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Autore: Mirae    18/06/2018    0 recensioni
Alla fine della Seconda Guerra Magica, Kingsley Shaklebolt convince il Wizengamot ad avviare una serie di controlli clinici sui sopravissuti. In questo modo, si scopre che molti anni prima Lucius Malfoy si era macchiato di un crimine orrendo: come reagiranno i protagonisti e come verranno influenzate le loro vite e quelle di chi li attornia? *Blamione* liberamente ispirata all'omonimo romanzo di Dot Hutchison.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blaise Zabini, Famiglia Malfoy, Famiglia Weasley, Il trio protagonista, Signori Granger | Coppie: Harry/Ginny, Lavanda/Ron, Lucius/Narcissa
Note: OOC | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
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Capitolo 4

            Lord Vaughn è un uomo basso, col pizzetto e una tendenza alla pinguedine che si è accentuata negli ultimi anni. Durante l’ascesa di Lord Voldemort aveva ben pensato di mantenersi neutrale, come molti suoi pari del resto, confidando nel fatto che nessuno, men che meno il Mezzosangue di nero vestito, osasse toccare il marito dell’ultima erede di Morgana e Artù. Di fatto, era stato così, anche grazie alle pozioni che uscivano dalle sue serre: il Narcissus Distillate è una droga che annebbia talmente il cervello di chi la ingerisce da spingerlo al suicidio, ma ha un difetto. In caso di un’alta concentrazione di suicidi in un certo periodo di tempo, le autorità potrebbero insospettirsi e aprire un’indagine: la potente magia degli Auror e dei Medimaghi del San Mungo è in grado di rilevare la sua presenza nel corpo del cadavere, indipendentemente dal grado di decomposizione. Probabilmente, ciò è dovuto al fatto che prima di raggiungere le terminazioni nervose del cervello, il principio attivo della pozione, l’Apharthotlus, si insedia nel midollo delle ossa. Lord Vaughn, invece, è riuscito a ricavare un altro principio attivo dalla pianta, molto più letale: il Rhubrum Chlorophyll, in grado di raggiungere direttamente le terminazioni nervose senza annidarsi nelle ossa, bruciandole. In questo modo, non restava traccia nel corpo, dopo la morte, di qualche sostanza tossica. Soprattutto, è stato abile a mascherare la produzione di questo principio e la sua commercializzazione: a chi verrebbe mai in mente di andare a cercare nei possedimenti oltremare?
A questo sta pensando mentre si rigira tra le mani un calice di Braggot[1], osservando la coltivazione di narcisi che si estende fuori dal suo studio. Portandosi il calice alla bocca, quasi sorride: non gli è sfuggita la figura che in quel momento sta sorvolando il parco su una scopa, inseguita da un’altra persona. Volta le spalle ai due ragazzi e appoggia il bicchiere su uno scaffale della libreria. Questa, dopo un paio di cigolii, si muove, rivelando una scala in pietra.
 
