicino. Si ergeva solitario in mezzo ai cadaveri, aggrappandosi con tenacia alla vita, ma allo stesso tempo dando l’impressione di essere tremendamente fragile.

La sua attenzione si spostò su Kurisu, i cui grandi occhi azzurri ricambiavano silenziosamente il suo sguardo. “A cosa stai pensando?”, sembravano domandare curiosi e Okabe ponderò brevemente se fosse il caso di rispondere.

«Il fiore», cominciò accarezzandone distrattamente i petali. «Ti somiglia. Ha il colore dei tuoi occhi».

La labbra sottili e screpolate di Kurisu si schiusero appena in un’espressione di sorpresa. Le sue guance pallide si tinsero appena di rosa e Okabe si ritrovò a chiedersi come fosse possibile aver pensato anche solo per un istante che quella donna davanti ai suoi occhi non fosse in grado di provare emozioni.

«Somiglia… a me?».

Okabe, malgrado la stanchezza, sorrise appena. «È tutto ciò che c’è di bello in questo campo di battaglia».

«Cosa… Cosa stai dicendo? Io...».

Kurisu andò adorabilmente in confusione e per un attimo Okabe valutò la possibilità di risponderle onestamente. Il suo sguardo, però, cadde sulle mani sporche di sangue della ragazza. Il senso di colpa divorò un altro pezzo del suo cuore. Non avrebbe mai dovuto accettare di coinvolgerla in tutto quello.

Si alzò in piedi, sibilando per il dolore. Forse aveva qualche costa incrinata.

«Andiamo, è ora di mettersi in marcia per Capria».

 

§

 

«Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai; | amore che vieni, amore che vai».
(“Amore che vieni, amore che vai” - Fabrizio De Andrè, 1966)

 

I due giorni successivi erano passati in fretta. Dopo una breve sosta a Capria si erano uniti alle truppe del Colonello Hashida e, una volta confermati i piani, erano partiti alla volta della roccaforte di Intens.

Intens era una città che sorgeva arroccata sul versante di un piccolo monte e che ospitava l’ultima resistenza delle forze armate. In tempi di pace era luogo di pellegrinaggi religiosi e la sua maestosa Cattedrale era un capolavoro architettonico famoso in tutto il continente.

Alcune spie di Hashida avevano confermato che gran parte delle forze dell’Impero Gardarik erano concentrate alle entrate della roccaforte e nei pressi della Cattedrale, dove si era insediato il comandante nemico assieme ai suoi uomini più fidati. Il loro scopo era conquistare il luogo di culto e spingere il nemico alla resa, cercando di ridurre al minimo gli spargimenti di sangue.

«Dunque, Makise-shi, sarebbe così gentile da illustrarci in cosa consiste la famosa “arma” da lei costruita?».

Il colonnello Hashida la osservava dietro le lenti dei propri occhiali, il volto contratto in una smorfia seria assai diversa dall’espressione gioviale che aveva mostrato nel vedere Okabe. I due, aveva scoperto, avevano fatto amicizia ai tempi dell’accademia militare: mentre Okabe si era fatto strada nei ranghi grazie alle proprie discrete abilità strategiche, Hashida aveva raggiunto un grado maggiore grazie ai contributi economici che la sua ricca famiglia di mercanti versava regolarmente all’esercito.

Per qualche motivo si ritrovò a cercare il volto di Okabe nella penombra della tenda. Incrociando il suo sguardo l’uomo le rivolse un cenno di assenso.

Si chinò per raccogliere la borsa che conteneva i suoi pochi effetti personali e ne estrasse degli oggetti che suscitarono immediatamente la perplessità dei presenti.

«Mi perdoni, signorina Makise, ma a me queste sembrano delle normalissime granate», obiettò uno degli uomini di Hashida.

