13.
Nei giorni che seguirono l’alterco
con Piton, Harry ebbe modo di conoscere una parte di
sé che gli era sinora rimasta sconosciuta, di cui forse il giovane aveva
intuito l’esistenza, ma che non si era mai manifestata. Alla brusca, forte,
sicura fine che il Pozionista aveva posto alla loro
relazione, Harry reagì con la mestizia. Non era ancora sceso a patti
coll’essere diventato qualcosa d’altro dal Bambino che è Sopravvissuto: se ne
rese conto ora, stupendosi quando la proverbiale rabbia che avrebbe provato da
ragazzo non arrivò, lasciandolo vuoto, a trascinarsi sovrappensiero tra casa e
ufficio. Anche Ron e Hermione si accorsero del
cambiamento nel suo umore: Harry sembrava una grossa macchia lavata male, un
alone di vino rosso rimasto sulla tovaglia della festa. E metteva anima e corpo
nelle sue attività quotidiane, come sempre, restando però nella sua bolla,
quella da cui, quando qualcuno gli rivolgeva la parola, lui faceva capolino con
occhi grandi e chiedeva di ripetere. Così i due giovani sposi decisero, il
weekend successivo, di planare come falchi nel piccolo appartamento londinese
che era la tana dell’Auror, armati di vino elfico e
ben poco preavviso. Quando Harry aprì la porta, infatti, lo trovarono
scarmigliato, gli occhiali storti sul naso, una t-shirt consunta e macchiata e
un’espressione mista tra una faccia da funerale e una maschera di perenne
sorpresa imbelle.
«Scusate, la casa è un casino…» disse subito, ma li fece entrare: a terra erano
mollate scompostamente le sue scarpe, accanto ad un sacchetto da cui si era
dimenticato di togliere un sacchetto di pane del Tesco*
e il companatico – una giara di salsicce tedesche estremamente pallide.
«Ma va, non preoccuparti» rispose Hermione con un sorriso, ma Ron si piazzò davanti al
proprio migliore amico e lo afferrò virilmente per le spalle.
«Mi stai spaventando, amico»
Hermione se n’era andata direttamente in
cucina, da cui arrivò lo scatto metallico dell’interruttore della luce. Il vago
pallore della lampadina dal vano poco distante si rifletté sul viso di Ron,
colorandolo di toni cupi.
«Ma no, Ron, sono solo un po’ sbattuto…» rispose neutro Harry. Le mani di Ron, grandi e
lunghe, gli bruciavano sulla pelle.
«Tanto lo sai che non ce ne andiamo
finché non ci dici tutto» disse risoluto il giovane, lasciando andare l’amico,
e raggiungendo Hermione in cucina. Harry sospirò, si
guardò attorno come alla ricerca di un rifugio, ma poi si rassegnò e lo seguì.
Le doti culinarie di Hermione non erano particolarmente spumeggianti – era
bravissima a fare dolci, con la sua perizia zelante da Pozionista,
ma la mancanza di allenamento e di fantasia si faceva sentire in ognuna delle
sue pietanze. Finirono così a mangiare le orride salsicce del Tesco con un contorno di fagiolini, che Harry non ricordava
di avere nel frigo, e i due coniugi cercarono alacremente di inoculare in Harry
una scintilla di verve, ma senza riuscirci.
«Oh Harry ora basta» sbuffò infine Hermione, dal nulla, facendo sobbalzare entrambi gli
uomini. Stringeva in mano il bicchiere di vino elfico, affossato nel grembo, e
se ne stava appollaiata sulla sedia con i tacchi incastrati nel piolo, le
ginocchia vicine al petto. «Dicci che diamine è successo»
Ron, che finora aveva parlato di Quidditch senza raccogliere particolare entusiasmo
dall’amico, annuì una volta, preparandosi ad ascoltare. Sembrava ancora più
preoccupato.
Harry sospirò.
«E va bene» disse, «però sentite,
non partite in quarta, state zitti e ascoltate»
«…lo sapevo…» mormorò Ron distrattamente, chinando la testa
lievemente verso Hermione, ma Harry lo ignorò.
«Ho avuto un…
uno scambio di idee con Piton» disse sbrigativamente
Harry. Guardò i suoi amici come mettendo una fine al discorso, ma gli occhietti
malvagi di Hermione lo invitarono ad andare avanti.