§ § § § § § § § § §
 
Gli era sempre piaciuto volare sulla scopa: solo lui e il vento. E il boccino, nel caso delle partite di Quidditch. E quell’idiota di Potter tra i piedi. Nessun altro pensiero. Appunto, era. Perché in quel momento, mentre sfreccia a qualche centinaia di metri sopra la tenuta Vaghn non riesce a provare nessun piacere dal volo. Troppi pensieri, troppe recriminazioni.
«Draco!» Lo insegue Blaise, preoccupato del suo rientro improvviso dal Ministero e dall’umore più nero del solito. «Draco!» Gli urla ancora, mentre fatica a raggiungerlo. La brusca frenata dell’amico, però, lo trova impreparato e per evitare una collisione, è costretto a virare verso l’alto il manico di scopa, rischiando di perderne il controllo: «Dico, ma sei impazzito a fermarti in quel modo?» Lo aggredisce.
«E tu vorresti continuare a far parte della nostra squadra a Hogwarts?» Gli chiede il biondo, evitando il vero motivo per cui entrambi si trovano a quell’altezza.
«Non cercare di sviarmi. Perché sei rientrato così presto dall’udienza? Che cos’è successo di tanto terribile al Wizengamot?»
Draco sbuffa: «Non ho voglia di parlarne», e si volta per riprendere il suo volo solitario, lasciandosi alle spalle Blaise a cavalcioni della propria scopa, immobile.
Dopo pochi metri, però, si ferma: tanto è inutile farsi schiaffeggiare dal vento, ormai Blaise l’ha provocato e tanto vale parlarne.
«Vuoi sapere che cos’è successo al Wizengamot? Non lo so che cos’è successo! Non lo so! Ma sono sicuro che il tuo caro zietto te l’abbia già raccontato, non è vero, amico?» Carica l’ultima parola con un disprezzo tale che Blaise ricorda riservato soltanto agli epiteti con cui si rivolgeva alla Granger.
«Che cosa avrebbe dovuto raccontarmi mio zio?» Gli domanda.
«Ho solo diciassette anni, ma sono stato pugnalato alle spalle già da tante persone. Solo, mi mancava ancora il mio migliore amico», gli ghigna.
«Non ti ho mai pugnalato alle spalle, lo sai. E mio zio con me non parla mai degli affari del Wizengamot: mi considera uno sperpera patrimoni. Come se avessi avuto modo di sperperare chissà quale capitale», gli fa eco.
Draco sbuffa, forse ha esagerato ad attaccarlo: del resto, ha ragione lui, è l’unico che non l’ha mai lasciato solo.
«Pare che Lucius Malfoy e Narcissa Black siano stati arrestati per rapimento», mormora, mentre le lacrime gli solcano il viso.
«Credevo avessero dimostrato di aver agito come hanno agito perché Voldemort gli stava col fiato sul collo, essendosi insediato a casa vostra». Blaise è sinceramente stupito da quella rivelazione
«No, quel rapimento risale a pochi anni prima della Prima Guerra Magica», gli rivela. «Il bambino rapito sono io», riprende, dopo una breve pausa.
Si può dare un colore al nulla? È forse grigio, come la brughiera in inverno? O forse è nero, come il mantello che è solito usare d’inverno, durante le gite a Hogsmead e che ora è riposto in qualche baule? Eppure, il mantello è qualcosa di tangibile, è pesante, morbido, mentre la nebbia che avvolge la brughiera è impalpabile: tu cerchi di imprigionarla nel tuo pugno, ma quando lo riapri, ti accorgi di avere la mano vuota. E allora perché, in quel momento, Blaise aveva la sensazione che qualcosa di nero, di pesante fosse entrato nella sua testa? Se ne sta immobile, fissando l’amico, ma senza tuttavia vederlo, la bocca semiaperta, le mani che non hanno più la forza di stringere il manico della scopa.
Draco gli risponde con un ghigno: «Se tu sei rimasto così scioccato, pensa me! Secondo i parrucconi del Wizengamot, Lucius mi avrebbe rapito pochi mesi dopo la mia nascita, da una famiglia di Babbani».
Come grazie a un Finitus, Blaise si risveglia dalla trance, scuotendo leggermente la testa e chiudendo e aprendo più volte gli occhi: «Per le mutande di Merlino, Draco, ci ero cascato in pieno!»
Scoppia a ridere, ma Draco lo gela: «Non è una barzelletta»
«Avanti, Draco, come puoi anche solo lontanamente pensare che io creda alla panzana così grossa come quella di Lucius che alleva con amore un Sanguemarcio, dai!»
Senza rispondergli, Draco si volta e dirige la sua scopa verso un punto lontano della tenuta.
«Draco», lo richiama l’amico, con quanto più fiato ha in gola, ma Draco è veloce. E permaloso. E arrogante. «Ma vedi tu che cosa mi tocca fare», brontola, prima di lanciarsi all’inseguimento.
 