Kurisu non si scompose. «Permettetemi di illustrarvi. All’interno di questi involucri è contenuto, a pressione elevatissima, un gas di mia invenzione. Tale composto, quando inalato, va ad inibire rapidamente l’acetilcolinesterasi, un enzima presente all’interno del corpo umano in grado di degradare un composto chiamato acetilcolina».

Si interruppe per un attimo, osservando i volti dei presenti e notando, con un certo orgoglio, l’attesa presente nei loro sguardi. Okabe, invece, nascosto in un angolo della tenda, la guardava con un’espressione indecifrabile, gli occhi fissi sulla sua figura e le labbra socchiuse.

«L’acetilcolina è un mediatore della trasmissione degli impulsi nervosi dal neurone al muscolo. L’impossibilità di degradare questo composto dovuta all’inibizione dell’acetilcolinesterasi, porta ad una paralisi di tipo spastico della muscolatura volontaria e non. In parole povere, il soggetto colpito diventa incapace di muoversi pur rimanendo cosciente. Ne deriva, nella maggior parte dei casi, un decesso per asfissia».

La tenda cadde nel silenzio.

«Makise-shi», intervenne infine il colonnello Hashida, «è al corrente del fatto che la sua arma è in grado di colpire indiscriminatamente tanto le forze nemiche quanto quelle alleate?».

Kurisu annuì. «In preparazione all’evenienza di un avvelenamento accidentale delle nostre truppe, ho creato un antidoto», spiegò indicando la valigetta in metallo opaco che aveva posato sul tavolo assieme agli ordigni. «Sono circa una ventina di dosi. Va iniettato nella coscia non appena cominciano ad apparire i primi sintomi di avvelenamento».

«Questo implica che solo un numero ristretto di uomini potrà occuparsi delle forze che occupano la Cattedrale».

«Esatto. Inoltre è necessaria la mia presenza per attivare gli ordigni. Non c’è tempo per spiegare agli uomini come utilizzarli, senza contare che, così facendo, i rischi di fallimento aumenterebbero».

Aveva saputo sin dal primo momento che quella sarebbe stata la sua inevitabile sorte. Non le importava di morire se era necessario a mantenere la sua promessa. Mayuri e Okabe avrebbero vissuto una vita felice assieme e Urushibara avrebbe potuto finalmente riposare in pace.

In parole povere, la sua sopravvivenza non era un fattore fondamentale per garantire un futuro felice alle persone a lei care.

«Io e i una parte dei miei uomini ci occuperemo della Cattedrale assieme a Kurisu», intervenne improvvisamente Okabe con un’austerità che non gli si addiceva. «Le restanti truppe potrebbero occuparsi di aprirci un varco tra le fila nemiche per permetterci di entrare in città».

Il colonnello Hashida rivolse un’occhiata preoccupata ad Okabe. «Okarin… Volevo dire, Maggiore Okabe, è sicuro di volerlo fare?».

Una parte di lei sperò con tutto il cuore che Okabe tornasse sui propri passi. Era lei la pedina sacrificabile. La sua scomparsa non avrebbe fatto soffrire nessuno.

«Sì. Ho protetto la signorina Makise per tutto il viaggio da Leiden fin qui. Mi sembra quantomeno doveroso scortarla fino alla fine».

Il colonnello Hashida sospirò, evidentemente poco felice della decisione di Okabe.«E sia. Date ordine alle truppe di prepararsi, ci muoveremo tra un’ora».

Così come si era riempita poco prima, la tenda si svuotò, lasciando lei, Hashida e Okabe da soli.

Il colonnello posò le proprie enormi mani sulle spalle di Okabe, il volto contratto in una smorfia preoccupata. «Okarin, amico, sei davvero sicuro di volerlo fare?».

Okabe socchiuse gli occhi sorridendo appena. «Sì. È una cosa che ho deciso da tempo».

«C’entra per caso… la morte di Ruka-shi?».

«È una delle motivazioni», rispose il Maggiore con un sospiro sconfitto. Aveva l’aria di non volerne parlare. «Ma non l’unica».