Era spaventosa, a volte, una minuscola Molly dalle guance meno rubizze e i
capelli più leonini.
«E mi ha… credo… piantato» aggiunse quindi Harry. Ron alzò la testa
fiera con un guizzo.
«Quel viscido schifos-!»
iniziò a dire, ma sia Harry che Hermione gli
parlarono addosso.
«E tu è così che non parti in quarta?» esclamò Harry.
«Cosa diavolo ci voleva a dirlo ai
tuoi migliori amici?» esclamò Hermione.
La cucina cadde in un silenzio
sepolcrale. I tre si guardavano a vicenda come iene radunate attorno ad una
preda: infine fu Hermione a sospirare, allungandosi a
sfiorare la mano di Harry.
«Dai, dicci tutto» mormorò. «Non è
bello vederti così»
Quando Harry ebbe raccontato, dopo
che Ron si fece rosso rosso nel trattenere i commenti
e Hermione ebbe scosso un paio di volte la testa
pensando a quanto stupidi fossero gli uomini, i tre restarono per un po’ zitti.
I piatti sporchi erano immobili davanti a loro, i bicchieri vuoti, e anche
dalla strada salivano pochissimi suoni. Non si erano accorti che aveva
ricominciato a nevicare: quello che li attendeva sarebbe stato uno degli
inverni più nevosi degli ultimi dieci anni.
«Insomma, te lo potevi largamente
risparmiare» commentò Hermione. «Ma dovresti anche
essere contento della sua reazione, no? Non avrebbe mai iniziato una relazione
con uno studente»
Ron fece una smorfia, immaginandosi
la prospettiva di una relazione tra un giovane Harry e Piton,
ma tacque.
«Certo, certo» annuì mollemente
Harry. «Molto cavalleresco, molto onesto e molto bello. Ma mi ha comunque
piantato, quindi sono stato un cretino»
«E che ci voleva a far finta di
niente?» chiese allora Ron, «Sai quante volte io faccio il cretino? Hermione mi urla contro, a volte mi affattura, poi le porto
un mazzo di fiori e dopo una settimana torna a parlarmi»
Hermione alzò un sopracciglio.
«Ma se hai capito che i fiori non
risolvono niente, perché continui a portarmeli?» chiese. Harry accennò un
sorriso.
«Aiutano, tu non lo sai, ma
inconsciamente ti preparano al perdono» rispose saggiamente Ron. Guardò Harry
con aspettativa.
«Non è il tipo da mazzo di rose,
temo» disse lui, rispondendo alla domanda silenziosa.
Hermione tossicchiò.
«Beh, Harry, non so come dirlo, ma
devi comunque rivederlo» mormorò. Le sue gote si erano tinte di un lieve tono
pescato.
Ron si grattò la testa, sulle spine.
«Cosa state nascondendo voi due?»
chiese Harry, allarmato.
«Ma niente» rispose la giovane
Ministra**, «è che Ron mi ha detto che stavi pensando di mettere sotto
sorveglianza Piton e così…»
Harry rivolse un lungo sguardo vacuo
a Ron. Lui alzò le spalle.
«Dopo quello che mi hai detto alla
Testa di Porco… » disse.
«Mi sembrava fossimo giunti alla
conclusione che era un’idea idiota» boccheggiò Harry, sinceramente stupito. Ron
abbassò la testa, le punte delle orecchie scarlatte.
«Quando mi è passato a prendere,
quella sera, Ron era pieno di pensieri su questa cosa» intervenne Hermione, «Non voleva dirmi cos’era successo, finché prima
di addormentarsi non ce l’ha fatta più. Era preoccupato, non per Piton, ma per te»
«Ti ho visto davvero in apprensione»
soggiunse piano Ron.
«Quindi è colpa mia, ho avviato io
le pratiche, ma se vuoi possiamo finirla qui, Harry» continuò Hermione. «Pensavo solo che ti avrebbe dato più serenità
avere quei sigilli. E non mi costava nulla richiederli…»
Harry annuì lentamente, sentendosi
ancora più stupido. Osservò i suoi due migliori amici con deferenza, come un
cucciolo che si aspetti una sgridata, ma anche loro gli rivolsero la stessa
occhiata: come un liquido tiepido nello stomaco, tutto l’amore del mondo lo
riempì, e come sempre la vita tendeva a ricordargli, rivide i profondi segni
che li avrebbero sempre tenuti uniti con affetto, stima e cura reciproci.