§ § § § § § § § § §
 
«Non ci posso credere. È assurdo. È una trovata di Malfoy per salvarsi le chiappette come l’altra volta». Hermione sta girando in circolo nel salotto di Villa Conchiglia, portandosi ogni tanto le mani ai capelli.
«Ehm… Hermione», tenta Ron, non molto convinto di interrompere la sua ex fidanzata, «da quando dici le parolacce? E poi, va beh che Malfoy è Malfoy, ma mi spieghi come si può pensare di salvarsi da Azkaban autoaccusandosi di rapimento?»
Hermione si blocca con le braccia a mezz’aria, in equilibrio con un piede saldo sul tappeto consumato e la gamba sinistra indietro, con solo la punta del piede appoggiata sul tappeto. Ron, però, è certo di vedere gli occhi prendere vita propria e uscire dalle loro orbite per andare a divorarlo.
È solo immaginazione, si disse, mentre scuoteva la testa come un cavallo infastidito dalle mosche. In effetti, pensò Hermione, in quei mesi i capelli gli erano cresciuti parecchio e avevano quasi preso la forma di una criniera: quel pensiero servì a distrarla e a farle piegare leggermente le labbra all’insù. Anche gli occhi, notò Ron tirando un sospiro di sollievo, erano tornati normali.
«Comunque, resta il fatto che, secondo i Medimaghi, io e Draco siamo fratelli».
«Non oso immaginare una sventura peggiore», conviene Ron, per riprendere con la consueta delicatezza di un cucchiaino: «Chissà come ha reagito alla notizia di essere anche lui un Natobabbano: mi sembra di vederlo strapparsi i capelli e i vestiti dalla disperazione di non essere così tanto puro come si vantava di essere», sorride vittorioso.
Hermione, invece, si lascia cadere sul divano come fosse un sacco di carrube lanciato in un angolo di una nave da un marinaio troppo frettoloso per riservarle un qualche riguardo in più: «Ha lasciato il Ministero senza rivolgere la parola a nessuno, a testa bassa. A dire il vero, credo che per lui sarà molto difficile accettare la cosa».
«E per te? Voglio dire, dopo quello che ti ha fatto passare in tutti questi anni, adesso scopri che è tuo fratello ed è pure un Serpeverde: riuscirai a mantenere la freddezza per non avvantaggiarli in un modo o nell’altro?»
Questa volta, Ron, seduto su una poltrona all’altro lato della stanza, non ha le visioni di occhi divoratori, visto che Hermione li ha ridotti a due fessure, ma ha comunque la sensazione che da esse fuoriescano delle lingue di fuoco pronte a incenerirle al prossimo accenno di parola.
«Che cosa vorresti dire? Che sono faziosa? Ho mai facilitato qualcuno che non fosse un mio Compagno di Casa?»
Ron deglutisce a vuoto e, con le mani giunte chiuse in mezzo alle ginocchia, muove la testa a destra e a sinistra il più veloce possibile, cercando di dare nel movimento tutta la forza della convinzione.
A un tratto, però, Hermione pare calmarsi: spalanca gli occhi e gli chiede se per caso con quella sua uscita non le stesse comunicando il proprio rientro a Hogwarts.
Sbalordito da quel cambiamento tanto repentino, Ron non ha la forza di contraddirla.
 
§ § § § § § § § § §
 
Da quanto tempo si trovava lì? La sua vita di prima stava sfuggendo alla sua memoria: i giorni era per tutti Dora e amava calarsi dai dirupi come una farfalla non avevano più il colore azzurro dell’orizzonte e il profumo dei fiori della brughiera o della salsedine dell’oceano, ma erano ormai grigi come la pietra della sua cella e odoravano di muffa e lei non era più Dora, ma Bolina, come testimoniava la farfalla tatuata sopra il seno sinistro, una farfalla con le ali nero-bluastre aperte, come se fosse pronta a spiccare il volo. Come lei, quel giorno…
 