Lo sguardo di Okabe, seguito da quello perplesso del Colonnello, si spostò sulla sua figura.

Hashida sorrise.

«...capisco. Se hai deciso di stare con lei fino alla fine immagino che non ci sia nulla che io possa dirti per farti cambiare idea».

Okabe annuì brevemente, aprendosi in un sorriso sincero e Kurisu per un attimo si domandò se la sua presenza fosse di troppo.

«Una perspicacia degna del mio braccio destro preferito».

«A volte mi chiedo come faccia ad esserti amico».

Nonostante l’acidità delle sue parole il volto di Hashida era sorridente.

«Voglio che torniate vivi. Tutti e due. Mi sono spiegato?», domandò il colonnello facendo saettare il proprio sguardo tra le loro figure.

Kurisu gli rivolse uno sguardo interrogativo. Perché il Colonnello Hashida provava interesse per la sua sorte? Finché fosse riuscita ad attivare gli ordigni da lei progettati e piegare le rimanenti forze nemiche la sua sopravvivenza non aveva alcuna rilevanza per l’esercito.

«Sissignore!», rispose scherzosamente Okabe ponendosi sull’attenti.

Hashida, in tutta risposta, scosse il capo con un sorriso, abbandonando la tenda. Davanti alla fioca luce della lampada ad olio erano rimasti soltanto lei ed Okabe. I suoni provenienti dall’esterno, per qualche motivo, parevano giungere ovattati alle sue orecchie.

«Hai deciso di rimanere con me fino alla fine?», domandò più per rompere il silenzio che per sincera curiosità. Non era sicura di come avrebbe dovuto interpretare quelle parole.

Okabe, in tutta risposta, sobbalzò appena. Sulle sue guance scavate riuscì a cogliere un lieve rossore.

Era… imbarazzato?

«Ah… No, io… Cioè...», balbettò incoerentemente evitando i suoi occhi.

Kurisu ridacchiò appena. Non avrebbe mai immaginato di poter trovare la propria strada in quel modo, tra lacrime, sorrisi e parole che mai avrebbe pensato di poter rivolgere a qualcuno.

Aveva visto albe e tramonti su posti che mai avrebbe immaginato di visitare. Nonostante tutto il dolore e l’orrore che la guerra le aveva gettato addosso, aveva iniziato a pensare che il mondo fosse un posto incredibilmente brillante.

Si rese conto solo in quell’istante di essere estremamente grata per quel dono che andava oltre ogni legge scientifica chiamato “vita”.

E Okabe… Okabe era davvero diverso da chiunque avesse conosciuto fino a quel momento della sua esistenza. Con quel suo impacciato modo di preoccuparsi per i suoi cari e per lei aveva dato nuova forza a quel barlume di umanità rimasto nel suo cuore.

Alzò lo sguardo su di lui, ancora impegnato a farfugliare frasi incomprensibili con un’espressione così ridicola da risultare quasi adorabile. Lo aveva sempre osservato da lontano, realizzò, vinta dalla curiosità di conoscere quella persona che la trattava in maniera differente da tutte le altre e che riconosceva in lei una fragilità che nemmeno sapeva di possedere.

Il pensiero di perdere tutto quello rinnovò il terrore sopito nel suo animo e la costrinse a reprimere a fatica le lacrime.

«Okabe?».

Lo sguardo incerto dell’altro incontrò il suo.

Con una falcata chiuse la distanza che li separava, sollevandosi istintivamente in punta di piedi.  Le labbra di Okabe erano secche e ruvide, ma il loro calore suscitò in lei una gioia indefinita: in quel momento entrambi erano vivi.

Dopo un istante che sembrò lungo un'eternità, fece un passo indietro, osservando brevemente la sua espressione palesemente scioccata solo per ritrovarsi ad abbassare lo sguardo. Nonostante il freddo della notte le sue guance scottavano.

«Co… K-Kurisu...»..

