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Autore: Lost In Donbass    10/07/2018    3 recensioni
Tom è un alcolizzato, cinico, apatico, coltiva marijuana e se ne frega del resto.
Bill è uno scrittore, ha subito un crollo psicologico non da poco, cucina torte di mele a raffica e mostra cicatrici che nemmeno lui sa di avere.
Ma se questi due squilibrati si trovassero a dover condividere la casa? In una campagna opprimente e inquietante, tra segreti sepolti in cantina, torte di mele, musica punk, fantasmi non del tutto morti, esperimenti umani, occhiate languide e case-reliquiario, riuscirà Tom a salvare sé stesso e Bill? Oppure sprofonderanno nel baratro dove nessuno li tirerà mai fuori?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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(Scusate se il capitolo arriva solo ora; ho avuto molti problemi seri e difficoltosi da superare quest'anno e non trovavo l'ispirazione per andare avanti, ma ora eccoci qui col nuovo capitolo! Spero che qualcuna di voi voglia ancora leggerlo, un bacio, Charlie)

CAPITOLO CINQUE: COLAZIONE CON SORPRESA


Tom aveva sempre sofferto d’insonnia, non era una novità. Da quando poi era caduto nel vortice dell’alcol, le sue ore di sonno si potevano contare sulle dita di una mano. Semplicemente, passava le notti a guardare le stelle e a cercare la Stella Polare, magari leggendo qualche libro, curando le sue pianticelle di marijuana, con la sua amata musica a palla per non sentire il sordo ronzio della sua mente vuota. Dicevano che ascoltare musica alta aiutava a non sentire il rumore dei propri pensieri. Beh, per Tom era il contrario: gli serviva per colorare quella stanza buia e polverosa che era la sua testa. A volte, invece, usciva per strada e girovagava sino a che le prime luci dell’alba non bagnavano la città. Tom non dormiva, ma ciò non gli pesava: aveva troppa paura di restare solo con i suoi incubi.
Nemmeno nella casa nuova riusciva a chiudere occhio; sdraiato sul suo letto, guardava il soffitto e fantasticava sulle stranezze del suo coinquilino, i The Clash che gli tenevano compagnia nelle orecchie, il sordido retrogusto alcolico che ancora gli bruciava la gola. Bill si era ritirato nella sua stanza oramai da ore, con la sua vestaglia di raso rosa e la sua tazza di tisana bollente e Tom aveva continuato a guardare le stelle, fino a che un noioso pensiero non era andato a intaccare la sua falsa quiete. Ovvero, la cantina alla quale Bill gli aveva categoricamente vietato di accedere – ma come si sa, ai bambini, quando si vieta qualcosa, viene voglia di rompere il divieto. E Tom, indubbiamente, era ancora un bambino dentro di sé. Avrebbe potuto trovare qualche indizio per la sua scapestrata indagine, forse, sepolto nelle fondamenta di quella casa da incubo. O forse avrebbe solamente avuto modo di passare la notte a fare qualcosa di più produttivo che non fosse dormicchiare svogliatamente.
Si alzò silenziosamente, spegnendo la musica e scivolò in corridoio; gli faceva ancora strano quel silenzio notturno, quella pace quasi mistica, esattamente come gli faceva strano camminare in punta di piedi, al buio più totale. Si sentiva un fantasma anche lui, e segretamente si chiese se quello in fondo non fosse che il paradiso. Magari chissà, era andato in coma etilico ed era morto in ambulanza. Dunque, quello era l’altro mondo: effettivamente, tutto avrebbe raggiunto un senso. Il silenzio e la pace divina che in terra non poteva esistere. La casetta oltremodo perfetta. Un angelo suo guardiano. Un’indagine per redimere la sua anima sporca e portarlo in paradiso. Si schiaffeggiò mentalmente da solo quando perse l’equilibrio in fondo alle scale, e per non cadere rovesciò un libro per terra. Lo rimise a posto alla cieca, tendendo l’orecchio: ma sembrava che quando Bill chiudesse la camera da letto, nulla avrebbe più potuto farlo uscire. Si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, sciolti sulle spalle, e zampettò verso la cantina. La casa, di notte, era strana, pensò, mentre tentava di arrivare alla piccola porta sul retro che portava alla cantina. Il silenzio irreale che la avvolgeva pesava sui pesanti mobili di legno e sulle tende scure, creando un’atmosfera soffocante e insalubre, aiutata dai pallidi raggi lunari che illuminavano chiazze di pavimento tirato a lucido. Sembrava l’incubo di un folle: la calma falsa di un inferno che scoppiettava dietro all’apparente teatro di pace, uno spettacolo fallito che aspetta di essere applaudito da spettatori inesistenti, una commedia nera le cui oscure trame si avvolgono e avviluppano attorno a oggetti che un tempo erano normali ma che col passare degli anni si sono tramutati in tetri simulacri di passioni perdute.