Finalmente la guerra – e il terrore di essere rapita, stuprata, addirittura uccisa – era terminata e quale modo migliore per festeggiare la nuova era se non volare liberi come farfalle? Tra tutti gli insetti, erano le uniche creature a non destarle ripugnanza, anzi: ne era così affascinata che quando alla Wizard Academy di Torino[2] aveva scoperto che un Babbano vissuto molti secoli prima aveva inventato delle ali di stoffa per permettere ai suoi simili di poter volare, aveva approfondito la questione e scoperto le ricerche non si erano fermate con la morte di quel visionario, ma erano proseguite e quel particolare mezzo aveva anche un nome: aliante. Appassionata com’era di Babbanologia e libertà, si era subito immersa in quella nuova esperienza iscrivendosi a una scuola di volo e scoprendo così, che anche i Babbani potevano volare. L’aliante non offriva la stessa libertà di una scopa, o la stessa comodità di un tappeto (quella, per la verità, era difficile da imitare per qualsiasi mago che non fosse mediorientale), però offriva la stessa sensazione di libertà. Lassù, nel cielo, finalmente lei non era più Dora, una strega tra tante, ma una ragazza dal talento innato di saper trovare le migliori correnti ascensionali per volare il più a lungo possibile; non era più un affluente del grande fiume, ma era lei stessa il grande fiume…
Il 4 maggio si era alzata che era ancora buio, nonostante Triwhols[3] non distasse molto dal Roseland Heritage Coast: in dieci minuti l’avrebbe raggiunta, ma voleva sorprendere l’alba in volo.
Non successe.
Quando raggiunse la scogliera, vide la sagoma di una persona seduta che guardava l’orizzonte. Sbuffando si avvicinò: sperava di essere sola, ma sua madre, italiana e solare, le aveva trasmesso il gene della comunicatività, per cui, prima ancora di rendersene conto, le gambe l’avevano avvicinata a quello che aveva scoperto essere un suo coetaneo. Le disse di chiamarsi Artiom e le raccontò di essere uno studente russo in vacanza, che sue grandi passioni erano il mare e la letteratura ottocentesca inglese e che ammirava molto sir Francis Drake. Da parte sua, Dora gli raccontò la storia del suo nome, della sua passione per le farfalle e il volo; neppure per un attimo si soffermò sulla totale assenza di accenti stranieri.
A un certo punto, il ragazzo le offrì una sigaretta, ma dopo un paio di tiri, la testa cominciò a girarle: «Questa roba è davvero forte… Non sarà mica una canna?» Gli chiese.
L’altro scoppiò a ridere: «No, stai tranquilla, è solo semplice tabacco. È solo una questione di abitudine. Vedrai, tra un paio di tiri non ti sembrerà nemmeno di stare fumando», le accarezzò una guancia.
Dora aveva già allungato il braccio destro per restituirgliela, ma Artiom, invece di riprendersi la sigaretta, le accarezzò una guancia, incatenando il proprio sguardo in quello della ragazza. Istintivamente, Dora piegò la testa di lato, appoggiandola sulla mano calda, come un cagnolino in cerca di coccole.
«Continua a fumare, tranquilla», le sussurrò, accompagnando con il braccio libero quello di Dora, fino a rimetterle in bocca la cicca.
«Così, da brava», la invogliava, mentre Dora spinta dalla voce carezzevole di Artiom inspirava in modo sempre più profondo e l’orizzonte spariva dietro le volute di fumo grigio.
Si svegliò con un gran mal di testa, su un letto che subito non riconobbe come il suo: le ci vollero cinque minuti abbondanti per mettere a fuoco le pareti di pietra grigia che trasudavano umidità e muffa, eppure quel materasso era così morbido… Cercò di sollevare la testa, ma un dolore lancinante alla nuca le fece emettere un gemito. Chiuse di nuovo gli occhi, riaddormentandosi.
Quando si risvegliò (quante ore dopo?) il mal di testa aveva lasciato il posto a un senso più generale di spossatezza. Questa volta riuscì a rimettersi seduta: le pareti di pietra erano ancora lì, segno che prima non stava sognando: qualcuno l’aveva rapita, ma chi e perché? Come a leggerle nel pensiero, una voce di uomo risuonò in quella cella: «Finalmente ti sei svegliata. Sei una gran dormigliona, sai? La voce era uguale a quella di Artiom; possibile che…
Udì dei passi alla sua sinistra e voltò di scatto il capo verso quella direzione: un’ombra si stava avvicinando, rivelando man mano i dettagli.
«Artiom?» L’inflessione stupita della sua voce strappò un sorriso al ragazzo, nella mano destra una sigaretta: le volute del fumo catturarono le attenzioni di Dora, la quale aveva appoggiato i pugni sul materasso, pronta a scappare, ma quei ghirigori sospesi nel vuoto erano così, così… Sembravano farfalle, tante farfalle colorate…