La voce di Okabe era un sussurro strozzato. Nel sentire il proprio nome Kurisu sobbalzò, sentendosi insolitamente in subbuglio.

Non avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero finite in quel modo. Le sarebbe piaciuto attribuire la causa di quel gesto così audace ai neurotrasmettitori che la paura metteva in circolo nel suo corpo ma la verità era che, quando si trovava accanto a  lui, la sua parte razionale sembrava vacillare. Le sue azioni erano certamente sconsiderate, considerato il tipo di sentimento che quasi sicuramente lo legava a Mayuri, eppure sentiva che non se lo sarebbe mai perdonata se non lo avesse fatto.

Okabe si schiarì la voce e Kurisu si trovò ad osservare la monotonia del terreno illuminato dalla fioca luce della lampada a petrolio con estremo interesse. Ancora una volta gli occhi le bruciarono come se fosse sul punto di piangere.

La mano di Okabe si posò sulla sua guancia con impacciata delicatezza. Quando alzò lo sguardo fu certa che l’espressione sul volto dell’altro fosse specchio della sua.

«Ho paura».

Le parole erano sfuggite alla sua bocca prima ancora di potersene accorgere. Con un certo orrore si rese conto che le tremava la voce.

Si era ostinata a nasconderlo persino a se stessa. Sarebbe stata un’imperdonabile mancanza di coerenza da parte sua ammettere qualcosa di simile dopo tutte le promesse fatte. Ironicamente comprese in quell’istante come non ci potesse essere amore per la vita senza timore della morte.

Inaspettatamente, lo sguardo di Okabe si riempì di tenerezza.

«Anche io», fu la sua risposta mentre, con dita tremanti, le spostava una ciocca di capelli dal viso.

Chissà come sarebbe stato conoscersi in un altro tempo, in un altro luogo, senza il terrore della morte che pendeva sui loro capi come una spada di Damocle. Le avrebbero rivolto quelle stesse espressioni? Avrebbe avuto ancora sul volto i segni del dolore ad aggiungere una nota di malinconia ai suoi rari sorrisi? Le loro conversazioni avrebbero avuto lo stesso sapore agrodolce di quel momento?

«Non… Non piangere», mormorò piano Okabe avvicinandosi al suo viso. Anche le sue guance erano tinte da un pallido rossore.

Non si accorse delle lacrime che correvano sulle sue guance finché le sue labbra non le baciarono via. La dolcezza dei suoi gesti agitò qualcosa nel suo petto a cui non sapeva dare un nome.

«Ehi...».

La sua voce riverberò nel breve spazio che separava i loro volti.

«Cos’è… questo sentimento?».

Il sorriso che Okabe le diede in risposta fu il più triste che avesse mai visto.

«...Chissà».

§
 

I suoi polmoni bruciavano, implorando di ricevere aria. Attorno a lui vi erano solo una fitta coltre di fumo e il rumore assordante degli spari. L’unica cosa che lo manteneva ancorato alla realtà era il calore della mano di Kurisu, che correva disperatamente accanto a lui.

A pochi metri da loro, tendendosi disperatamente verso il cielo puntellato di stelle, si estendeva un’imponente torre in pietra scura su cui spiccava il quadrante di un orologio.

Alle loro spalle gli uomini della fazione nemica tentavano disperatamente di resistere ai primi devastanti sintomi dell’avvelenamento causato dalla letale arma di cui Kurisu era madre.

«Non lasciateli… scappare!», gridò una voce cercando di sovrastare le urla agonizzanti che si mischiavano agli spari.

Una pallottola colpì la sua gamba sinistra, strappandogli un grido di dolore. L’odore pungente del gas penetrò con forza nelle sue narici, costringendolo a tossire.

«Okabe!».

La voce di Kurisu era disperata.

“Non parlare, o finirai avvelenata anche tu”, avrebbe voluto dirle, ma il suo corpo sembrava già non rispondere più a dovere alla sua volontà. Come se fosse stata in grado di leggere la sua espressione, Kurisu sgranò gli occhi, portando la mano libera a coprire bocca e naso.