Quando posò la mano sulla porta della cantina, non si aspettava di trovarla aperta. Proprio come a dire: vieni, Tom. Vieni e dannati. Era buio pesto, dentro, buio come la sua stessa mente stanca e dolorante – forse, forse non era una buona idea infilarsi là dentro. Avrebbe potuto parlarne con Bill il giorno dopo. Avrebbe potuto tentare di fregarsene e non andare a ficcanasare in posti dove giustamente non erano affari suoi entrare. Avrebbe anche potuto dare un’occhiatina e scappare, però, come un bambino pestifero che disobbedisce alla mamma. Si leccò le labbra, vittima di un’eccitazione che non credeva possibile da provare: l’avrebbe fatto. Si sarebbe infilato nella cantina di nascosto e avrebbe cercato risposte ai quesiti che angustiavano la sua mente stanca. Intanto, cosa poteva andare storto? Nulla, Bill non si sarebbe mai accorto di niente, bastava che non toccasse in giro e non spostasse posizione agli oggetti che avrebbe trovato. Poteva farcela, sì.
Il ragazzo deglutì a vuoto un’ultima volta prima di infiltrarsi nella cantina, scendendo a tentoni le scalette che si inoltravano in buio caldo e avvolgente. Perse quasi l’equilibrio quando arrivò in fondo ai gradini e si resse al muro di pietra vagamente umidiccio. Accese la torcia e la fece girare per la stanza, lentamente; ammetteva a sé stesso di avere molta paura di quello che avrebbe potuto trovare ma quella voglia di indagine e di curiosità non lo lasciava in pace. Si alzò silenziosamente, spegnendo la musica e scivolò in corridoio; gli faceva ancora strano quel silenzio notturno, quella pace quasi mistica, esattamente come gli faceva strano camminare in punta di piedi, al buio più totale. Si sentiva un fantasma anche lui, e segretamente si chiese se quello in fondo non fosse che il paradiso. Magari chissà, era andato in coma etilico ed era morto in ambulanza. Dunque, quello era l’altro mondo: effettivamente, tutto avrebbe raggiunto un senso. Il silenzio e la pace divina che in terra non poteva esistere. La casetta oltremodo perfetta. Un angelo suo guardiano. Un’indagine per redimere la sua anima sporca e portarlo in paradiso. Si schiaffeggiò mentalmente da solo quando perse l’equilibrio in fondo alle scale, e per non cadere rovesciò un libro per terra. Lo rimise a posto alla cieca, tendendo l’orecchio: ma sembrava che quando Bill chiudesse la camera da letto, nulla avrebbe più potuto farlo uscire. Si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, sciolti sulle spalle, e zampettò verso la cantina. La casa, di notte, era strana, pensò, mentre tentava di arrivare alla piccola porta sul retro che portava alla cantina. Il silenzio irreale che la avvolgeva pesava sui pesanti mobili di legno e sulle tende scure, creando un’atmosfera soffocante e insalubre, aiutata dai pallidi raggi lunari che illuminavano chiazze di pavimento tirato a lucido. Sembrava l’incubo di un folle: la calma falsa di un inferno che scoppiettava dietro all’apparente teatro di pace, uno spettacolo fallito che aspetta di essere applaudito da spettatori inesistenti, una commedia nera le cui oscure trame si avvolgono e avviluppano attorno a oggetti che un tempo erano normali ma che col passare degli anni si sono tramutati in tetri simulacri di passioni perdute.