«Siete i miei angeli custodi»
sorrise allora Harry, ricevendo un’occhiata confusa da Ron e un sorriso caldo
da Hermione. La giovane donna si alzò e andò ad
abbracciarlo e Ron, intuendo che Harry li aveva appena complimentati, la seguì,
sigillando la loro stretta tripartita dall’alto del suo metro e novantacinque.
«Ma perché sei qui, Inga?»
Guriy non aveva mai posto quella domanda
a nessuno dei suoi detenuti. Certo, era da poco che lavorava alla prigione
senza nome di Shemeli, e Inga
era quella con cui parlava di più ogni giorno, ma non gli era mai balenato in
testa di farlo, anzi si era molte volte ripetuto, durante il primo periodo di
lavoro, di non farsi mai i fatti dei prigionieri così da non lasciare che loro
si facessero i fatti suoi. Ma ora invece se ne stava seduto davanti alla cella
di lei, e per un attimo una vocina in testa gli chiese che diamine stesse
facendo, ma gli occhi di Inga zittirono in un momento
quel rimorso e il suo sorriso riportò tutta la sua attenzione su di lei.
«Non penso mi crederesti se te lo
dicessi» rispose.
Le guardie di Shemeli
non sapevano nulla dei loro carcerati: certo, Nazar
la sapeva lunga sul conto di certuni di loro, perché quella era ormai la sua
seconda casa, e così anche Guriy sapeva di che colpe
si erano macchiati alcuni dei residenti del grigio edificio gelido che sorgeva
sulla collina più alta della cittadina, che i Babbani
avevano imparato a chiamare il Vecchio Castello. Ma per il resto era tutto un
punto interrogativo, soprattutto circa quelli di cui la stampa non aveva
parlato. Naturalmente dei più pericolosi maghi oscuri Guriy
aveva sentito parlare: come di quello che si faceva chiamare Holaus, che stava dormendo a pochi passi da loro, che aveva
sterminato un’intera linea genealogica dopo che il suo amore incestuoso non era
stato ricambiato dalla più giovane nipote. Ma di Inga
niente, non sapeva nulla: forse perché lui, la stampa estera, non la leggeva. E
per estera intendeva anche il gazzettino di Kaboshi,
che stava a pochi chilometri da lì, figurarsi i giornali nazionali. E poi era
meglio, per lui, così: aveva la possibilità di sapere dalle labbra degli
interessati, se voleva.
«Dai, che motivo avrei di non
crederti?» la spronò gentilmente.
Inga si guardò le mani.
«Perché non so se sai quali crimini
terribili possa compiere uno scricciolo di ragazza come me» disse piano, la
voce incrinata. Guriy aggrottò la fronte: sentiva
l’impulso di abbracciarla, di scacciare via il suo dolore, di cullarla. La
osservò. E di baciarla, forse. Era una perla incastrata nel petrolio, lì, nel
buio di quelle celle…
Senza rendersene conto, quest’ultimo
pensiero scivolò via dalle labbra del ragazzo. Divenne rosso in viso,
borbottando, ma Inga gli sorrise luminosa.
«Nessuno mi ha mai detto una cosa
tanto carina» disse. Sembrava essersi tirata su di morale.
Guriy fece una smorfia.
«Non ci credo» disse, e i loro
sguardi restarono per un po’ incastrati tra loro. Poi Inga
abbassò la testa.