«An… diamo», riuscì a dire mentre con tutta la forza di cui era capace impartiva alle sue gambe lo stimolo di correre.

Accanto a lui Kurisu sibilò. Una macchia scura si allargò sul suo braccio. Okabe imprecò tra i denti.

Dovevano andare via da lì, dovevano guadagnare del tempo affinché il gas facesse effetto sulle fila nemiche. Ogni secondo passato su quel campo di battaglia li avvicinava inesorabilmente alla morte.

Kurisu gesticolò freneticamente verso la torre. Il quadrante dell’orologio li osservava dall’alto, segnalando impassibile lo scorrere del tempo. La manica della sua uniforme era già completamente bagnata dal sangue.

I secondi che li separarono dalle mura di pietra furono i più lunghi della sua vita. Stando alle parole di Kurisu era un miracolo anche solo il fatto che riuscisse ad imprimere movimenti volontari ai suoi arti.

Un altro colpo si abbatté sulla sua gamba, questa volta senza alcun dolore.

Adrenalina”, gli avrebbe spiegato Kurisu con quel suo solito tono un po’ saccente e lui l’avrebbe ascoltata con un sorriso terribilmente idiota sul volto, perso nel sentire la sua voce mentre parlava di cose a lui sconosciute.

Buttò giù ciò che rimaneva della porta di legno con il peso del proprio corpo, crollando a terra. Dopo pochi istanti Kurisu fu in ginocchio accanto a lui, i loro respiri affannati che riecheggiavano per la lunga scalinata a chiocciola.

«Non possiamo rimanere qui», la sentì dire con urgenza. Si aggrappò disperatamente al suono della sua voce. «Presto il gas si diffonderà anche quaggiù e renderà inutile prendere l’antidoto».

Okabe si lasciò sfuggire una rauca risata.

«Non… esco… ermi».

La sua bocca era impastata, non riusciva a muoverla come avrebbe voluto.

Il volto di Kurisu era mortalmente pallido ma gli occhi azzurri brillavano come un fiore baciato dalla rugiada.

«Non dire... idiozie». Nonostante il tono arrabbiato la sua espressione era disperata. «Resisti soltanto... un minuto, dobbiamo solo... salire… un po’ più in alto».

Un rumore sordo, un ago che penetrava nella carne. Il volto di Kurisu si contrasse per un istante. Doveva essersi iniettata la propria dose di antidoto. Sì, così si sarebbe potuta mettere in salvo. Avrebbe continuato a vivere e…

«Non pensare nemmeno… per un attimo… di fare l’eroe».

Kurisu, ancora una volta, sembrò leggergli nel pensiero. Un dolore acuto attraversò la sua gamba sana. Il tintinnio del vetro sulla pietra risuonò nel buio.

 

Il fragore dello scontro giungeva attenuato. Chiuse gli occhi per un istante.

 

§

 

Plic.

Plic.

Plic.

Gocce che cadevano.

Un respiro affannato.

Il rumore di passi che si trascinavano sulla pietra.

«Cosa...».

«Ah… sei… sei tornato».

«...Mh?».

«Sei svenuto, prima. Mi hai fatto prendere un colpo».

I suoi occhi misero lentamente a fuoco la scena. Erano ancora nella torre. Da una stretta finestra nella parete di pietra scura filtravano i raggi pallidi della luna. Riusciva a scorgere i tetti degli edifici circostanti, perciò dovevano essere saliti di un bel po’.

Kurisu aveva sistemato il suo braccio sulle proprie spalle, tenendo stretto il resto del suo corpo con il proprio arto sano. Alla luce della luna le sue labbra erano mortalmente pallide.

«Credo… che qui possa bastare», gli disse adagiandolo con fatica contro il muro. Il freddo della pietra penetrò presto nella sua uniforme.

