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Autore: Adeia Di Elferas    01/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dalla partenza di entrambi i Sanseverino, Caterina stava cominciando a ragionare su cosa la loro presenza significasse realmente.

Quando li aveva saputi in arrivo, in fondo, ne era stata molto sollevata, perché l'idea di avere finalmente dei comandanti capaci, spesati, per altro, da suo zio e non da lei, la metteva di nuovo nella posizione di poter contare qualcosa, sul piano militare. L'avere sotto il proprio comando degli uomini del genere, portanti lo stemma del Moro, le permetteva di avere un peso diverso, in quella guerra.

Tuttavia, adesso che li aveva portati entrambi a Marradi, non restandole da fare altro che aspettare notizie dal fronte, aveva colto un po' di più l'ingerenza che suo zio stava cercando di fare e anche le proposte scomode di Giovan Francesco Sanseverino iniziavano a sembrarle meno azzardate di quanto non avesse creduto all'inizio.

Era una mattina di pioggia, come sempre, su quel finale di settembre e la donna aveva appena finito di sbrigare le questue a palazzo – in quei giorni si trattava quasi esclusivamente di furti di cibo, per via della carenza che cominciava a farsi sentire davvero – quando Luffo Numai era andato a cercarla alla rocca.

L'aveva trovata nella camera del figlio più piccolo, assieme a Giovannino e a Bianca, e nel trovarla immersa in una scena tanto familiare, si era quasi vergognato a doverla interrompere. In fondo erano molto pochi i momenti in cui la Tigre sembrava davvero una madre e una donna, almeno ai suoi occhi, e costringerla a rimettere il figlio più piccolo nella culla per seguirlo era un po' una sofferenza, per lui.

Tuttavia anche la questione che l'aveva portato fino lì si poteva definire di famiglia e così, al dunque, non si fece troppi problemi.

“Arrivo.” soffiò la Contessa, sistemando il piccolo che, nel vederla allontanarsi, cominciò a piangere e smise solo quando la sorella lo prese in braccio.

Luffo Numai la fece uscire in corridoio e poi, con voce bassa, le disse: “Una delle guardie cittadine ha fermato vostro figlio Bernardino, assieme ad altri ragazzini, perché era nata una rissa e alcuni di loro erano armati e così temeva che...”

Caterina strinse le labbra, ma il Consigliere non capiva se fosse più infastidita o preoccupata, così le disse subito che suo figlio non aveva avuto alcun danno e che la guardia, per fortuna, era intervenuta abbastanza in fretta da evitare il peggio.

“Dov'è adesso mio figlio?” chiese la donna, dopo un po', alzando una mano per zittire Numai.

L'uomo la portò fino allo studiolo del castellano, dove avevano condotto Bernardino per sottrarlo al pubblico giudizio, evitandogli di essere accompagnato dalle guardie fin davanti all'Auditore.

“Lasciateci soli.” sussurrò Caterina, tanto a Cesare Feo, che si era improvvisato sorvegliante del bambino, quanto a Luffo, che si ritirò all'istante.

Appena la porta fu chiusa alle sue spalle, la Sforza fissò Bernardino. Era in piedi in mezzo alla stanza, il capo chino, le guance arrossate – difficile dire se per la rabbia o per la vergogna – e i capelli e gli abiti ancora bagnati di pioggia.

“Perché fai così?” chiese la Tigre, restando al suo posto, incapace di fare un passo in più verso di lui.

Il bambino, che avrebbe compiuto abbastanza a breve otto anni, rimase in silenzio, continuando a fissare il pavimento. Nel guardarne il profilo del viso, in quel momento, Caterina non rivide più solo Giacomo – benché fosse indubbiamente presente in ogni sfumatura dei suoi lineamenti – ma anche se stessa. Riconosceva quella rabbia, e le faceva paura.

Sapeva che non doveva perderlo. Se avesse mancato l'occasione di riavvicinarlo a sè, si sarebbe guastato, com'era successo a Ottaviano e a Cesare prima di lui. E lei aveva promesso a Giovanni che si sarebbe presa cura di Bernardino, anche a costo di soffrire pur di riuscirci.

