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Autore: Adeia Di Elferas    17/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovan Francesco Sanseverino si guardò attorno un po' spaesato, mentre lui e gli altri raggiungevano il palazzo Riario. La struttura si ergeva sulla piazza principale della città, ma non aveva nulla a che vedere con gli edifici del potere a cui era abituato.

Per metà reso al suolo e per l'altra metà dall'aspetto negletto e quasi abbandonato, sembrava più un relitto che non un luogo di potere.

“Ma siete sicuri che ci riceverà?” chiese al fratello Gaspare e a Giovanni da Casale.

La notizia della morte del Medici nottetempo si era diffusa anche presso di loro e pure il Sanseverino Conte di Caiazzo, benché fosse arrivato da poche ore, l'aveva saputo.

Anche se ufficialmente la Contessa non era legata al fiorentino, tutti sapevano o quanto meno avevano capito quanto in realtà gli fosse vicina e il fatto che il suo figlio più piccolo fosse proprio del fiorentino era di dominio pubblico.

“È stata lei a farci chiamare.” disse Giovanni da Casale, con una certa serietà: “Se l'ha fatto, vuol dire che si presenterà.”

“Lo credo anche io.” concordò Fracassa, mentre arrivavano al portone d'ingresso del palazzo: “Si può dire molto, di quella donna, ma non che non sia di parola.”

Giovan Francesco sollevò il sopracciglio e, storcendo un po' di lato la mandibola squadrata sollevò una spalla e concesse: “Se voi vi fidate... Vi ricordo che l'ultima volta che ha perso l'uomo che amava questa città è diventata un cimitero.”

L'altro Sanseverino non disse nulla, ma Pirovano si trovò in dovere di specificare: “Credo che la situazione sia molto diversa, questa volta.”

Tacendosi poi tutti e tre, attraversarono l'ingresso, dopo aver avuto il permesso da parte delle guardie, e vennero portati fino alla sala consiliare.

“La Contessa arriverà il prima possibile.” disse Luffo Numai, l'unico, a parte il cancelliere Cardella, presente.

I tre soldati si scambiarono un'occhiata, ma nulla di più, e si misero seduti, in paziente attesa di quella che il Moro aveva arbitrariamente voluto come loro comandante.

 

“No, non voglio l'abito a lutto.” disse Caterina, guardando di sottecchi il vestito che sua figlia Bianca le aveva proposto.

Quella mattina il risveglio per la Tigre era stato tutt'altro che facile. Aveva affrontato una penosa colazione durante la quale aveva incontrato quasi tutti i suoi Capitani e anche i suoi figli, e tutti, chi più chi meno, le aveva ricordato quanto appena accaduto, seppur nella buona intenzione di offrirle sostegno e mostrare sentite condoglianze.

“Come preferite...” sussurrò la Riario, che invece aveva indossato un abito scuro e aveva raccolto i capelli biondi in una reticella nera.

“Non lo faccio per mancanza di rispetto... Solo...” riprese la madre, che, seduta sul letto, aveva un atteggiamento simile a un bambino schivo che rifiutava le cure della propria balia.

“Non mi dovete spiegare nulla.” le fece notare Bianca.

“È solo che...” si sentì invece in dovere di dire la donna: “Devo mostrarmi forte. C'è una guerra. E farmi vedere prostrata dal lutto non...”

“Era solo un abito scuro...” tagliò corto Bianca, rimettendo via il vestito e prendendo quello rosso e scollato, quasi per provocare la madre.

Questa, invece, trovò la scelta adatta e chiese alla figlia di aiutarla a vestirsi e a metterle i gioielli.

La ragazza fece quello che le veniva detto, rendendosi conto di quanto la Leonessa fosse in realtà stanca e distrutta, nonostante volesse mostrarsi tenace e irriducibile come sempre.

Quando l'ebbe sistemata, si fermò un momento a guardarla e si disse che sua madre, a quasi trentasei anni, era più bella della maggior parte delle ventenni d'Italia.

La floridezza del suo corpo era quasi uno schiaffo alla morte orribile che aveva fatto suo marito, dilaniato da una malattia che lo aveva reso prima storpio e poi incapace di essere autosufficiente anche nelle più piccole cose della vita quotidiana.

