Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: alessandroago_94    16/07/2018    13 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo nove

CAPITOLO NOVE

 

 

 

 

 

 

 

 

Trascorsi delle ore molto concitate. Non riuscivo a levarmi di dosso i miei problemi, anche se ormai era tutto finito, e quella volta pareva per sempre.

Avevo raccontato l’evoluzione improvvisa della vicenda a mia madre, e poi anche a Irene, e non avevo neanche mangiato nulla. Non avevo pianto, ma finito il momento più concitato ero come collassata nel mio solito limbo d’inerzia, che mi travolgeva quando ero stanca e sfinita. Ed era solo metà giornata.

Non avevo idea di come avrei fatto a sopravvivere al resto del duro pomeriggio.

“Faccio uno squillo alla signora Virginia e l’avviso che non stai bene, così ti sostituisce”, mi propose mia madre, calma, quando mi ritrovò distesa sul letto in quello stato di sfacelo totale che mi pietrificava. Immaginavo i miei occhi socchiusi, con tristezza e malinconia, e il mio viso arrossato riflesso in uno specchio.

Che misero spettacolo per chi mi stava guardando. Per fortuna che era la mamma.

“No, mi arrangio. Ci vado, è l’unico modo per distrarmi”, le dissi, ma solo un attimo prima che provasse a telefonare.

Ero di sasso. E il lavoro era il mio unico escamotage che mi poteva permettere di essere assorbita in qualcosa che non fossero i miei inutili pensieri. Inutili davvero, siccome ormai era andato tutto all’aria, anche ogni forma di civile dibattito. E sentivo che, in fondo, era anche e soprattutto colpa mia.

Per non impazzire, me ne andai con qualche minuto d’anticipo da casa, e mi presentai giusto in tempo per recuperare i dieci minuti che avevo perso quella mattina; era giusto così, e anche se la signora Virginia aveva detto di non preoccuparmi, ero una ragazza molto ligia e rigida e non volevo assolutamente lasciare qualcosa in sospeso, o avere un minimo debito con qualcuno.

Quel giorno Piergiorgio era ancora lì nel locale, a mangiare molto lentamente una pizzetta margherita. Non ci feci caso, almeno fintanto che non rischiai di far cadere il vassoio con la bellezza di quattro tazzine ripiene di caffè. Avevo esagerato, come mio solito, ma il problema era che quel pomeriggio non riuscivo a ragionare.

Per fortuna, il simpatico signore riuscì a metterci una mano e a salvare il mio traballante carico.

“Grazie, mi ha salvato la vita”, sospirai, sinceramente grata all’uomo che mi aveva appena evitato una figuraccia colossale, e qualche danno da pagare, senza contare il lavoro che avrei dovuto fare per ripulire il pavimento dal disastro che avrei potuto provocare.

Col groppo in gola dall’ansia, mi ripetei che dovevo stare più attenta. Molto più attenta.

“Di nulla”, mi rassicurò il signore.

“Ti vedo molto distratta… va tutto bene?”, tornò a chiedermi quando stavo per allontanarmi, con probabilmente un’espressione spaventata e turbata ben impressa sul viso.

“Sì… tutto bene”.

Distribuii a singhiozzo le ordinazioni, ma non appena ebbi finito, vidi che Piergiorgio mi faceva cenno di tornare lì.

“Potresti portare un caffè anche a me, per favore?”, mi chiese, quando giunsi alla sua portata.

“Certo”.

Mi recai subito alla macchinetta, fiera di preparare l’ennesimo caffè. Era l’unica mansione che mi stava simpatica, tra tutto quell’inferno di azioni frenetiche.

“Non stare a metterlo nel conto, eh. Come sempre, offre la casa per lui”, mi disse Virginia, mentre mi davo da fare. La rassicurai con un cenno del capo, e tornai a dirigermi verso il cliente, con tazzina e piattino in equilibrio.

“Ti ringrazio”, mi disse Piergiorgio, cortesissimo e gentile come sempre.

“Di nulla”.

“E’ vero che questa mattina hai avuto un diverbio col padre del tuo fidanzato?”, mi chiese all’improvviso, quasi innocentemente, mentre gli mettevo sotto al naso la sua ordinazione.

Gli rivolsi un’occhiatina con le sopracciglia inarcate, leggermente sorpresa da tale interrogativo.

“Me l’ha raccontato Virginia. Sai, lei è molto preoccupata per te”, aggiunse, notando la mia perplessità.