“È come un pesce che si dibatte nella rete – le aveva detto una volta il marito – e più cerca di uscirne, più si trova avviluppato. Ma se tu lo aiuti a districarsi dalle maglie, vedrai che tornerà a nuotare libero.”

“Vieni qui.” gli disse, con un tono molto più perentorio di quanto non avesse voluto.

Il bambino, impaurito dalla madre, si fece comunque coraggio e si mosse meccanicamente verso di lei, fermandosi a un paio di passi di distanza.

A quel punto fu la donna a colmare quel vuoto e gli si avvicinò, stringendolo con forza a sè: “Ti prego, dimmi perché fai così.”

“Perché...” iniziò a dire il piccolo, ma la voce gli si ruppe.

Non lo sapeva nemmeno lui perché si cacciava in tutti i tafferugli di ragazzini che scoppiavano. E non sapeva nemmeno dire perché molti li provocasse lui stesso. A volte rispondeva solo a delle provocazioni – perché erano tanti i suoi coetanei che lo prendevano in giro per via di sua madre, o di suo padre, o dei suoi fratelli – altre volte cercava solo una valvola di sfogo.

“Ascoltami...” disse piano Caterina, mettendosi in ginocchio davanti a lui per poterlo guardare attentamente in viso: “Io capisco la rabbia che provi. So il dolore che hai nel cuore. Tuo padre manca anche a me. Non immagini quanto. E anche Giovanni...”

A sentire il nome del patrigno, Bernardino tirò su con il naso, i grandi occhi ancora lucidi di lacrime. Rimase in ascolto, voleva sentire sua madre dire che non era vero che aveva già altri uomini, come gli era stato detto quella mattina in città. Voleva sentirle dire che Giovanni era stato importante anche per lei. Voleva che smentisse, anche solo con una mezza frase, tutte le cattiverie che raccontavano su di lei e sul perché lo avesse sposato.

Per lui era importante. Doveva capire che donna fosse sua madre. Voleva potersi fidare ancora di lei.

“Giovanni è stato l'uomo più importante della mia vita.” sussurrò la Contessa, ammettendo per la prima anche con se stessa quanto il suo ultimo marito fosse stato per lei fondamentale.

Anche se Giacomo era ancora una presenza costante nei suoi pensieri e anche se non si era ancora realmente rassegnata alla sua morte, anche dopo oltre tre anni, e anche se l'amore che aveva provato e provava ancora per lui era il sentimento più devastante che conoscesse... Malgrado tutto ciò, sapeva che senza Giovanni non sarebbe mai sopravvissuta al momento più buio della sua vita.

Per un istante, la donna temette che quell'affermazione avrebbe avuto un effetto negativo sul figlio che, sentendo il Medici come un rimpiazzo del padre, avrebbe potuto arrabbiarsi ancora di più. E invece Bernardino la sorprese e si asciugò le lacrime che gli erano scivolate sulle guance, prima di trovare di nuovo il coraggio di parlare.

“Per me messer Giovanni era un padre.” affermò il piccolo.

Caterina sentiva un nodo alla gola. Si stava chiedendo come sarebbe stato, se il suo ultimo marito non fosse morto. Era un punto stabile per tutti i suoi figli. Stava dando loro la stabilità che per anni era mancata, così come stava facendo con lei...

“Mia signora.” il castellano entrò nello studiolo senza nemmeno bussare, portando una lettera in mano: “Vi prego, pare sia urgente.”

La donna si rimise in piedi e, stringendo a sè un'ultima volta Bernardino, si riconsegnò agli affari di Stato.

 

“Andando avanti così, non ce la faremo mai.” disse Dionigi Naldi, dopo aver aiutato i suoi soldati a recuperare un altro cadavere ancora.

Stavano cadendo come mosche e la colpa stava soprattutto nella superiorità numerica dei veneziani, che sembravano non avere fine. Addirittura, con un verrettone, Manfrone ci aveva tenuto a far sapere loro che presto sarebbe giunto in loco anche Bartolomeo d'Alviano con 'tanti fanti e cavagli' e a quel punto, probabilmente, in assenza di altri aiuti, sarebbero caduti definitivamente.