«I miei genitori mi volevano un gran
bene» sussurrò. «Mi hanno istruita a casa, da sola, dopo che il mio fratellino
morì. Ero felice. Non mi era mai venuto in mente che non avere la possibilità
di farsi degli amici, di giocare con gli altri bambini, di andare a scuola
potessero essere segni di una tale gelosia. Ma un giorno compii vent’anni e,
sulla strada per il pozzo, incontrai il mio unico vero amore. Ci vedevamo là
ogni settimana: mi chiese di essere la sua sposa. Così, stupida e ingenua, lo
portai da loro. Erano ostili, refrattari, ma io avevo fiori incastrati sulle
palpebre. Acconsentirono alla nostra unione e non capii finché, una settimana
esatta dopo, il corpo del mio unico grande amore fu trovato riverso nel nostro
pozzo. Era forte, pieno di gioia, ma dissero che si era suicidato»
A quel punto in Guriy
l’istinto di prenderla a sé era diventato ardente come un tizzone. Gli occhi di
Inga erano pozze di vuoto, fredde e secche – occhi di
chi aveva già pianto via la propria anima. Le sue dita stritolavano
dolorosamente il bordo della casacca, come cercando di farla a pezzi.
«Impazzii. Si trovarono legati al
letto, una notte, e urlavano pietà quando li torturavo. Mi avevano tolto
l’unico uomo che potesse amare una reietta come me. Morirono di stenti.
Impazzita, vagai per giorni nella campagna, a chilometri e chilometri da qui.
Mi trovarono che mangiavo bestie per sopravvivere. Scoprirono tutto e mi
giudicarono troppo pazza, troppo pericolosa per poter finire in nessun posto
che non fosse questa cella»
Il racconto di Inga
cadde nel vuoto, lasciando lei in attesa, lui a bocca aperta. Rimasero in
silenzio a lungo, tanto che alle orecchie di Guriy
tornarono i rumori della prigione, i sussurri, i movimenti, i respiri. Si
sentiva tornare a galla come una boa, di nuovo all’aria aperta dopo l’abisso.
Ma sentiva su di sé un paio di occhi pieni di terrore e le parole che seguirono
cementificarono alla realtà i suoi pensieri.
«Non mi parlerai mai più, non è
vero?»
«Ma no» sussurrò il ragazzo. Tornò a
guardare le mani di Inga: avrebbe voluto stringerle tra
le sue, farle sentire il proprio calore, portarla in un posto in cui tutto quel
dolore non sarebbe mai tornato.
«Sapevo di dovermi aspettare una
storia triste. E immaginavo che una creatura come te non fosse capace di alcun
male se non costretta da gente cattiva»
Inga lo ringraziò con gli occhi, mesta,
e accennò un sorriso spezzato.
«Ho un gran mal di testa» sussurrò a
mo’ di saluto. Guriy si scosse di dosso la polvere di
favola che gli si era sedimentata con la storia di Inga:
si alzò.
«Riposa, allora» disse piano. Le
sorrise con forza. «Io non ti giudico, Inga, nessuno
qui dentro è un mostro»
La strega parve illuminata da quelle
parole: lo guardò intensamente, riscattata, e arrossì lievemente. Poi, senza
aggiungere altro, si alzò, andò alla branda e lo salutò con la mano.
Quando Guriy
smontò, dieci minuti dopo, e lasciò Nazar alla
prigione, si sentiva diverso. Il freddo pungente che aleggiava sulla collina
gli morse violentemente il viso e le mani, ancora nude. Si ficcò i guanti con
foga, poi si guardò attorno: la cittadina, una chiazza beige nell’atmosfera
grigia, lo osservava da sotto ai suoi piedi. Avrebbe dovuto camminare
cinquecento metri per Smaterializzarsi e tornare a casa, ma avrebbe atteso un
poco. Una fiammella, tenera di fuoco primigenio, gli si era accesa nel cuore,
piena di pietà. Era la pietà per Inga, che era troppo
bella per quella prigione, troppo giusta per scontare i peccati degli uomini,
troppo preziosa per marcire come una rosa abbandonata in un vaso. Il giovane
guardiano della prigione di Shemeli si voltò a
guardare la bocca oscura che era il portone ferrato dell’edificio:
«A domani, mia amata Inga» sussurrò, prima di mettersi lentamente in cammino.
*Tesco: una delle principali catene di
supermercati britannici.
** il dubbio amletico sul femminile delle cariche istituzionali me lo ha risolto l’Accademia della Crusca, che ha diramato il comunicato che, con parole quali “ministro”, “assessore”, “deputato”, è bene comportarsi come con qualsiasi altro sostantivo che indichi figure professionali. Fonte: http://www.accademiadellacrusca.it/en/press-releases/crusca-risponde-ministro-ministra