“Sì, è vero. E poi, nel pomeriggio ho anche chiuso col mio ragazzo”, mi limitai allora a dire, candidamente e in modo serio.

“Mi dispiace”.

“A me sarebbe dispiaciuto, ma viste le circostanze forse è stato meglio così, dato che non potevamo continuare in questo modo. Le nostre fragilità alla fine sono venute tutte a galla”.

Raccattai il vassoio colorato di un blu intenso, e feci per andarmene.

“Beh, se posso far qualcosa… insomma, se mi è concesso cercare di rassicurarti, in un qualche modo… come se fossi tuo padre… se ci fosse qualcosa che potrebbe farti sentire meglio…”, borbottò timidamente e a bassa voce il signore, con eccessiva confidenza, mentre me ne stavo per tornare a lavorare intensamente.

Mi volsi verso di lui, per un attimo; non sapevo cosa pensare, ma ero consapevole che quello sconosciuto non avesse proprio nulla da potermi offrire per rasserenarmi, comunque essendogli grata per il pensiero.

“La ringrazio molto, lei è una persona di cuore. Non sono abituata ad essere presa così in considerazione da qualcuno. In ogni caso, al momento posso solo cercare di non pensarci e di passarci sopra”, conclusi, dileguandomi poi in tutta fretta. Quell’uomo mi aveva messo leggermente a disagio.

Il lavoro tornò ad assorbirmi, e proseguii come un automa, e quando Piergiorgio se ne andò non me ne accorsi neppure.

Le ore più impegnative erano di nuovo sempre più vicine, e dovevo rimboccarmi per bene le maniche, se volevo tener duro, cercando di ragionare con costanza e di tenere lontano dalla mia mente quel putiferio di ricordi spiacevoli molto freschi e recenti, che potevano solo portarmi a combinare casini che avrei poi dovuto ripagare e risistemare con grande imbarazzo.

 

Quando uscii dal lavoro, quella sera, andai direttamente a casa di mia madre, come mio solito, e in assoluto mutismo mi limitai a spiluccare da un piatto pieno di gustose verdure di stagione. Non avevo fame, e qualche pomodorino ben maturo poteva aiutarmi almeno a fingere, di fronte alla mamma, che tutto andasse un po’ meglio.

“Non dovresti deprimerti così tanto, ti ho sempre detto che questo momento sarebbe arrivato. E meglio che sia arrivato ora, che più tardi! Altrimenti le cose sarebbero state più complicate”, mi disse, mentre anche lei cenava, e di tanto in tanto mi dedicava un’occhiata stanca.

Io non ce la facevo proprio più a stare di fronte ad una tavola imbandita, e così trangugiai l’ultimo mezzo pomodorino che avevo nel piatto, e raccattai un pezzetto di melone dalla ciotola delle verdure rese finemente a bocconcino, per accingermi ad alzarmi.

“Perché non esci un po’? Vai a farti un giretto, magari così ti sfoghi un pochino”, mi suggerì mia madre, quando si accorse delle mie mosse e comprese le mie intenzioni.

“Fosse facile. Oggi ho sgobbato tantissimo, e sono stanca morta”, le dissi, alzandomi ed andando a farmi una delle mie tanto amate docce.

E, proprio mentre ero sotto la doccia, fui folgorata da un’idea un po’ pazzerella; e se uscire potesse davvero aiutarmi un po’? Mia madre non mi aveva detto un’idiozia. Era, d’altronde, da un mese abbondante che non facevo una capatina fuori dal mio solito circolo vizioso, composto da casa e lavoro, e lavoro e casa. Una vita abbastanza monotona, per una ragazza ancora piuttosto giovane come me.

Decisi che sì, sarei uscita.

Sapevo già dove andare, siccome la mia cittadina non era proprio che offrisse numerosi centri di svago per giovani, quindi sarei andata dove… dov’ero andata tante volte con Marco. Il  Picadilly Center era uno dei pochi locali che si trovava relativamente vicino a me e che era un richiamo per giovani, essendo una sorta di discoteca, a partire dalle ventidue. Speravo che, magari, andando lì rincontrassi qualcuno della mia compagnia, di quella con cui giravo con il mio ormai ex ragazzo, e che avessi potuto smettere di riflettere su tutti quei miei problemi che mi angustiavano.

