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Autore: Sanae77    16/06/2018    11 recensioni
Tutti pronti per i mondiali del 2018?
No?
I nostri campioni invece lo sono, o lo saranno (si spera).
Prima dovranno andare in ritiro e il capitano, purtroppo, non è molto in forma.
Insieme scopriremo che cosa lo disturba. ;-)
Ho il piacere di annunciare che la storia è stata tradotta da Lyra Nym in spagnolo
https://www.fanfiction.net/s/13826347/1/Rusia-2018-Entre-sue%C3%B1o-y-realidad
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Azumi Hayakawa, Sanae Nakazawa/Patty Gatsby, Taro Misaki/Tom, Tsubasa Ozora/Holly
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Clessidra dei Mondiali'
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Non impiegò molto per trovarlo. Il loro albergo offriva poche possibilità. Isolato da tutto, e lontano da qualsiasi distrazione, era dotato soltanto di un centro sportivo in piena regola e un fantastico campo da calcio.
Attirato dal suono di un pallone, scagliato sicuramente contro la rete, alternato al rumore dell’impatto con il palo, seppe dove trovare la sua vittima.
Perché una cosa era certa: lui non se ne sarebbe andato fintanto che Ozora non avesse confessato.
A passo di carica gli arrivò alle spalle. Il pallone venne lasciato rotolare verso di lui. Lo stoppò sotto il piede nudo.
“Ti stavo aspettando, sapevo che saresti venuto.” Tsubasa, di spalle, sembrava arreso.
“Mettiamo subito in chiaro una cosa: io non vado via finché non ho capito che diavolo hai!”
“Comprensibile, se non risolviamo la cosa la Golden Combi non funzionerà più.” Gli aveva risposto, ma ancora non si era voltato. A pugni stretti lungo le gambe toniche leggermente aperte, restava lì, immobile.
Taro incrociò le braccia al petto e iniziò il suo discorso. Non ne aveva certo pensato uno, non ne aveva avuto il tempo, avrebbe improvvisato, non era un dilemma, lui era bravo a parlare.
“Cazzo, Tsubasa, vuoi dirmi qual è il tuo problema? Non riusciamo neppure più a fare il nostro tiro combinato. Che ti sta succedendo?”
Solo allora, il capitano si era voltato. Lo sguardo, che non gli vedeva da tempo, brillò tra le iridi scure.
Tsubasa si era reso conto di essere già oltre e forse finalmente aveva capito. Adesso che aveva accettato la situazione era arrivato il momento di risolvere il problema, perché ne era certo, una volta confessati i suoi sentimenti, il macigno si sarebbe dissolto e loro avrebbero potuto brillare come prima.
O almeno lo sperava. Certo, Taro sarebbe rimasto scioccato, ma ne avrebbero parlato e avrebbero risolto. Come sempre, come ogni qualvolta che avevano avuto dei problemi. Come da diversi anni a questa parte.
I pugni si chiusero tanto da provocargli dolore.
“Taro, sei tu il problema. Non l'hai ancora capito?”
Il tono pacato, tranquillo, di chi ha raggiunto una consapevolezza, investì Misaki stordendolo ancora di più. “In che senso sono io il problema?”
Il sorriso tirato sulle labbra del capitano non ne impedì la risposta: “Sei tu che occupi i miei sogni. Sei tu il mio incubo. Da quando mi sono reso conto di amarti.”
Taro sgranò gli occhi, accompagnando la bocca in un gesto di stupore. Incapace di parlare, in un primo momento, cercò di ripetersi mentalmente le ultime parole. Forse non aveva capito bene.

Da quando mi sono reso conto di amarti.
Da quando mi sono reso conto di amarti.
Da quando mi sono reso conto di amarti.