Nonostante non fosse completamente lucido notò subito come si stesse sforzando di sorridergli. Sembrava esausta. Aveva trascinato il peso morto del suo corpo per chissà quanti metri.

«Dovresti andare via», biascicò.

Con una certa sorpresa si accorse di riuscire a parlare più o meno normalmente. L’antidoto doveva aver cominciato a fare effetto.

«Non dire sciocchezze». Il suo tono di voce era così dolce da fargli dolere il cuore. «Sbaglio o avevi detto che saresti rimasto con me fino alla fine?».

Non poteva davvero competere con lei. Non aveva avuto alcuna possibilità di resisterle sin dal loro primo, assurdo incontro. Vivendo una guerra diventava normale imparare a mettere da parte le proprie emozioni, ma lei, senza neanche volerlo, aveva acceso in lui la timida fiamma di qualcosa.

Ogni volta che le parlava il suo straordinario acume e la sua sensibilità fuori dal comune lo lasciavano senza parole. Era rimasto ammaliato dalla fragilità che si nascondeva dietro quella facciata apparentemente fredda e inespressiva e, prima che potesse anche solo cercare di fermarla, Kurisu si era inevitabilmente fatta strada nel suo cuore.

Cercò disperatamente di fermare le lacrime che minacciavano di fuoriuscire.

«Sei ferita...».

Kurisu si guardò un fianco con nonchalance, osservando la macchia scura che adornava la sua uniforme come se non fosse nulla di eccezionale.

«È soltanto un graf...».

«Kurisu!».

Il volto della scienziata si fece, se possibile, ancora più pallido e la sua figura sottile vacillò per un attimo. Quando cercò di protendersi per attutire un’eventuale caduta un dolore lancinante attraversò la sua gamba sinistra. Per alcuni istanti la sua testa si svuotò. Okabe si accorse solo allora che la sua uniforme, lacerata in più punti, era zuppa di sangue.

Si sentì maledettamente impotente.

«Non provare a dirmi… di andarmene». Kurisu gli sorrise come se non fosse successo nulla. «Sai, Okabe. Sono felice di averti incontrato».

«Kurisu… basta...», implorò.

Nulla escludeva che ci fosse qualche sopravvissuto delle forze nemiche in agguato, nulla impediva loro di essere trovati. Se Kurisu avesse usato le sue ultime forze per fuggire verso la città gli uomini di Daru l’avrebbero sicuramente tratta in salvo.

Sarebbe stata libera.

«Sai, in realtà io… vorrei stare per sempre…».

No, non poteva dirgli una cosa simile, altrimenti lui...

«Ora basta!», gridò con quanta forza gli era rimasta in corpo. Le lacrime bruciavano lungo i tagli sul suo volto. Non voleva davvero lasciarla andare. «Vivi e sii libera, è… un ordine».

Il sorriso di Kurisu si affievolì fino a diventare una linea sottile. Le sue labbra tremarono appena. Era la prima volta che la vedeva piangere per lui. Una parte di lui pensò che fosse qualcosa di tremendamente ingiusto.

Sentì i propri occhi socchiudersi, gli angoli delle sue labbra che si tiravano appena verso I’alto.

«Io ti amo».

Il volto di Kurisu perse ciò che rimaneva del proprio colore, aprendosi nel primo vero sorriso che lei gli avesse mai rivolto. Si sentiva in pace con se stesso, in certo senso. Magari in un altro mondo, in un altro tempo, ci sarebbe stato un futuro più felice davanti a loro.

«Che strano...», mormorò Kurisu senza perdere il proprio sorriso. «Ho pensato proprio la stessa… cosa».

Il suo corpo cadde al suolo in un turbinio di capelli ramati.

 

§


«Eh... Quindi mi hai raccontato questa storia solo per dirmi che la guerra è brutta e che ha ucciso i tuoi amici?».