Quando posò la mano sulla porta della cantina, non si aspettava di trovarla aperta. Proprio come a dire: vieni, Tom. Vieni e dannati. Era buio pesto, dentro, buio come la sua stessa mente stanca e dolorante – forse, forse non era una buona idea infilarsi là dentro. Avrebbe potuto parlarne con Bill il giorno dopo. Avrebbe potuto tentare di fregarsene e non andare a ficcanasare in posti dove giustamente non erano affari suoi entrare. Avrebbe anche potuto dare un’occhiatina e scappare, però, come un bambino pestifero che disobbedisce alla mamma. Si leccò le labbra, vittima di un’eccitazione che non credeva possibile da provare: l’avrebbe fatto. Si sarebbe infilato nella cantina di nascosto e avrebbe cercato risposte ai quesiti che angustiavano la sua mente stanca. Intanto, cosa poteva andare storto? Nulla, Bill non si sarebbe mai accorto di niente, bastava che non toccasse in giro e non spostasse posizione agli oggetti che avrebbe trovato. Poteva farcela, sì.
Il ragazzo deglutì a vuoto un’ultima volta prima di infiltrarsi nella cantina, scendendo a tentoni le scalette che si inoltravano in buio caldo e avvolgente. Perse quasi l’equilibrio quando arrivò in fondo ai gradini e si resse al muro di pietra vagamente umidiccio. Accese la torcia e la fece girare per la stanza, lentamente; ammetteva a sé stesso di avere molta paura di quello che avrebbe potuto trovare ma quella voglia di indagine e di curiosità non lo lasciava in pace.
La cantina era molto più grande di quanto si aspettasse, e le pareti erano tappezzate da grosse librerie di legno massiccio. Qualche sparuta lampadina penzolava dal soffitto e si chiese come mai fosse tutto così disordinato quando invece la casa era praticamente intonsa. Soffocò uno colpo di tosse e mosse qualche passo incerto nell’oscurità, lasciando correre lo sguardo sui tomi che riempivano ogni angolo. Molti erano libri di medicina, di psichiatria, di anatomia umana e cose strane e difficili che Tom non capiva assolutamente, ma in mezzo a tutti i libri c’erano anche tantissimi faldoni accuratamente numerati e un po’ impolverati. Sapeva che probabilmente la cosa più saggia da fare sarebbe stata tornare a dormire, ma di nuovo l’impeto di curiosità lo vinse e lo costrinse ad allungare una mano sino a prendere uno dei faldoni. Deglutì a vuoto, un po’ spaventato e a fatica lo estrasse dal ripiano. Una nuvola di polvere si sparse tutt’attorno e di nuovo dovette trattenersi dallo starnutire rumorosamente. Tirando su col naso, si lasciò cadere per terra, sul pavimento di pietra freddo e puntò la torcia sul faldone: sulla targhetta, una serie di numeri e, in fondo, una firma scritta in bella calligrafia “Hansi Spiegelmann”. Era il nome del marito di Bill, registrò Tom, grattandosi il retro del collo, ancora più incuriosito. Aprì il faldone, facendo attenzione a non lasciar cadere nessuno dei foglietti, dei post-it, delle fotografie che vi erano infilate dentro e lanciò qualche scorsa alle pagine. Erano tutte fittamente scritte con inchiostro da pennino con quella calligrafia svolazzante e pomposa, intervallate da alcuni schemi e disegni fatti a mano, estremamente precisi e accurati. Tom aguzzò la vista, scorrendo rapidamente pagine e pagine dove regnavano sovrani quelli che lui poteva presumere essere appunti di medicina, che lui non capiva assolutamente, ma si rese chiaramente conto di una cosa. C’erano consistenti parti scritte in polacco. Si chiese come mai cambiare così repentinamente dal tedesco a quella lingua un po’ di nicchia e segretamente si congratulò con sé stesso: perché lui il polacco lo sapeva, eccome se lo sapeva. Non riusciva davvero a ricordare perché si fosse messo a studiarlo così accuratamente quando era adolescente, ma in quel caso, gli sarebbe venuto più che utile. Si sfregò gli occhi arrossati e cominciò a leggere distrattamente qualche parte, le didascalie dei disegni, gli elenchi di numeri, saltando da una parte all’altra e presto un’altra cosa gli si fece chiara in mente: le parti in tedesco erano tutti appunti comprensibilissimi per un medico, parlavano di vari pazienti, di cure, di anedotti e note prese durante i convegni mentre le parti in polacco erano di tono radicalmente diverso. Erano più accurate ancora, ma altresì piene di punti interrogativi, strani schemi, numeri e tutte contrassegnate da quello che pareva un unico soggetto chiamato “Paziente X”. Tom si chiese chi fosse il famoso Paziente X e perché c’era bisogno di contrassegnarlo così, mentre tutti gli altri avevano nome e cognome. Chi era? E come mai aveva quel posto prioritario negli appunti dello psichiatra?  Ma soprattutto, perché scriverli in polacco? Cosa c’era di così strano da dover essere tenuto nascosto? Tom si grattò una guancia, incerto, e continuò a leggere stralci degli appunti, aggrottando sempre di più le sopracciglia. Più si andava avanti, più c’erano annotazioni incomprensibili di date e quantità, come fosse un diario da aggiornare periodicamente.