E dovette ripetersela per almeno tre volte.
Poi fu come se un fulmine lo colpisse in pieno. Una rabbia improvvisa gli montò dal cuore e gli fece ribollire il sangue dalla punta delle dita fino all’ultimo capello.
Prese cinque o sei respiri prima di alzare il braccio e mettere il palmo aperto fra loro come barriera, una sorta di inutile difesa.
“COSA?! No! No! Fermo! Tu vuoi dirmi che dopo tanti anni ti dichiari?” il pallone venne schiacciato sotto la pianta del piede con ancora più forza, tanto da ovalizzarlo.
Misaki sbottò: “Vaffanculo, Tsubasa!”
“Sapevo che avresti reagito così.”
Con uno scatto fulmineo Misaki lo afferrò per la maglia, strattonandolo.
“No! Tu non hai capito un cazzo! Non dopo tutto questo tempo. Non dopo tre figli e due mogli coinvolte. Non dopo tutti questi anni dove ho gettato la spugna, pezzo d’idiota! Ti è chiaro?” un velo di tristezza gli passò nelle iridi nocciola. Ozora lo fissò smarrito, le mani arpionate ai polsi per contenere le scosse che piano piano erano andate affievolendosi, il cervello riuscì però a formulare una domanda di senso compiuto.
“Perché se non ci fossero loro accetteresti tutto questo?”
“Certo che l'accetterei.” Taro gli lasciò la maglia e strattonò le mani per farsi liberare i polsi, dopo indietreggiò, fissandolo. Un braccio disteso e l’indice inquisitore a puntare la sua figura.
“Qui- Quindi anche tu?” frastornato, Tsubasa tentò di prendere coscienza dell’ultima dichiarazione fatta dal numero undici.
“Idiota, sono anni che provo qualcosa per te in segreto.” Un altro passo indietro e il dito ancora contro.
“Perché non me lo hai detto?” domandò ingenuamente il capitano, senza rendersi conto di quanto quella domanda potesse far male. Infatti Taro tornò sui suoi passi e nuovamente lo afferrò per il colletto della maglia, scuotendolo. Dopo fissandolo negli occhi gli vomitò addosso tutta la sua frustrazione.
“Che cavolo ti dicevo, Tsubasa, eh? Spiegami, che dovevo dirti dopo che mi hai chiesto di farti da testimone? Vaffanculo!” e, dopo averlo spintonato via ancora una volta, si volse e corse fino a scomparire.
Il capitano cadde, ginocchia a terra, sull’erba umida; il pallone, lì, solitario, abbandonato da Taro. I palmi, anch’essi a terra, chiusero le dita fino a formare un pugno che strappò l’erba. La bocca spalancata tentò di far fluire più ossigeno dentro ai polmoni. Era un pessimo momento per farsi venire un altro attacco di panico.

Ma davvero era panico, poi?

Se lo chiese a più riprese mentre si sforzava di regolarizzare il respiro. Il cuore però parlava di altro, il battito vivo, veloce e profondo, gli esplodeva in tutto il corpo. Forse aveva confuso il panico con la consapevolezza di un sentimento ricambiato.




Era andato di corsa in camera. Non era ammissibile che dopo tanti anni, Tsubasa se ne uscisse così con una notizia del genere.
Appoggiato alla porta, Taro continuava ad ansimare vistosamente. Un po’ per la corsa, un po’ per l’agitazione e per…

L’emozione?

Improvvisamente fu come se il cuore assumesse una nuova forma e riuscisse ad ampliarsi aprendo quello scrigno segreto rimasto chiuso per tanto tempo.
Tutto quello che aveva provato anni prima, era lì, di nuovo, con tutta la sua prepotenza e batteva per uscire. Stavolta non sarebbe più riuscito a richiudere a chiave quel cofanetto che aveva racchiuso un sentimento così grande. Portò la mano al petto, stringendo la maglia. Fu quasi una sensazione di dolore la presa di coscienza dell’evento appena accaduto.
Iniziò a girare come un animale dentro la gabbia, un animale ferito e furioso. Doveva riacquistare un minimo di lucidità, perché Tsubasa sarebbe tornato in camera, perché Tsubasa era comunque il suo amico, perché Tsubasa era comunque la sua metà in campo e, questo, non lo si poteva ignorare.
Decise di infilarsi sotto la doccia, rigorosamente fredda. Velocemente si spogliò nel bagno e, senza aspettare, si fiondò nella cabina. Non attese neppure che l’acqua diventasse un minimo calda. Aveva bisogno di uno shock, non solo termico.
Era intento a frizionare i capelli quando sentì il leggero suono della porta che si chiudeva delicatamente. A piedi nudi e con un asciugamano in vita uscì dal bagno e fissò il capitano. Quando lo rivide, lo stomaco dette cenni di cedimento. La sensazione di vuoto e le successive farfalle lo fecero imprecare mentalmente.