A suo confronto, la Sforza sembrava godere di una salute di ferro, anche se la figlia ricordava molto bene degli accessi febbrili che l'avevano tormentata fino a pochi giorni addietro. Il modo in cui pareva essersi ristabilita all'improvviso, per la figlia era un altro motivo di contrarietà,

Non che non fosse felice di vederla fisicamente di nuovo in forma, ma temeva che quel rinnovato vigore la portasse a fare scelte poco assennate, le cui conseguenze si sarebbero ripercosse su tutti quanti.

Alla fine la donna scelse qualche anello da mettere alle dita, in accompagnamento al piccolo nodo nuziale che Giovanni aveva scelto per lei quando si erano sposati e Bianca le consigliò di raccogliere i lunghi capelli – ormai quasi del tutto bianchi – in una rete, o, se proprio non la voleva, almeno alla spagnola.

“I capelli vanno bene come sono.” concluse Caterina, dandosi uno sguardo veloce allo specchio, la folta chioma libera a ricadere sulle spalle e sulla schiena lasciata in parte scoperta dall'abito, e poi salutò la figlia in modo quasi sbrigativo: “Mi stanno aspettando. Ci vediamo per pranzo.”

 

I due Sanseverino e Pirovano stavano resistendo all'impulso di mostrare segni di impazienza, anche se era solo l'ultimo a riuscire a mantenersi del tutto disteso e impassibile.

Quando finalmente la Contessa si profilò sull'ingresso, scortata dal Capitano Mongardini e dal Capitano Rossetti, i tre ospiti scattarono in piedi e la salutarono con un profondo inchino.

“Ci duole infinitamente per la vostra perdita.” disse per primo Gaspare Sanseverino: “Sappiamo che messer Medici era un uomo di valore.”

Caterina ringraziò con un cenno del capo e poi attese che anche gli altri due si profondessero nelle loro dichiarazioni di cordoglio e sostegno.

Anche nelle poche centinaia di metri che aveva percorso a piedi dalla rocca al palazzo, molti forlivesi l'avevano fermata per farle le condoglianze e qualcuno di particolarmente intraprendente l'aveva anche abbracciata – suscitando l'irrequietezza dei due Capitani che la seguivano a mo' di guardie del corpo – e le avevano espresso tutto il loro dolore per quella perdita.

La Sforza non era riuscita a evitare un facile paragone con quanto era successo invece alla morte di Giacomo. Allora nessuno aveva porto le condoglianze in quel modo, e anche quelli che si erano mostrati addolorati al funerale l'avevano fatto solo per paura di lei e della sua vendetta.

Era chiara la differenza tra la statura di Giovanni e di Giacomo. Il modo in cui il popolo aveva reagito alla loro morte lo gridava a chiare parole.

E questo faceva soffrire la Tigre doppiamente. Da un lato perché il suo amore per Giacomo la portava ottusamente a ritenere ingiusta l'avversità del popolo nei suoi confronti e dall'altro perché a pensarla in quel modo si sentiva in colpa nei confronti di Giovanni, perché quel pensiero lo sminuiva.

“Noi... Noi siamo...” Giovan Francesco aveva appena alzato lo sguardo verso di lei e i suoi occhi si erano fermati per qualche istante di troppo sul suo abito succinto e sulle collane che le cingevano il collo, ricadendo sul petto lasciato in parte scoperto dalla scollatura: “Siamo addolorati per la vostra perdita.” concluse, riabbassando lo sguardo e mordendosi il labbro.

Sarebbe toccato a Giovanni Pirovano dire qualcosa, ma il giovane teneva lo sguardo fisso su di lei e sembrava incapace di trovare la voce per dar fiato al suo pensiero.

Sanseverino gli diede un piccolo colpetto con il gomito, come a richiamarlo all'ordine e solo allora l'uomo si ricompose appena e sussurrò: “Ci spiace molto.”

