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Autore: Philips    02/07/2018    1 recensioni
"La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l'intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia" diceva Schopenhauer.
Probabilmente i protagonisti di queste storie, legate da riferimenti sottili o incontri dimenticati, la pensano proprio allo stesso modo.
In ognuno di questi piccoli scorci di vita quotidiana, percepirete lo scorrere dell'esistenza umana attraverso gli occhi di persone diverse, ma tutte legate da un fil rouge tanto sottile, quanto indistruttibile: l'impossibilità di cambiare le cose.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Tira un vento freddo e fastidioso che mi punge la nuca. Colta da un brivido, mi stringo nel mio cappotto beige. Metto sempre lo stesso da tipo tre anni e forse sarebbe il caso di comprarne uno nuovo. Vedremo.
Prima di entrare in chiesa devo proprio fumare una sigaretta. Non riesco a capire il perché, ma stamattina mi sono alzata con la luna storta. Poi ho chiesto a Miranda di preparare il caffè e non ci ha messo nemmeno lo zucchero. Cazzo, sembrava di bere del veleno. Fa proprio schifo il caffè amaro. Frugo nella borsa alla ricerca del pacchetto, perso chissà dove in mezzo alle chiavi ed altre cianfrusaglie. Trovato. Ovviamente stamattina ho fumato l’ultima e l’ho rimesso dentro come una cretina. La sfiga mi perseguita. Devo assolutamente parlare con Suor Pinuccia per quel fatto di Miranda. Ha deciso di lasciare il bambino da qualche parte e non penso proprio che lei mi negherà il suo aiuto, ci sono tanti di quei bambini in convento. Stamattina era distrutta. Sono convinta che sarebbe una madre fantastica, è così gentile e premurosa con tutti. Ma alla fine portarlo dalle suore sarà la scelta migliore, nessuno sa che cosa combinano realmente negli orfanotrofi.
Mi incammino a passo svelto oltre il marciapiede, attraverso la strada a passo ancora più svelto, non c’è anima viva. È piena di buche e crepe da 7-8 mesi - forse un anno - e il Comune non si decide a fare qualcosa. Siamo sempre e costantemente nelle mani di nessuno, in questo schifo di posto non cambia mai niente. Trasferisciti in città, dicevano, lì troverai fortuna. E adesso guarda come mi sono ridotta. Lasciamo stare.
Le chiese emanano un certo fascino, mi sono sempre piaciuti gli edifici antichi. Ho sentito dire – non ricordo dove – che il portone d’ingresso di questa qui è rimasto sempre lo stesso da quando l’hanno costruita. Mai un graffio, né una sbiaditura su ogni singolo centimetro quadrato di questo legno. In passato ci sapevano proprio fare. Salgo i gradini in marmo bianco e supero l’ingresso. L’aria qui è completamente ferma, si sta davvero bene. L’anticamera, così piccola e angusta, mi ha da sempre messo un’ansia inspiegabile addosso. Spingo con forza la porticina sulla destra che si richiude da sola non appena la oltrepasso completamente. Entro spesso qui dentro, ma ogni volta non posso fare a meno di sollevare lo sguardo verso le volte e le arcate superiori. È davvero uno spettacolo sensazionale, con tutti gli affreschi, gli stucchi e le statuine realizzate nei minimi particolari. Lo trovo estremamente affascinante.
Sento dei lamenti indistinti provenire dall’altare centrale. C’è un funerale. Sulla piattaforma in legno, proprio davanti al leggio, una signora – avrà superato da poco la cinquantina – legge su un foglio e farfuglia qualcosa. Mi avvicino alle panchine per sentire meglio. È indubbiamente una bella donna, ma di una bellezza sciupata e poco curata. Tiene i capelli corvini legati morbidi dietro la nuca, lasciando totalmente scoperto un viso allungato e marcato dai primi segni dell’età.
“Paolo… Paolo amava la vita, l’amava tanto. Lavorava ogni giorno e, nonostante conducesse una vita non proprio avventurosa, beh… andava avanti, sempre col sorriso ad illuminargli il volto. Lo voglio ricordare così, sorridente e spensierato, gentile con tutti e mai scortese. Il mio Paolo, quello che conoscevo io, avrebbe detto Dai, si tira avanti come si può, con quella sua aria scherzosa, non avrebbe mai e poi mai pensato di buttarsi da un… s-scusatemi…”.
È scoppiata a piangere all’improvviso. Scende rapida i pochi gradini in compensato e si siede sulla prima panchina, le mani a coprirle il volto. Singhiozza e piange, una ragazza le si stringe accanto per consolarla, probabilmente è la figlia. Dall’altro lato, un uomo se ne sta impassibile, fermo e rigido col volto puntato sulla gigantografia messa proprio davanti all’altare. Era proprio un bel ragazzo questo Paolo. Ho come l’impressione di averlo già visto da qualche parte, la sua faccia non mi è nuova. La vita a volte è davvero ingiusta. Chissà che cosa avrà passato per pensare al suicidio. Ma alla fine non lo biasimo, la vita è la sua. Se vuoi farla finita sei liberissimo di farlo in ogni momento.
La suora. Me ne stavo quasi dimenticando. Passo la mano fra i ricci un po’ crespi e mi alzo, tornando indietro verso l’ingresso. Il vento mi ha scompigliato i capelli che sono già abbastanza incasinati da soli. Dovrei fare un salto dal parrucchiere al più presto, ma dove lo trovo il tempo? Mi addentro nella piccola cappella vicino all’entrata ed esco dalla porta laterale. Il convento è collegato alla chiesa tramite un lungo corridoio ciottolato e costeggiato da un ampio porticato. Dà su un giardino stupendo, in un angolo le suore coltivano persino gli agrumi. Qualche volta, quando capita di passare di qui, mi regalano cesti pieni di arance profumatissime. I bambini giocano spensierati nel cortile, Don Piero ci ha fatto costruire due altalene e uno scivolo. Che schifo di uomo. Sapesse che voci circolano sul suo conto. Questi fantomatici uomini di Chiesa ci devono “dare l’esempio” e poi - guarda caso - sono sempre loro i primi a peccare.