Artiom le si avvicinò ancora di più, fino a sedersi accanto a lei e accarezzandole il palmo sinistro: «Sì, per te, e per te solo, sono Artiom». Intanto, le farfalle le entrarono nelle narici, raggiunsero il cervello, dove esplosero in tanti piccoli fiori psichedelici.
Dora emise un piccolo suono gutturale, mentre la mano di Artiom si spostava lungo il braccio. La sua mente, occupata dallo stupore di quei fiori che continuavano a sbocciare nel suo cervello, non registrò l’Evanesco con cui Artiom fece sparire la propria Casphiam e con quella mano ora libera la fece distendere di nuovo sul materasso. Chiuse gli occhi Dora, mentre il camice bianco spariva, lasciando il suo corpo nudo, esposto allo sguardo del ragazzo.
Prima di puntarle la bacchetta contro, percorse il profilo di quel corpo tonico con la punta del dito: avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per fare suo quel corpo, ma prima voleva possedere la sua anima e c’era solo un modo per farlo.
Interrompendo la sua esplorazione poco sotto l’ombelico, si risolse a riprendere la bacchetta e la puntò sopra il seno sinistro: «Pailionem Aparecium», pronunciò e una bellissima Hypolimnas-bolina maschio dalle ali nere con tre coppie bianchi circondati da iridescenze violacee apparve sul corpo della ragazza.
«D’ora in poi ti chiamerai Bolina. Ti piace?», le impose il ragazzo. La voce non era più carezzevole, ma aveva un tono duro, quasi da uomo adulto.
Da qualche parte, nel suo cervello, alcune terminazioni nervose si ridestarono e Dora ebbe la forza di contrastarlo, anche se debolmente: «No», sussurrò appena, infatti.
«Beh, fattelo piacere», le rispose l’uomo, alzandosi dal letto e lanciandole in viso il camice bianco: «Dora non esiste più per il mondo esterno. Ora esiste solo più Bolina. Per me, per il mio divertimento, per la mia collezione».
Era uscito, lasciandola sola.
“Dora non esiste più per il mondo esterno” nei primi giorni l’aveva gettata nello sconforto, ma poi aveva deciso di reagire. Gli auror non potevano averla dichiarata morta: non aveva lasciato alcun biglietto che potesse lasciar trasparire qualche sua insana volontà e la sua attrezzatura si trovava a pochi passi dal dirupo, quindi non si poteva neanche ipotizzare un tragico incidente. Una volta elaborato ciò, non si diede per vinta nemmeno quando Artium, vedendola così decisa a riprendersi la vita di prima, le sbatté sul piatto la Gazzetta del Profeta: GIOVANE BABBANOLOGA DIPLOMATA IN ITALIA MUORE IN UN INCIDENTE MENTRE SPERIMENTAVA UN NUOVO MEZZO VOLANTE. Nell’articolo, il Giornalmago si interrogava se fosse proprio necessario perseguire sulla strada intrapresa dal nuovo Ministro di apertura verso i Babbani. Completava il pezzo l’intervista a un certo Weasley, il quale si diceva entusiasta della nuova politica del Ministro, anche se, avvertiva, era necessario che gli aggeggi babbani non fossero commercializzati con tanta facilità e quindi bisognava ripristinare al più presto l’Ufficio per l’Uso Improprio dei Manufatti dei Babbani.
Senza mostrare alcuna emozione, ripiegò il giornale e lo riconsegnò al legittimo proprietario, mentre lei ricominciava a mangiare la sua zuppa di latte e cereali, mentre nella sua mente si ripeteva come un mantra che lei sarebbe riuscita a scappare da quella prigione e per prima cosa si sarebbe presentata da quella giornalista da strapazzo e l’avrebbe costretta a scrivere le proprie scuse.
Morta in un incidente mentre volava, lei!



 
[1] tipica bevanda gallese ottenuta mischiando la birra al sidro di mele: qui viene usato come se fosse il nome del brand, come l’Ogden's Old per il Firewhisky.
[2] Esiste veramente ed è nata 13 anni fa grazie all’Associazione culturale no-profit Avventure Magiche di Torino
[3] Ho preso spunto da Treworlas Treworlas, una frazione a ovest di Veryan in Cornovaglia (parrocchia civile di Phileigh)

 
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N.d.A.: innanzitutto, scusatemi per i tempi biblici con cui aggiorno. Come sempre, ringrazio tutti voi che leggete la mia storia e l'avete inserita tra le preferite/ricordate/seguite e lasciate un segno del vostro passaggio, come anche chi legge in silenzio.
Per chi è interessato, questa è la mia pagina Fb: https://www.facebook.com/TheMiraesDream/
   
 
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