Alla Sforza non era certo sfuggito il modo in cui prima il Conte di Caiazzo e poi Giovanni da Casale – in modo molto più plateale – l'avevano fissata. Non seppe se trovare la cosa ridicola, offensiva o semplicemente inevitabile. In un certo senso, aveva voluto mostrarsi al meglio anche per quel motivo. L'ascendente che sapeva avere sugli uomini era parte della chiave del suo potere e dunque era meglio sfruttarlo anche con quei tre soldati mandatile da suo zio Ludovico.

Per concludere in fretta quel necessario, ma fastidioso scambio di tristi convenevoli, la Sforza richiamò subito all'attenzione dei tre la situazione difficile di quel momento.

Il discorso proseguì per parecchio tempo, tanto che il sole raggiunse il mezzogiorno. I due Sanseverino sembravano essersi dimenticati in fretta dell'abito provocante della Tigre, e avevano passato tutta la mattina a dare suggerimenti e porre domande che avevano permesso alla Contessa di ragionare meglio sulla campagna. Immersa in calcoli probabilistici e in valutazioni belliche, si stava dimenticando di tutto quello che stava stracciando la sua anima, e non poteva chiedere di meglio.

L'unico che era rimasto abbastanza taciturno era Giovanni da Casale, che si limitava a dire la sua solo saltuariamente e unicamente se interpellato.

“Però – fece a un certo punto Fracassa, mentre Caterina gli spiegava come intendeva stanziare le varie truppe a sua disposizione – se ci dite che adesso Firenze potrebbe essere meno propensa ad aiutarvi, credo che sarebbe necessario un reclutamento coatto della popolazione, se non altro per la difesa diretta della città.”

“Non voglio arrivare a tanto. Sto già predisponendo un salvacondotto per tutti i condannati e gli esiliati che in cambio del perdono accetteranno di combattere per me, e quindi mi basteranno loro per ingrossare le fila.” si oppose la Leonessa, con una certa fermezza, la mano che picchiettava nervosamente sul bracciolo del suo scranno, mettendo in mostra il nodo nuziale che portava all'anulare: “Finora il mio esercito è sempre stato numeroso, senza bisogno di coercizioni e dunque non voglio risultare invisa alla popolazione, strappando dalla propria casa chi non ha intenzione di combattere.”

“Arriverà il momento in cui dovrete farlo.” disse con gravità Giovan Francesco, fissandola per un momento negli occhi.

“E poi – provò a dire Caterina, cercando conferma nello sguardo anche del Capitano Mongardini, che aveva seguito le fasi di arruolamento nel dettaglio – i miei fanti sono molto abili e uno di loro vale almeno quattro contadini messi a combattere dall'oggi al domani. E inoltre sto aspettando i balestrieri a cavallo del Marchese di Mantova.”

Quell'affermazione suscitò una certa sorpresa nei tre comandanti, ma alla fine anche Fracassa dovette ammettere: “Se montano cavalli del Gonzaga, non possono che essere i migliori in circolazione.”

“Appunto.” concluse la Sforza e da lì passò a riassumere quello che era stato deciso quel giorno.

Dopo aver decretato che della difesa cittadina si sarebbe occupato in persona Giovan Francesco Sanseverino e che delle campagne circostanti, invece, avrebbe avuto il controllo Giovanni da Casale, mentre al Fracassa sarebbe toccato andare verso Marradi, assieme ad Achille Tiberti, per tamponare i tentativi dei veneziani di impadronirsi delle rocchette che stavano vicino ai monti.

La donna dichiarò concluso il Consiglio di guerra e così, assieme ai suoi due Capitani e ai tre comandanti, si avviò verso l'uscita.

“Chiaramente – disse che con Giovan Francesco da Sanseverino – visto che dovrete organizzare le ronde attorno ai confini di Forlì, vi offro ospitalità presso la mia rocca. Vi troverò una stanza.”

Poi, non riuscendo a frenare l'impulso che l'aveva spinta a fare quella proposta al Conte di Caiazzo solo per poterla fare anche a Pirovano, si rivolse a quest'ultimo e gli disse, più in fretta: “E anche voi... Se vorrete un alloggio a Ravaldino, ve lo procurerò volentieri, in modo che abbiate una stanza comoda dove riposare tra un giro di pattuglia e l'altro.”