“E poi – disse con disillusione Giovan Francesco Sanseverino, che dall'alba di quella mattina aveva dovuto sorbirsi i malumori dei suoi soldati che, oltre a vedersi spacciati, si lamentavano dei ritardi nei pagamenti – i veneziani hanno raso al suolo Marradi e hanno bruciato tutto quanto, ammazzando tutti. Che ci stiamo a fare in questa rocca? A difendere un cimitero?”

“Parlate come degli sciocchi!” si oppose Simone Ridolfi, che non era meno in ansia degli altri, ma che cercava comunque di mantenere la calma: “Se cediamo anche questa rocca, i veneziani arriveranno fino a Firenze, e allora..!”

“E allora?” sbuffò Fracassa, che, malgrado tutto, iniziava a essere disilluso quanto il fratello: “Io me ne torno a Milano, se succede. Sono al soldo di chi mi paga, non ho una bandiera a cui tenere più che a un'altra.”

“Parlate da uomo senza onore.” si intromise Giovanni da Casale, asciugandosi la fronte, mentre raggiungeva la tettoia, dopo aver dato anche lui una mano con i cadaveri: “Abbiamo giurato fedeltà alla Contessa e quindi...”

“Fedeltà, fedeltà...” borbottò Giovan Francesco: “A una donna non va mai giurata. E poi che ne sapete voi? Siete solo un subalterno. Un poveraccio. La Tigre si sbarazzerà di voi non appena si stuferà di avervi tra i piedi. Al massimo vi potrebbe concedere una notte nella sua stanza, nulla di più...”

Quelle parole fecero scattare Pirovano che, trattenuto prontamente dal Fracassa e da Naldi, si placò abbastanza in fretta, senza, però, smettere di allargare le narici come froge di un cavallo furente.

Simone Ridolfi restò molto colpito dal suo atteggiamento e, senza dire nulla a nessuno, si ritirò un momento nel suo alloggio. Era abbastanza sicuro che Giovanni da Casale avesse reagito così perché la Sforza lo aveva quanto meno illuso di qualcosa.

Passandosi con forza una mano sulla fronte, sentì di nuovo i corni d'allarme che segnalavano un nuovo attacco. Ricacciando così indietro il dolore ancora vivissimo per la perdita di Giovanni e il disgusto che provava per la condotta insensata della Contessa – che di certo, nessuno glielo avrebbe tolto di mente, tra gli uomini con cui aveva già tradito il marito aveva inserito anche Pirovano – si preparò di nuovo per darsi da fare e, infilatosi di nuovo il cinturone della spada, corse fuori, verso i camminamenti.

 

La lettera che il castellano le aveva fatto avere era da parte di Achille Tiberti e la Sforza ci mise un po', prima di digerirla.

L'uomo le faceva sapere senza mezzi termini di essere stato piantato in asso dai suoi soldati perché non era stato in grado di fornire loro una paga adeguata e dunque le chiedeva che fare. Caterina aveva accartocciato la missiva senza troppe cerimonie. Sapeva che Tiberti intendeva, con le sue frasi affettate, farle capire che sarebbe spettato a lei pagare l'ingaggio ai cento fanti che aveva raccattato, ma la Contessa non aveva la minima intenzione di cedere.

Non voleva incidenti diplomatici con un simile esponente dei Tiberti – cognome ancora molto influente nel cesenate e dunque da non dileggiare – ma non voleva nemmeno dargliela vinta.

La seconda lettera importante di quel giorno arrivò quando la Tigre era ancora furente con il suo Capitano.

Questo messaggio, però, arrivava direttamente dal Moro e i suoi toni erano tutt'altro che amichevoli.

Le faceva presente di essere molto infastidito da come aveva reagito alla richiesta di reclutamento forzoso che aveva proposto lui e si diceva quanto meno impensierito dalla disposizione tattica che stava facendo dei suoi comandanti.

Ludovico non usava eufemismi per dirle che se non avesse ottenuto il numero richiesto di soldati, lui non le avrebbe inviato più aiuti e che, anzi, le avrebbe anche revocato quelli già accordati.

Nella stanza che aveva condiviso con Giovanni, Caterina ascoltava il battere ritmico e incessante della pioggia contro la finestra. In quella camera i problemi del mondo sembravano lontani. Sulla scrivania, accanto alla lettera che stava leggendo, c'era ancora il Canzoniere di Petrarca che il Medici aveva portato con sè da Firenze, ancora con il segnalibro piantato nel mezzo, dove l'avevano lasciato l'ultima volta che l'avevano letto assieme.