… il Paziente X ha reagito piuttosto bene alla somministrazione del KPD: mi chiedo se aumentando le dosi a due pastiglie al giorno si otterrebbero più rapidamente gli effetti desiderati – devo indagare.”
“… il Paziente X ha oramai smesso di mangiare da tre giorni e, insieme, è in uno stato catalettico che mi preoccupa oltremodo. Sono convinto che la colpa è da attribuire tutta a quel nuovo farmaco: dannazione, non sta andando secondo i piani. Dovrò ricorrere a metodi molto più invasivi per farlo riprendere, e devo anche chiamare Klaus. Non sia mai che il nuovo farmaco finisca in mani sbagliate”
“… grazie al cielo, il Paziente X non ha accusato affatto i possibili effetti collaterali del PFH, anzi, ha reagito divinamente: non l’ho mai visto così sveglio e reattivo. Potremmo introdurla come nuovo eccitante alternativo? Direi che per ora gli esperimenti sul PFH sono conclusi – ho paura che una somministrazione troppo elevata possa nuocere al cuore del Paziente X. Non sia mai”
Tom strabuzzò gli occhi sempre di più a mano a mano che leggeva quelle note inquietanti e fuori dal mondo. Quello era il diario di un pazzo, era qualcosa di completamente fuori dal mondo … non riusciva a capire nemmeno una riga di quello che vi era scritto. Si grattò la testa, incerto sul da farsi. Avrebbe dovuto contattare Georg, fargli sapere cosa aveva trovato, forse costringerlo a riaprire l’indagine … ma per cosa? Solo perché aveva la mente troppo eccitabile? Per far passare il tempo? Oppure perché davvero voleva aiutare Bill?
Tom non lo sapeva, ma qualcosa dentro di lui gli stava suggerendo di andare in fondo a quella storia per un bene superiore. Bene che non riusciva ancora a visualizzare ma che sicuramente avrebbe portato a qualcosa di buono. Pensò per un attimo a  Bill, ai suoi strani occhi malati, ai suoi modi affettuosi e ai segreti che nascondeva in piena vista in casa, e automaticamente sorrise. Meritava sicuramente una piccola indagine esattamente come il suo strano marito. Chissà se Bill fosse a conoscenza dell’esistenza di quelle assurdità nel suo seminterrato … sì, Tom era decisamente perplesso. Ma si sarebbe messo d’impegno a cercare delle risposte alle sue incessanti domande: se lo costringevano a vivere, che almeno potesse farlo come meglio credeva.
Chiuse il faldone e lo mise a posto, prendendone un altro da uno scaffale più in basso. Portava una data più recente ma era ugualmente impolverato; dentro, la stessa solfa. Appunti e schemi mezzi in tedesco e mezzi in polacco, e di nuovo l’apparizione del Paziente X, che pareva essere intollerante all’Azul43B ma perfettamente idoneo alla somministrazione di J8LP, nomi che al giovane non dicevano niente e che, anzi, inquietavano. Lo mise a posto, e ne prese un terzo, questa volta dallo scaffale più alto e mentre lo sfogliava, sentì scivolare per terra una fotografia. La raccolse, illuminandola con la torcia, e suo malgrado si ritrovò a sorridere. Era una vecchia foto sgualcita di un Bill di dieci anni più giovane, i capelli neri sparati dappertutto, il trucco pesante e un’adorabile sorriso infantile. Tom sorrise, scrutando quei grandi occhi scuri così espressivi e innocenti; sembrava stesse molto meglio di come lo vedeva adesso, meno malaticcio, meno sofferente.