Giovanni da Casale strinse i denti e annuì seccamente, senza riuscire a dire nulla, ma alla Sforza bastava anche così.

Non sapeva nemmeno lei perché l'aveva fatto. Stare in mezzo a quegli uomini per tutta la mattina le aveva messo addosso una strana irrequietezza che non provava da tempo. Era quasi una reazione allo smarrimento che provava non appena ricordava il corpo senza vita di Giovanni.

Sentirsi così la faceva stare male, ma non poteva evitarlo.

Stavano per uscire dal palazzo, quando l'Oliva li raggiunse, quasi di corsa e si avvicinò alla Tigre, sussurrandole all'orecchio: “Abbiamo voce che Venezia voglia far passare da Faenza più di duemila uomini, per mandarli a catturare i paesi che ci circondano, tagliandoci la strada per Firenze.”

La Contessa fece un sospiro pesante e poi si rivolse con voce ferma al Fracassa e gli ordinò, senza perdere tempo: “Andate a Faenza e convincete Astorre Manfredi e il suo tutore a non lasciare passare i veneziani.”

Gaspare sollevò le sopracciglia, dando al suo volto dagli zigomi sporgenti una sfumatura ancora più grottesca del solito: “Non sarà facile. Da quel che mi avete detto, hanno già lasciato passare degli stradiotti non molto tempo fa... Io non so se...”

“Siete ai miei ordini, no? E allora fate quel che vi dico.” tagliò corto la donna, cominciando a irritarsi.

In realtà lei per prima confidava molto poco nella riuscita di quella trattativa, ma, se non altro, sperava di ritardare il passaggio dei veneziani, guadagnando così abbastanza tempo per riorganizzare in modo decente la sua difesa.

A quel punto Fracassa annuì e non ebbe più nulla da dire. La Leonessa guardò i tre uomini e poi, quando si scoprì a indugiare per qualche secondo di troppo sulle spalle larghe e dritte di Giovanni da Casale, si congedò in fretta, alludendo a certi impegni di cui si era scordata.

 

Lorenzo Medici era appena tornato dal palazzo della Signoria quando un servo gli riferì che alla porta del palazzo c'era una staffetta che voleva vederlo.

Soprappensiero, ancora immerso nelle discussioni di quella mattina, che avevano visto perfino Niccolò Machiavelli coinvolto nei litigi sterili attorno alla questione della guerra e dell'insoddisfazione di Paolo Vitelli che pareva quasi minacciare di piantarli in asso da un momento all'altro, malgrado la sua avanzata trionfale verso Pisa, il Popolano arrivò fino al cortiletto senza chiedersi che mai potesse volere una staffetta veloce da lui.

Quando arrivò al portone e si trovò davanti un uomo ancora a cavallo e dagli abiti tutti impolverati, gli chiese da dove venisse e quello rispose: “Da San Pietro in Bagno. Ho corso come un pazzo, perché mi è stato ordinato di portarvi questo il prima possibile. E dunque sono volato qui da voi veloce come il fulmine.”

La staffetta gli porse una lettera e Lorenzo la prese con mano tremante. Non si accorse neppure che l'altro se ne stava in attesa di una mancia per la rapidità di cui si era anche permesso di vantarsi poco prima.

Lasciando la staffetta bocca asciutta e di pessimo umore per il mancato riconoscimento del proprio impegno, il Medici rientrò nel palazzo e, sentendo quella sottile missiva pesante come un macigno nella propria mano, andò fino alle sue stanze, senza trovare il coraggio di aprirla se non in capo a un'ora abbondante.

In fondo immaginava cosa vi fosse scritto. Voleva convincersi che fosse solo l'annuncio dei suoi uomini che lo avvisavano di un futuro arrivo del fratello, rimessosi abbastanza da poter viaggiare fino a Firenze, ma era un uomo troppo sveglio per crederci davvero.

Eppure, quando alla fine si decise a spezzare il sigillo dei Gambacorti he chiudeva il messaggio, non poté evitare, arrivato alla seconda riga, di gridare: “No! No!”