Il letto era ancora sfatto, ma la Sforza aveva lasciato detto di non rassettare, per quel giorno. Era diventata insofferente alle ingerenze della servitù e preferiva cavarsela da sola anche in quello, lasciando che le serve si occupassero della stanza solo per cambiare le lenzuola quando necessario o portarle una brocca di vino nuova.

Quando si forzò a guardare di nuovo le parole scritte per mano forse del cancelliere di suo zio, la Tigre sospirò pesantemente e decise di rispondere con un tono che di certo avrebbe spiazzato il Moro.

Prima di tutto sottolineò come le truppe veneziane stessero letteralmente invadendo la Romagna e poi gli mise la pulce nell'orecchio circa alcuni degli uomini che le aveva mandato. Era certo di avere nei Sanseverino dei servi lealissimi e fedeli, ma chissà come l'avrebbe pensata, nel sapere che in qualche modo Giovan Francesco stava cercando di qualcun altro...

Oltre a lamentarsi della ruvida compagnia di Fracassa, uomo che descrisse come rozzo e poco incline a eseguire realmente gli ordini che gli venivano dati, precisò anche come l'altro Sanseverino avesse chiesto la mano di sua figlia.

Preferì evitare di specificare che pure lei era stata vista dal Conte di Caiazzo come possibile sposa, ma scrisse solo: 'il conte de Caiaza me l'ha facta dimandare: in lui è qualche respecto del tempo, per il resto siendo homo de reputatione in Italia non me dispiacerla'.

Pur avendo sottolineato, insomma, l'età troppo avanzata del comandante, Caterina volle insinuare il dubbio in Ludovico. Anche se aveva già ampiamente deciso di rifiutare strenuamente altre eventuali proposte del Sanseverino, voleva che il Duca si sentisse mancare la terra sotto i piedi, anche se per poco.

'Examinate questo caso, et advisateme del parere vostro', concluse, come a ricordare allo stesso Ludovico di quando lui l'aveva minacciata, facendole presente che nessun matrimonio si sarebbe celebrato in Forlì senza il suo volere esplicito.

Chiudendo il messaggio, però, la Sforza si sentì sfinita. Le sembrava che la guerra che rischiava di travolgerla al fronte, l'avesse già sopraffatta in casa.

Suo zio e suo cognato, formali alleati contro Venezia, le stavano puntando contro i cannoni dell'odio e così anche sotto il suo stesso tetto la rabbia e il malcontento stavano minando quel poco di pace che era riuscita a raggranellare assieme a Giovanni...

Con un respiro fondo, la Leonessa prese la grave decisione che sapeva ormai irrimandabile. Ordinò in fretta un Consiglio Cittadino e all'ordine del giorno mise qualcosa che non avrebbe mai voluto mettere.

Benché la legge le permettesse di agire anche senza chiedere il parere dei Consiglieri, preferì fare tutto con una formale interrogazione.

Spiegò per filo e per segno tutti i problemi in cui si sarebbe incorsi, non facendo quel che proponeva, e così ottenne senza problemi la maggioranza dei voti e si decise di procedere con un arruolamento forzoso di massa, con effetto immediato.

 

“Hai sentito quello che ho detto?” chiese Semiramide, scuotendo il marito per una spalla.

Lorenzo, che era seduto alla scrivania, sollevò una mano, come per scacciarla, e borbottò: “Certo, certo... Appena finisco di riguardare queste carte del Consiglio...”

“Stai scherzando, Lorenzo?” chiese la donna, che a quel punto non poteva più far finta di non dar peso alle reazioni assurde dell'uomo che aveva sposato: “Ti ho detto che il corpo di tuo fratello sta entrando in città e tu mi dici che prima vuoi rileggere queste... Queste...”

“Sono carte importantissime della Signoria, che...” prese a dire lui, senza staccare gli occhi dal foglio, benché non stesso più leggendo nulla dal momento stesso in cui la moglie gli aveva portato quella notizia che aspettava con ansia da giorni.