Rimise a posto la foto nel faldone e scorse ancora quelle assurde notazioni, per poi rimetterlo lentamente al suo posto e far girare oziosamente la torcia lungo il perimetro della stanza. Oltre agli scaffali pareva vuota, se non fosse stato per delle casse sul fondo. Tom si avvicinò circospetto, osservando curiosamente quelle lunghe casse basse di metallo; nonostante provò a forzarne l’apertura, nessuna si aprì, lasciandogli un leggero amaro in gola. Era selvaggiamente curioso di sapere cosa si nascondesse in quelle scatole. Controllò rapidamente se ci fosse qualche buco, ma sembrava che le casse fossero chiuse ermeticamente da tutti i lati; sbuffò, ma si ripromise di tornare giù la notte dopo attrezzato per aprirle. Oramai la curiosità aveva preso il sopravvento, e tutti sapevano che un Tom curioso era davvero ingestibile. Sbuffò, passandosi una mano tra i lunghi capelli e si rialzò, avviandosi nuovamente verso l’uscita. Mentre saliva le strette scale che portavano in casa fu preso da una strana angoscia: non riusciva a darsi pace per quello che poteva nascondersi dietro l’apparente perfezione di Bill, della casa e di Hansi.
-Cosa mi nascondi, Hansi?- sussurrò alla grossa fotografia sul caminetto, una volta sbucato nuovamente in salotto e dopo essersi preoccupato di chiudere la porta e di lasciarla esattamente come l’aveva trovata. – Cosa mi nascondi?
Lo ripeté, più a sè stesso che alla foto, mordicchiandosi nervosamente l’anellino al labbro. Gli sembrò quasi di ricevere un sorriso diabolico da quell’immagine del matrimonio, apparentemente gioiosa e sussultò. Era … inquietante. Tutto quello che c’era in casa lo era, che fossero quelle foto appese dappertutto, quei faldoni nascosti nel sottoscala, quelle torte di mele, e persino lo stesso Bill con le sue vestaglie rosa di mussola e il suo sorriso storto. Passò un dito sulla superficie di vetro e di nuovo gli parve che il viso perfetto di Hansi si piegasse in un riso crudele, come a prenderlo in giro, a sfidarlo nel scoprire i suoi segreti
-Stai certo che scoprirò tutto quello che c’è da scoprire.- disse Tom, a denti stretti, guardando con aria di sfida dritto negli occhi celesti del suo nuovo nemico. Non si sentiva pazzo a parlare con un fantasma, non gli importava più niente. Aveva combattuto battaglie più aspre, aveva messo in gioco molto di più che un paio di notti insonni. Poteva non avere più voglia di vivere, ma c’era quell’ultimo appiglio di amor proprio che lo spingeva a contrattaccare se stimolato. E quello, per Tom, era una vera e propria lotta nella quale doveva uscire vincitore. Lottava contro un morto, dannazione, non poteva lasciarlo vincere. A meno che in realtà non fosse morto anche lui, e allora, beh, allora era tutta un’altra storia.
 
-Ti vedo strano, oggi. Sicuro di stare bene?- Bill gli stava sorridendo mentre serviva il the.
Era una bella domenica mattina, e i due erano seduti in giardino a fare colazione, guardando i fiori ondeggiare alla brezza fresca della pianura e le nuvole candide rincorrersi nel cielo di smalto azzurro.
-Uh? Sì, sì sto bene. Ero solo soprapensiero.- Tom sorrise, scostandosi i capelli dal viso. Era ancora impegnato a ripensare alla notte precedente che quasi non aveva nemmeno rivolto la parola al suo coinquilino.
Coinquilino che, in quel momento, gli stava servendo una fetta di torta di mele condita con panna e crema, il solito sorriso triste sulle labbra.
-E’ successo qualcosa di brutto?
Bill si sedette accanto a lui, sistemandosi la vestaglia rosa, picchiettado distrattamente la tazza di porcellana.
-Oh, no, affatto. Bill, mi stavo chiedendo … parli polacco?- Tom la buttò lì così, senza impegno, guardando le reazioni dell’altro con estrema attenzione.
Nessuna reazione. Solo occhi stupefatti e smorfia dubbiosa.
-No, io e le lingue proprio siamo su due pianeti diversi, non so nemmeno una parola di inglese, figurati di polacco.- Bill rise, gettando indietro la testa e Tom non poté fare a meno di pensare che, dannazione, era davvero troppo bello. – Perché?
-Ah … ehm, no, curiosità. Magdeburgo è vicino al confine, così … mera curiosità.