Attraverso il corridoio lentamente, mi piace farmi accarezzare dal calore del sole. È appena spuntato, vincendo la resistenza delle nuvole di un grigio cupo, sembrava dovesse piovere da un momento all’altro. Casualmente, suor Pinuccia è proprio dall’altra parte del corridoio, sta annaffiando con cura i gerani rossi che spuntano vivaci oltre il muretto. La raggiungo, accelerando impercettibilmente il passo. È una donna anziana, bassina, ma con tanta energia ancora in corpo. Sente le scarpe ticchettare sui ciottoli e si volta nella mia direzione, sorridendo con lo sguardo. È come se quegli occhi scuri, a tratti anche un po’ severi, si illuminassero non appena inarca leggermente le labbra. Tutto il suo viso tondo e paffutello, in realtà, prende una piega inaspettata.
“Ciao Francesca! Hai visto come stanno crescendo bene?”. È sempre lei a salutare per prima.
“Sono davvero belli… – biascico poco convinta – Senti, avrei bisogno di una mano”.
La luce che, fino a poco fa, le illuminava il viso, lascia rapidamente spazio alla severità che tanto spesso la contraddistingue.
“Dimmi”. Decisa e lapidaria, la sua voce si è fatta improvvisamente grave, pare quasi seccata. Devo trovare le parole giuste per porle la questione.
“Miranda…ehm…ha combinato un casino. Ha…ecco…ha avuto un bambino, e tu sai bene che non può tenerlo. Insomma, vorrebbe portarlo qui in convento perché…”
“Francesca – mi interrompe bruscamente, posandomi una mano sul braccio nel tentavo di fermare il mio gesticolare frenetico – tu sai bene in che situazione siamo e in quali circostanze si trova Miranda. Capisci che le voci circolano velocemente e io non posso prendere un figlio…sì insomma, hai capito…”.
Il suo tono è concitato, sputa fuori parole su parole senza fermarsi un attimo, voltandosi a destra e a sinistra con circospezione. Lo sapevo, lo sapevo cazzo. Sono tutti uguali.
“Quindi… quindi questo sarebbe un no?”. Che domanda inutile, la risposta è ovvia.
“Francesca, io… io non posso proprio, mi dispiace ma… Francesca! Francesca, aspetta!”.
Mi sono stufata di sentirla parlare, giro i tacchi e torno indietro ad ampie falcate. Voglio uscire di qui immediatamente. Capisci che le voci circolano velocemente. Ma va’ a farti fottere. Come se la mia vita non fosse già abbastanza uno schifo anche senza quelle stupide voci. Mi bruciano gli occhi, sento la testa esplodere. Mi fermo sotto la pensilina ad aspettare il bus, torno a casa. Casa. Chiamarla topaia sarebbe quasi un complimento. Per fortuna arriva dopo pochi secondi, credo sia la prima volta da quando vivo qui. Salgo, sono sola, meglio così. Non ho voglia di vedere nessuno. Il mezzo viaggia veloce fra le strade dissestate del centro, guardo fuori dal vetro distrattamente. Ci sono tanti, troppi negozi. La gente entra ed esce freneticamente con dozzine di buste in mano. Sono tutti indaffarati, sempre di corsa e di cattivo umore. Vedo i loro musi lunghi perfino da qui. Il cappotto. Devo comprarne uno nuovo. Ah, ma chi se ne frega. Tanto non ho i soldi. L’autobus passa vicino alle ville residenziali, svolta rapido a destra verso la periferia, quella scialba e malfamata. Accosta lentamente sulla destra e si aprono i portelloni. Faccio un lungo sbadiglio e scendo con prudenza. Il cassonetto accanto alla fermata e pieno fino all’orlo, c’è spazzatura praticamente ovunque. Che schifo. Ma di che mi sorprendo? Non riparano le buche in pieno centro, figuriamoci dare una pulita ai margini estremi di questa città di merda.
Giro l’angolo ed entro svelta dentro il portone. Sul divanetto in fondo a sinistra, Miranda tiene in braccio il bambino. Stanno dormendo entrambi profondamente. E adesso cosa le dico? Devo prendermi del tempo per pensarci.
“Bellini! - una voce, dall’altro lato del corridoio. La sua voce, rauca e profonda – qualcuno ti sta aspettando alla 120, sbrigati”. Eccoci qua, ci risiamo. Oltrepasso l’ingresso e proseguo per il corridoio, la sola visione di questa schifosa moquette mi fa venire la nausea. Cammino per una decina di metri e mi fermo, voltandomi a sinistra. Un 120 sbiadito campeggia sulla porta color crema, la maniglia è tutta arrugginita.
Non ce la faccio più.
Spingo la porta con forza, entrando in camera. Seduto su un lato del letto, un uomo sulla sessantina mi dà le spalle. La giacca che indossa resiste a stento, forse avrebbe dovuto prenderla di qualche misura più grande. Sotto il suo peso, il materasso quasi sprofonda. Sfilo il cappotto con disgusto, gettandolo a terra. L’uomo mi nota, si volta nella mia direzione osservandomi da cima a fondo con quei suoi occhietti languidi. Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo, vorrei poter tornare indietro. Vorrei poter cambiare le cose per sempre.
Riapro gli occhi.
Poi lui inizia a spogliarsi.
   
 
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