A decisione presa, mi asciugai in fretta ed indossai i miei abiti più belli; nessuno doveva credere che stavo passando un così brutto periodo, almeno a prima vista. Poi, dopo essermi leggermente truccata, scesi di fretta le scale e recuperai le chiavi dell’auto, mentre i miei pochi oggetti personali che mi portavo sempre dietro si muovevano disordinatamente nella borsetta.

“Mamma, esco”, avvisai educatamente mia madre, affacciandomi in salotto, dove lei stava seguendo in tv una di quelle tante serie strappalacrime che parlavano di amori infranti e di nuove speranze.

“Sì, sì, vai pure”, mi rispose, e notai anche un pizzico di sollievo nella sua voce. Era come se fosse stata felice di notare che non avevo scelto di chiudermi subito a guscio, ma che stavo cercando di oppormi ai brutti eventi che mi stavano scuotendo.

Uscii di casa, e sotto la luce dei lampioni, misi in moto la mia auto e mi diressi verso la mia meta.

 

Impiegai solo dieci minuti a giungere al Picadilly, e dopo aver parcheggiato senza difficoltà nel grande posteggio semivuoto che si stagliava comodamente di fronte al locale. Mi preparai mentalmente a quello che avrei trovato al suo interno. Soprattutto, se avessi trovato volti amici, e se avessi potuto trovare qualcuno disposto ad ascoltarmi e a coccolarmi amichevolmente, per un po’.

Avevo un vuoto dentro, una voragine spaventosa, e avevo bisogno di provare almeno in qualche modo a colmarla.

Entrai, titubante, e subito fui avvolta dalle lucine psicodeliche e dalla musica ad altro volume. Le voci degli avventori non erano altro che un piccolo brusio di sottofondo.

Il Picadilly Center era un locale piuttosto spazioso, ma molto poco frequentato durante la settimana, mentre faceva il pienone durante i prefestivi e i festivi. Quel mercoledì sera, infatti, c’era poca gente, e tutta più che altro radunata in capannelli che se ne stavano sparsi per l’ambiente, probabilmente a chiacchierare tra amici.

Mi ritrovai subito un po’ a disagio; ero abituata ad andare lì con Marco, e quella era la prima volta che ci andavo da sola, e in effetti mi sentii come un pesce fuor d’acqua. Non era necessario pagare all’ingresso, ma era comunque la norma andare a ordinare qualcosa al bancone, almeno per educazione, e fu la cosa che feci.

Non sapevo che altro fare, ed in più forse era proprio lì che avrei potuto incontrare qualcuno di mia conoscenza, se avessi avuto fortuna. Nei vari gruppetti, tutti abbastanza lontani da me, non riuscii a scorgere inizialmente nessuno che conoscessi, ma le lucine intermittenti e la mezz’ombra non facilitavano la vista e il riconoscimento di chi mi circondava.

Andai ad ordinare qualcosa.

“Ciao”, mi salutò prontamente il barman, un ragazzo sulla trentina che avevo visto tante altre volte a svolgere il suo mestiere nel locale.

“Mi daresti un bel bicchiere di aranciata, per favore?”.

“Certo. Fredda e con un po’ di ghiaccio, che dici? Fa un caldo a palla, fuori”.

“A temperatura ambiente e con un ghiacciolo nel bicchiere, allora, facciamo così. Non voglio farmi venire un collasso”, gli dissi, allora, impertinente.

“Perfetto”.

Mi sorrise, sornione, e in pochi istanti mi servì.

Mi ritrovai quindi con una bibita tra le mani, e in completo disagio, siccome non avevo idea di cosa fare, e mi limitai quindi solo a pagare, frugando rumorosamente e per un po’ nel mio splendido portafogli rosa e con due file di lucenti perline incastonate da ambo i lati. Insomma, un portafogli ideale per una comunissima adolescente… che con me sfigurava ormai un po’.

“Non vai dal tuo ragazzo?”, mi chiese il barman, all’improvviso, accettando il denaro tra le mani e battendo poi alla cassa, osservandomi di sottecchi mentre tornavo a sedermi ad una delle sedie a fianco del bancone.

“Il mio ragazzo?”, replicai con una domanda, spaesata. Ero perplessa, non capivo quello che mi aveva appena detto, e anche a causa della musica a tratti abbastanza alta, pensavo di aver frainteso qualcosa in quello che avevo udito in maniera un po’ indistinta.

“Il tuo ragazzo”, scandì per bene il giovane, allungandosi verso di me per passarmi il resto, “è là. Non vai da lui?”. M’indicò un punto relativamente affollato del locale, in angolo, dove un gruppetto di ragazzi per metà immersi nell’oscurità se ne restavano appartati a chiacchierare.