Semiramide, che era a qualche camera di distanza, sentendo ululare il marito a quel modo, corse all'istante da lui e lo trovò con una lettera stretta nel pugno e i denti digrignati come un cane rabbioso.

“Cos'è successo?” chiese la donna, con il cuore in gola, spaventata nel vedere il marito in quello stato.

“Quella strega! Quella cagna!” sbraitò Lorenzo, gettando in terra la lettera: “Alla fine ce l'ha fatta ad ammazzarlo! Quella...”

Semiramide, che aveva capito anche troppo bene cosa fosse successo, ebbe uno slancio verso l'uomo che, però, non appena sentì le braccia della moglie che provavano a cingerlo in un abbraccio, la scansò con uno spintone.

Cercando di non prendersela con Lorenzo, che aveva avuto per lei l'ennesimo scatto di insofferenza, travolta dal dolore, che la stava colpendo in modo strano – come se la morte del cognato fosse qualcosa di astratto – Semiramide raccolse la lettera e uscì dalla stanza.

Mentre cercava di spiegare il foglio, con le mani che tremavano, l'Appiani vide un servo che, allertato dalle urla del padrone, stava correndo a vedere che fosse successo e gli disse: “Portategli del vino... E cercate di calmarlo, perchè io non posso farcela.”

Mentre il domestico annuiva ed eseguiva, Semiramide cercò un punto tranquillo del palazzo e lesse la missiva arrivata da San Pietro in Bagno. Si annunciava che Giovanni era morto la notte del 14 settembre, un'ora prima del nuovo giorno, e si spiegava come si stesse preparando il trasporto del suo corpo fino a Firenze, affinché si potesse procedere con le esequie e la sepoltura. C'era infine un piccolo inciso di Gherardo Gambacorti che raccontava di come il Medici avesse passato le sue ultime ore da solo con la moglie e Semiramide capì che quello era stato il dettaglio che più di tutti aveva fatto saltare i nervi a suo marito.

 

Il pomeriggio per la Sforza non era stato facile. Anche se aveva cercato di distrarsi come poteva, le domande circa i funerali del marito si erano rincorse senza tregua.

Giovanni era stato più amato di quanto avesse creduto lei e anche i soldati del Quartiere Militare le avevano chiesto più volte quando e dove sarebbe stato sepolto. La donna aveva risposto a tutti i modo secco, dicendo che si era deciso di farlo seppellire a Firenze, assieme ai suoi parenti, ma a nessuno sfuggì la smorfia che le usciva ogni volta che lo diceva.

Dopo la sua visita ai soldati, la Sforza aveva dato le ultime direttive al Fracassa e lo aveva accompagnato fino al limitare della città, augurandogli di arrivare sano e salvo a Faenza.

Tornata alla rocca, aveva mostrato agli altri due mandatile da suo zio Ludovico l'alloggio che i suoi domestici avevano sistemato subito per Giovan Francesco Sanseverino – una stanza di tutto rispetto, in una zona abbastanza viva della rocca, affinché fosse facile da chiamare in caso di bisogno – e per Giovanni da Casale, che invece aveva ricevuto una camera più discreta, ma sensibilmente più vicina agli appartamenti della Tigre.

Arrivata la sera, la Contessa aveva ancora un affare a cui pensare. Senza indugio andò alla chiesa di San Girolamo e cercò uno dei preti.

“Siete qui per organizzare il funerale di messer Medici?” chiese il religioso, parlando a voce bassa nella luce soffusa delle candele accese accanto all'altare maggiore.

Caterina si strinse un po' nelle spalle. Si era completamente dimenticata di portarsi appresso un velo o uno scialle, per entrare in chiesa, ma il prete non le aveva fatto notare la sua mancanza, forse anche perché a parte loro non c'era nessuno là dentro.

“No... No...” fece lei, sospirando: “Purtroppo lo porteranno a Firenze. Suo fratello ha voluto così.”

“Capisco.” rispose l'uomo, stringendo le mani ossute in grembo e abbassando un momento lo sguardo.