Tom tentò per un sorriso convincente, anche se sapeva da solo che non era un gran mentitore. Bene, un indizio in più: se Bill non capiva, come mai scrivere gli appunti dei Paziente X in quella lingua? Cosa c’era da tenere nascosto? Il ragazzo si grattò il collo, dubbioso. Doveva per forza esserci un motivo per nascondere al biondo i dettagli del Paziente X, ma non riusciva a comprenderlo. Come avrebbe potuto reagire Bill se avesse compreso il significato di quella parte di diario?
-Oh, peccato.- Bill si passò una mano tra i capelli platinati, piegando la testa – Speravo mi dicessi di andare a fare una gita insieme in Polonia. Mi sarebbe tanto piaciuto andarci, ma Hansi era sempre impegnato e non aveva tempo da dedicare ai miei capricci. Figurati che non siamo nemmeno andati in viaggio di nozze. Cioè, mi ha portato a Miami con lui per un congresso internazionale di neurologia, ma non me la sento di considerarla una luna di miele, ero sempre solo.
-Mi dispiace, Bill.- Tom arrossì senza volerlo, e gli posò una mano sul braccio con intento comprensivo. Voleva andare in Polonia con lui. Assurdo, contando che Tom non era mai andato in vacanza con nessuno, a parte giusto una settimana in Francia con Georg e Gustav dieci anni prima dove si era ubriacato ed era quasi andato in come etilico. Brutti ricordi, decisamente.
Eppure … era strano. Bill che sfarfallava gli occhioni scuri e che gli chiedeva una cosa simile così schiettamente era qualcosa di incredibile per uno come Tom. Non sapeva nemmeno come comportarsi di fronte a una richiesta del genere. Avrebbe dovuto forse dirgli che sì, l’avrebbe portato in Polonia, avrebbero fatto una gita in moto, ma non lo disse. Si limitò a farfugliare qualcosa, affondando il viso nella tazza di the e si rese conto di essere arrossito.
-Chissà, magari un giorno ci andrò lo stesso in Polonia.- Bill sorrise, battendo le lunghe mani inanellate e curate. – Cosa ne dici, Tom?
Ecco. Ora doveva per forza rispondere. Il ragazzo alzò lo sguardo, mordicchiandosi nervosamente l’anellino al labbro, cercando nelle peonie una risposta.
-Aehm, certo.- borbottò poi, cercando di sembrare il più serio possibile – Magari, un giorno …
-Potremmo prendere il treno, cosa ne dici?- insisté Bill, sorridendo come un bambino – O se vuoi, prendiamo la moto. Sarebbe così divertente!
Come no, pensò Tom. Esilarante, proprio. Ma non poteva fare a meno di trovare adorabile l’espressione sognante del biondo e il suo sorriso innocente che gli illuminava il viso ricoperto di piercing e trucco. Chissà, magari avrebbe anche potuto fare uno sforzo e andare con lui in Polonia, forse ci si poteva infilare uno strappo alla regola e bere finalmente qualcosa di alcolico.
-Sì, Bill. Va bene.- sorrise a sua volta, e fece per alzarsi quando Bill gli saltò letteralmente al collo, facendogli perdere l’equilibrio.
-Grazie, Tom!
Per quanto leggero, la spinta del ragazzo e del suo incontenibile entusiasmo li fece ruzzolare per terra, sul praticello perfettamente curato. Rotolarono un pochino per terra e quando si ritrovarono abbracciati uno all’altro sotto all’infinito cielo tedesco, Tom pensò che sicuramente doveva essere un segno divino. Non finivi abbracciato a un assurdo essere biondo con gli occhi malati in una mattina estiva solo per caso. E non finivi a rimanere immobile a fissarlo nella profondità dei suoi grandi occhi, come se ci dovessi trovare la risposta ai tuoi problemi. E non non finivi a trovare il suo profumo di vaniglia, mele e perfezione assolutamente inebriante.
Tom non si capacitava nemmeno di come potessero essere rimasti lì immobili, uno sopra all’altro, a guardarsi in faccia senza alzarsi, muoversi o nemmeno respirare, ma sapeva che non avrebbe dovuto fare nulla. Sentiva, dentro di sé, che quell’immobilità era qualcosa di giusto, di positivo, di perfetto per quella situazione quasi paradossale. Sì, perfetto. Almeno finché Bill non gli stampò un bacio direttamente sulle labbra.
  
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