Quanto aveva atteso quel momento?
 
Tsubasa era come pietrificato; imbarazzato e appoggiato alla porta, non riusciva a proferire parola. Non sapeva che cosa aspettarsi. Non sapeva più cosa dire, ma la situazione andava affrontata ed era per quello che, dopo essersi calmato con una decina di giri di campo, aveva deciso di tornare in camera.
“Fatti una doccia, fredda! A me non è servita a un nulla, ma magari tu sei più fortunato e funziona.” Taro sollevò lo sguardo e accennò una sorta di sorriso sull’ultima frase che gli era uscita.
“Ok, provo.” Disse Tsubasa, muovendo un primo passo in direzione del bagno.
“Eh, no! Dove credi di andare, eh? – Taro lasciò cadere a terra l’asciugamano con cui si stava frizionando i capelli e velocemente lo raggiunse, imprigionandolo contro la porta – Ho sempre avuto un desiderio, e so già che poi me ne pentirò, ma dopo tanto tempo concedimelo: un bacio me lo devi, Ozora! Ho fantasticato su questo per anni prima di arrendermi definitivamente.”
Tsubasa fece solo in tempo a sollevare le mani in segno di difesa, ma queste si scontrarono con i pettorali scolpiti e lì restarono. I polpastrelli si deliziarono della pelle liscia e fresca sotto le dita. Sentirono l’epidermide incresparsi e rialzarsi. Nuovamente, Taro lo afferrò per la maglia. L’impeto del gesto gli fece rimbalzare la testa contro la porta. Poco importò al capitano mentre le labbra del compagno lo baciavano a più riprese, mordicchiando il labbro inferiore e ripetendo frasi sconclusionate, ma tutte dal medesimo significato.
“Me lo devi, Ozora, per tutti questi anni.”
Un sospiro s’infranse sulle morbide labbra che ancora furono lambite e baciate. Taro tracciò con la lingua il margine inferiore prima di afferrarlo tra i denti, tirarlo delicatamente, per poi tornare a premere e cercare l’accesso alla bocca. Non trovò ostacoli nell’arrivare all’interno ed accarezzare la lingua del compagno con la propria.
Del sapore di Tsubasa avrebbe potuto ubriacarsi.
Mentre, per il capitano, Taro era seta sotto le dita quando queste scivolarono giù lungo l’addome, per soffermarsi sui fianchi, afferrarli, e attirarlo a sé.
Misaki si staccò, ansimando e lasciando un capitano smarrito.
“Va’ a farti la doccia fredda, dobbiamo parlare.”
Tsubasa annuì convinto. Non era pronto per tutto questo e sicuramente neppure Taro. Superò il compagno, ma poco prima di entrare in bagno si voltò, soffermandosi sullo stipite della porta.
“Questo vuol dire che siamo gay secondo te?”
Taro sorrise divertito, ogni tanto il capitano riusciva ancora a stupirlo con le sue domande ingenue.
“Non lo so se sono gay ma io sono sempre stato innamorato di te. Degli altri non mi è mai interessato nulla.”
“E Azumi?” domandò perplesso.
“Le voglio bene, la adoro, è la madre di mia figlia, ma… l’amore è un’altra cosa.” Affermò deciso.
Tsubasa annuì convinto e finalmente entrò in bagno. La doccia sarebbe servita lunga e fredda. Fredda, soprattutto.
 