Mentre lasciava che il silenzio ovattato della navata centrale l'avvolgesse in un bozzolo di apatica pace, la Sforza ripensò alla reazione che avevano avuto i suoi figli, quando aveva saputo che non ci sarebbe stato alcun funerale, lì a Forlì.

“Così avremo nostro padre tumulato a Imola e messer Medici a Firenze. Qui a Forlì ci resterà solo il Barone Feo.” aveva borbottato Cesare, cercando di non dare un'inflessione troppo negativa alle ultime due parole: “Se non altro Ottaviano non dovrà lasciare i suoi soldati per presenziare alle esequie.”

“Non è importante avere una tomba vicina.” aveva controbattuto Galeazzo: “Non è indispensabile, per ricordarcelo.”

Bernardino e Sforzino, invece, non avevano detto nulla. Solo che se il secondo aveva taciuto probabilmente perché non sapeva cosa dire, il primo era stato zitto solo per non dire cose sbagliate.

Giovanni era stato quanto di più vicino a un padre avesse avuto dalla morte di Giacomo e sapere di non poter nemmeno vedere la sua tomba lo aveva riacceso d'ira, portandolo ad allontanarsi da tavolo prima che la madre potesse aggiungere qualcosa per lenire la sua rabbiosa delusione.

“E dunque perché siete qui?” chiese infine il prete, accigliandosi.

Caterina sospirò, riscuotendosi dal ricordo di quella mattina e disse: “Devo far ribattezzare il mio figlio più piccolo.”

“Capisco.” ripeté l'uomo con un sorriso un po' triste: “Se vorrete, me ne occuperò personalmente.”

Così la Tigre e il religioso si misero d'accordo su quando e come celebrare la funzione e poi il prete lasciò la donna libera di pregare un po', se voleva.

Sentendo i passi dell'altro allontanarsi e sparire dietro l'altare, Caterina avvertì un senso di solitudine profondissimo.

Era di nuovo da sola. I suoi demoni e i suoi fantasmi doveva affrontarli da sola. Da sola, senza nessuno al suo fianco.

Non voleva tornare alla rocca. Aveva paura di quello che avrebbe potuto fare. Era stata fedele a suo marito, finché era stato vivo, ma adesso che non c'era più, le sembrava così futile resistere alla tentazione che il suo corpo le impediva di ignorare...

Cercando una forza interiore che non sapeva come trovare, andò fino alla tomba di Giacomo e rimase a fissarla a lungo.

Si chiedeva che ne fosse, in quel momento, del corpo di Giovanni. Si chiese se l'avessero già messo in viaggio per Firenze e si domandò cosa sarebbe successo dopo. L'eredità di suo marito era ingente, gliene aveva parlato lui stesso. Abbastanza da mettere al sicuro il loro piccolo fino alla maggiore età.

Lorenzo, però. Avrebbe fatto di tutto per impedirle di ottenerla e lei non poteva permettere che i beni di Giovanni andassero a qualcun altro che non fosse suo figlio.

Temeva, anche, impuntandosi con il cognato, di perdere il favore di Firenze, e a quel punto, chi l'avrebbe difesa? Poteva passare dalla parte di Venezia? E sacrificare così sua figlia, facendola infine partire per Faenza?

Con la testa che scoppiava e il petto che cominciava a sollevarsi più rapido, di pari passo con il respiro che si faceva veloce, Caterina si mise una mano sulla fronte e poi, sopraffatta dalla sua stessa debolezza, si lasciò scivolare lungo la parete, sotto alla tomba del suo secondo amatissimo e mai dimenticato marito.

Mentre era ancora trascinata lontano dai pensieri che offuscavano il futuro, la sua mente cominciò a riproporle immagini di Giovanni Pirovano, il giovane uomo che i Sanseverino avevano portato con loro in Romagna, e il caos che la invadeva si fece tanto pesante che la Contessa decise all'istante di passare la notte lì, in quella chiesa, a costo di non chiudere occhio nemmeno un minuto.

Ogni decisione presa in quel momento, lo sapeva, si sarebbe rivelata un errore, e non poteva permettersi di sbagliare in modo tanto grossolano. Non quella notte, almeno.

 
   
 
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