Hashida Suzuha era delusa. Molto delusa. Non le capitava di passare molto tempo con suo padre da quando aveva cominciato a frequentare la scuola per Bambole di Scrittura Automatica, perciò era stata davvero felice di accettare il suo invito ad andare in gita sul lago nel suo giorno di riposo dalle lezioni.

La sua felicità era raddoppiata nel momento in cui le aveva proposto di raccontarle un aneddoto della propria gioventù, promettendole una storia romantica e piena di emozioni che le sarebbe sicuramente piaciuta.

E così era stato.

La storia del Maggiore Okabe e della Dottoressa Makise aveva catturato immediatamente il suo interesse: aveva ascoltato le parole di suo padre con così tanta attenzione da non rendersi conto di come fosse già arrivato il tramonto. Sarebbe stato tutto perfetto se avesse escluso… quel finale.

Hashida Itaru sospirò, scuotendo il capo. «Non ho mai detto che siano morti. Okarin e Makise-shi sono vivi e felicemente assieme».

Lo sguardo di Suzuha si illuminò. «Davvero? Me li presenterai?».

Suo padre si portò una mano al mento ricoperto da una folta barba, perdendosi un attimo nei propri pensieri. «Potrei farci un pensierino su se ti diplomi con un buon voto alla scuola per Bambole».

Avrebbe dovuto immaginarlo.

«Ma papà! La signorina Tennōji non mi sopporta, non fa altro che trovare difetti nelle mie lettere!».

Tennōji Nae, istruttrice della scuola per Bambole di Leiden, era una Bambola di Scrittura Automatica molto famosa e richiesta. Le ragazze che si diplomavano presso la sua scuola andavano incontro ad una brillante carriera lavorativa, amate da tutti i clienti per la loro cortesia e per il loro straordinario talento.

«Suzuha, io credo che in realtà la signorina Tennōji veda in te un grande potenziale», le rispose pazientemente carezzandole i capelli. «Però credo anche che, come me, abbia l'impressione che tu stia sottovalutando l’importanza del tuo futuro mestiere».

Suzuha sentì le proprie labbra contrarsi in una smorfia di disappunto nel sentire la solita ramanzina. «Si tratta di scrivere delle semplici lettere, cosa c’è di così importante da capire?».

Suo padre le rivolse un sorriso. «Rifletti sulla storia che ti ho appena raccontato. Credi che le cose sarebbero andate allo stesso modo se Okarin e Makise-shi non avessero espresso chiaramente i propri sentimenti? Cosa credi abbia dato loro la forza di aggrapparsi alla vita?».

Suzuha aggrottò la fronte, visibilmente irritata. Perché la loro piacevole conversazione si era trasformata in una riflessione sull’importanza dei sentimenti?

«Va bene, va bene, il loro amore li ha salvati. Tutto molto romantico, ma non vedo come abbia a che fare con le Bambole».

«Qual è lo scopo delle lettere che scrivete?».

«Beh», cominciò con una leggera nota di saccenza nella voce. «Fare in modo che i sentimenti del mittente raggiungano in modo chiaro il destinata- Oh».

Il sorriso sul volto di suo padre si fece più luminoso. «Esatto. Suzuha, i sentimenti possono salvare una persona in più di un modo, così come le lettere che scriverai».

Suzuha osservò le proprie mani. Qualcosa scritto di suo pugno poteva cambiare la vita di una persona? Era davvero possibile che qualcosa di semplice come delle parole su carta potesse dare origine ad un cambiamento così grande?

Non vedeva l’ora di scoprirlo.

«Papà… Urushibara-san è ancora sepolto a Kazaly?».

Hashida Itaru riprese a remare di buona lena, indirizzando la barchetta di legno verso il piccolo molo sulla sponda del lago. L’espressione sul suo viso era serena, velata da una leggera malinconia. Il pensiero della morte del suo caro amico lo doveva rendere triste anche dopo tutti quegli anni.

«Naturalmente».

«Mi piacerebbe fargli visita».


























 


 



 


 




 

 


 










 









 

   
 
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