Da circa dieci minuti Taro era seduto sul letto con il cellulare che vagava tra chat e Facebook. Tsubasa era andato a fare la doccia e ancora non si azzardava a uscire da lì.
Guardò verso il bagno perplesso, temendo di doverlo tirar fuori con la forza; si stupì quando aprì la porta e, avvolto in un accappatoio, si sdraiò sul letto al suo fianco.
Il fantasista nipponico sistemò il cuscino dietro la nuca prima di sprofondarci dentro. Taro invece si tirò su, e lasciò il cellulare incustodito sul comodino, per affrontare meglio la situazione. Attese mezzo minuto prima di sospirare e dare il via alla conversazione. Si rese conto che Tsubasa non ce l’avrebbe mai fatta da solo.
“Quindi, raccontami com’è iniziato tutto…”
Il capitano parve sprofondare ancora di più, inglobato dal cuscino, un braccio sollevato a tappare gli occhi. Il suo essere pudico non l’aveva abbandonato neppure a trent’anni, figuriamoci adesso che doveva affrontare un discorso complesso e articolato.
“Tutto è iniziato con un sogno.”
Taro incrociò le gambe sul materasso e, appoggiando il mento sul palmo della mano, si mise in ascolto.
“Esattamente quello in cui mi comunicano che non puoi partecipare alla finale del World Youth perché hai avuto un incidente. Inizio, non solo a ripercorrere gli eventi, ma a vederli sotto altri punti di vista che non avevo mai analizzato prima.”
Anche Ozora abbandonò la posizione supina per mettersi seduto sul letto e osservare il suo interlocutore. Lo voleva guardare negli occhi, lo voleva studiare, analizzare, perché da questa conversazione ne sarebbe dipeso il loro futuro; non solo calcistico.
“Inizio così a percepire la profonda angoscia che mi aveva turbato in quei giorni. Il mio allenamento ai limiti dell’umanità a cui mi ero sottoposto la sera prima della finale. La mia ferita e la mia disperazione nel pensare a te. E sogno dopo sogno sono affiorati ricordi, emozioni e piccoli tasselli di un puzzle che finalmente ha trovato una sua collocazione.”
Taro annuì convinto, si erano sempre capiti, dentro e fuori dal campo. Tra loro bastava uno sguardo, un gesto, un piccolo accenno e la connessione celebrale e fisica si accendeva e infiammava.
“E Sanae?” chiese il numero undici, sollevando le ginocchia, racchiudendole tra le braccia, e portandole al petto.
Il capitano allargò le braccia, arreso.
“Non ho mai pensato troppo ai sentimenti, e ho sbagliato. Sanae ha sempre fatto parte della mia vita fin da piccoli, chiederle di sposarla per me è stata una cosa naturale e scontata; come una storia che è già stata scritta di cui conosci già il finale. Ecco, questa è stata Sanae e lo è ancora. Le voglio bene, ma solo adesso mi rendo conto che amare è un'altra cosa.”
“Ti rendi conto che dopo tanto tempo e con due famiglie alle spalle…”
La frase non venne terminata. Era troppo doloroso prendere coscienza di quella realtà tanto scontata quanto triste. Ozora portò le mani avanti come a volerlo fermare. Lo sapeva, ovvio che lo sapeva.
“Se non fosse accaduto del sogno non te lo avrei mai detto, o forse sì – si passò le mani tra i capelli in un gesto nervoso, neppure lui sapeva più che cosa voleva arrivati a quel punto – non so cosa poteva essere tra noi o cosa potrà essere.”
Taro lo interruppe subito, scuotendo la testa e rivolgendogli un’occhiata vuota e triste.
“Non potrà essere nulla, Tsubasa. Troppi problemi. Abbiamo mogli, abbiamo figli, siamo calciatori famosi e tutto questo non gioverebbe: né alla nostra reputazione, né a quella della nazionale.”
“Lo so, ma dovevo dirtelo, altrimenti la Golden Combi non avrebbe mai più funzionato.”
“Quindi da domani come ai vecchi tempi, giusto?” domandò Taro, porgendogli la mano per sigillare il patto.
“Come ai vecchi tempi!” affermò Tsubasa, afferrando le dita del compagno in una stretta sicura.
Sorridendosi, avevano spento la luce e si erano addormentati. E per la prima notte, dopo mesi, il numero dieci della nazionale dormì sonni tranquilli e ristoratori.
   
 
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