“Al diavolo!” sbottò Semiramide, dando uno strattone a Lorenzo, imponendogli di voltarsi a guardarla: “La Signoria! Firenze! Firenze! Firenze! Non sai pensare ad altro! Non sai parlare di altro! Per te non è mai esistito nient'altro!”

L'uomo restava muto a fissarla, come se non sapesse come prendere quelle frasi, se come un'accusa formale o come una semplice constatazione.

Il sangue nelle sue vene, quel giorno, era di ghiaccio. La pioggia battente che stava ingrossando l'Arno, per quanto gelida, era molto più calda di lui in quel momento, e molto più viva.

Sapere che Giovanni era tornato – che il suo cadavere era tornato – lo stava mettendo davanti a una realtà che non voleva affrontare.

Per quanto si fosse arrabbiato, avesse gridato, si fosse trincerato dietro una presunta aura di spietata forza, non aveva ancora preso realmente coscienza della verità, e sapere che il corpo di suo fratello era finalmente tornato a Firenze lo stava facendo sprofondare nell'angoscia.

“Avrei preferito dover essere gelosa di una donna! Almeno avrei avuto le armi per riaverti!” le invettive di Semiramide, Lorenzo se ne accorse con un vago ritardo, erano passate a un piano per lei molto più personale e doloroso: “Ma come faccio a vincere contro Firenze?!”

Il Medici finse di non aver dato ascolto alle sue parole, ma finalmente si alzò e lasciò la scrivania, dicendole solo: “Vado a cambiarmi. Devo andare in San Lorenzo per accordarmi meglio per il funerale...”

Semiramide, incapace di aggiungere altro, lo guardò uscire dallo studio e poi, volendo riparare almeno in parte al disastro che suo marito stava facendo, andò in camera, infilò un mantello pesante che la riparasse un po' dalla pioggia, recuperò suo figlio Pierfrancesco e due cavalli e andò incontro al corteo che portava la salma di Giovanni, scusandosi con chi le chiedeva dove fosse Lorenzo, dicendo che il marito era troppo sconvolto dal lutto e dal dolore per mostrarsi in pubblico.

E mentre lo diceva, l'Appiani ammise con se stessa che forse era davvero così.

 

'Mi è stato accordato il tentativo d'una sollevazione in Brisighella, se la Signoria Vostra permetterà a Dionigi Naldi, valente homo, de aiutarmi con i soldati suoi – aveva scritto Ottaviano Manfredi, in risposta all'ultima missiva della Tigre – et da Brisighella io poi verrò a Forlì, senza più incontrare le mal disposizioni del comandante florentino, Paolo Vitelli'.

Caterina finì di leggere con un sospiro e si chiese se stesse facendo la cosa giusta. In fondo lo stesso Giovanni le aveva detto di non perdere di vista Ottaviano Manfredi e, anzi, di dare ascolto alle sue richieste.

Difficilmente si sbagliava, sulle persone, e quindi di certo seguire il suo consiglio non si sarebbe rivelato un errore.

La stanza della Contessa era silenziosa. Il camino era acceso e il fuoco stava prendendo vigore, benché l'avesse acceso da poco. Settembre stava per finire, ormai si era alle porte di ottobre, e il clima aveva subito una brusca virata verso il freddo.

I rovesci non si erano quasi più fermati e avevano così ritardato anche un po' i lavori di manutenzione che la Leonessa aveva ordinato non solo alla cinta muraria di Forlì, ma anche alle piccole fortificazioni satelliti.

Siccome stava venendo tardi e la notte si avvicinava, la Sforza decise lasciare da parte la lettera di Manfredi e di ritardare al giorno dopo il resto della corrispondenza. Aveva letto tutto quanto, ma non c'era nulla di urgente, a parte le lamentele vive degli uomini che aveva mandato ad arruolare soldati nelle campagne.

Dicevano che i contadini lasciavano il nome, ma chiedevano il permesso di tornare a casa per sistemare alcune cose, e di loro quasi nessuno s'era più visto.

Tuttavia, sentendosi stanca come se avesse passato la giornata a vangare un campo assieme a quei restii agricoltori, la Contessa decise di pensare al da farsi la mattina seguente.

Si tolse l'abito da giorno e cercò un libro da leggiucchiare per conciliare il sonno. Mentre finiva di bere un calice di vino – quello nero che conservava gelosamente nella dispensa della rocca – scelse con scarsa convinzione una raccolta di versi di Virgilio.

Avrebbe preferito mille volte leggere Catullo, ma, come si era resa conto da qualche giorno a quella parte, il suo volume era rimasto a San Pietro in Bagno e, probabilmente, da lì era stato messo su un carretto per Firenze.

Qualcuno bussò alla porta e così la donna non ebbe nemmeno il tempo di svuotare il bicchiere e stendersi. Riappoggiò il volume sulla scrivania e andò a vedere chi fosse.

“So che non vi piace essere disturbata di sera, ma...” Cesare Feo le passò una lettera attraverso la porta appena schiusa: “Mi avete chiesto voi di consegnarvi la corrispondenza a qualsiasi ora.”

“Grazie.” annuì la Sforza, prendendo subito il messaggio e richiudendo l'uscio.

Ravaldino in quelle ore era più trafficata che non una locanda sulla via Emilia, per quanto riguardava la posta. Tra le lettere in uscita e quelle in entrata c'era il rischio di perdere il conto di quanti messaggi stessero transitando da lì.

Quando vide una chiusura che non riconosceva, però, la Sforza rimase un po' interdetta. Si sedette sul letto e aprì il sigillo.

La missiva arrivava da Firenze ed era stata scritta da un certo Michele Marulli, un nome che, Caterina se ne rese conto dopo un po', aveva sentito a volte fare da Giovanni, quando le raccontava delle amicizie che aveva avuto durante la sua adolescenza a Firenze.

Quell'uomo la voleva informare del fatto che l'ultimo giorno del mese, come aveva stabilito Lorenzo Medici, ci sarebbero stati i funerali di Giovanni e poi, con una certa insistenza, le chiedeva il permesso di recarsi alla sua corte e arruolarsi nel suo esercito, in memoria dell'amico.

Benché la richiesta apparve un po' estrema, alla Contessa, la donna ben si guardò dal rifiutare e preparò subito la risposta, scrivendo a quel Michele che avrebbe potuto giungere a Forlì quando preferiva, che il suo esercito era in perenne ricerca di uomini volenterosi e valenti.

Tuttavia, però, appena ebbe finito di vergare il breve messaggio, Caterina tornò subito a sedersi sul letto, mettendosi a ragionare su quanto aveva appena letto.

Il funerale di Giovanni. Era alle porte. L'ultimo giorno del mese sarebbe stato l'indomani. Non aveva più pensato in modo pratico a quello che ne era stato di suo marito. Per lei era finito tutto la notte del 14, in quella stanza silenziosa a San Pietro in Bagno. Le pareva quasi impossibile pensare che il corpo dell'uomo che aveva amato fosse ancora in circolazione, diretto a Firenze, forse già pronto per essere inumato.

Cercò qualche dettaglio ancora nella lettera di Marulli, e si accorse di aver letto in modo molto superficiale il messaggio, perché solo a una seconda occhiata trovò indicazioni precise sulle esequie, che si sarebbero tenute in San Lorenzo.

Deglutì e poi, senza una vera logica, accartocciò la lettera e la gettò nel fuoco. Con il ferro la spinse per bene nelle fiamme, tra la cenere, fino a non lasciarne traccia, come se quel gesto potesse da solo cancellare il vuoto che le si era riaperto nel petto.

Malgrado il suo strenuo proposito di restare lucida il più possibile, in vista di qualsiasi emergenza potesse intercorrere, Caterina dopo un po' uscì nel corridoio e chiamò a sè il primo domestico che incontrò, pregandolo di portarle una caraffa piena di vino, dato che quella che aveva in camera era quasi finita.

La sua mente stava tornando confusa, l'ombra che la divorava aveva ripreso a pizzicarla. Quella sera, però, voleva restare sola. E così, quando il vino arrivò, tentò di placare la fame bevendo. Si illuse che i sensi intorpiditi potessero placare il vuoto che la stava consumando, e quando infine si coricò, piombò in un sonno pesante e senza sogni, che la condusse fino al mattino, lasciandole come ricordo solo uno stringente cerchio alla testa e un lieve senso di nausea.

 

   
 
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