“Marco, intendi?”, aggiunsi, sovrappensiero.

“E chi se no?”.

Lasciai il barman senza alcuna risposta alla sua domanda retorica, e mi alzai con la mia bibita tra le mani, mentre il cubetto di ghiaccio tintinnava leggermente contro le pareti del bicchiere. Il ragazzo ci conosceva di vista, e sapeva anche i nostri nomi, ma di sicuro non era a conoscenza del fatto che quello stesso giorno io e Marco ci eravamo lasciati.

Perlopiù, anche per telefono, come se la nostra storia in fondo non avesse avuto uno spessore degno di qualche parola faccia a faccia, da persone adulte e dotate di un minimo di giudizio.

Tutta presa da non so che cosa, mi diressi verso il punto che mi era stato indicato, finché non mi sedetti al tavolo proprio a fianco di quello dove gli altri ragazzi stavano ridendo e battibeccando, per vederci da vicino e in modo più chiaro e distinto. E solo in quel momento riuscii a scorgere per bene il profilo di Marco. Mi stava dando le spalle, e… sulle sue gambe, c’era appollaiata una ragazza.

Mi prese un colpo.

Il cuore riprese a battere ai mille all’ora.

Mi alzai di nuovo e feci per allontanarmi, prima che lui potesse vedermi, ma era ormai troppo tardi, e non fui sufficientemente lesta nei movimenti; infatti, Vanessa e Gaia, due delle ragazze gruppo di amici di cui facevamo parte anche noi due, e che frequentavamo spesso proprio nelle serate trascorse in quel medesimo locale, mi scorsero, avendocele proprio di fronte, ma fecero finta di non avermi riconosciuto.

Vidi distintamente che Gaia rifilava una gomitata distinta a Paolo, il suo ragazzo, che era seduto a suo fianco, e gli bisbigliò prontamente qualcosa all’orecchio. Un attimo dopo anche lui mi fissava, ma io già davo loro le spalle.

Le lucine lampeggianti smisero per qualche secondo di illuminare parzialmente la zona che stavo attraversando, ma poi tornarono a sferzarmi gli occhi, e, spontaneamente, mi venne da volgermi per un attimo indietro, e incrociai così lo sguardo di metà comitiva, che mi stava fissando attentamente.

L’unico che pareva non essersi accorto di nulla era proprio Marco, che flirtava animatamente con la giovane che aveva adagiato volgarmente sulle ginocchia.

Nessuno dei ragazzi che frequentavo da anni, fin da quando mi ero messa con il giovane con cui mi ero appena lasciata, si azzardò a salutarmi. Anzi, non appena videro che li stavo guardando alcuni si lasciarono andare al sogghigno, altri all’indifferenza, e distolsero lo sguardo.

Vanessa fu l’unica che tentò di farmi un breve cenno di riconoscimento con la testa, ma proprio oculato e frutto di un millesimo di secondo. Altroché quei bacetti sulle guance che ci scambiavamo affettuosamente ogni volta che ci incontravamo! E allora capii… capii che ai loro occhi ero come decaduta. In quel gruppo non c’era più spazio per me.

Una nullità timida, lavoratrice ed impacciata come me era stata ben accetta da quel gruppo di snob solo perché stavo con Marco, e fintanto che sono stata con lui. In quel momento, ero già carne da macello, e il mio ex era già molto impegnato con una tizia che appariva giovanissima e che non conoscevo. Mai vista prima di quel momento.

E poi, nella penombra e nella luminosità a tratti allucinante che mi avvolgeva, non era semplice essere una brava osservatrice, tenendo conto anche del mio cuore impazzito e dell’ansia che avevo. E anche del senso di abbandono che provavo. Mi sentivo umiliata.

Le mie guance cominciarono a scottare, segno che dovevo essere diventata bordò dall’imbarazzo e dalla rabbia, e la vista si fece un po’ sfocata.

Mi sedetti di nuovo al bancone, in attesa di riprendere un attimo le forze che mi erano necessarie per andarmene da quel posto e non tornarci mai più. La mia serata di ipotetico svago si era già conclusa in quella maniera orribile.

Ma il destino sembrava avere altre prove in serbo per me, quella sera.

“Buona sera, Isabella. Hai visto che bella pollastra che ha Marco sulle ginocchia?”.

Mi voltai, dopo aver riconosciuto la voce inconfondibile di Maria Grazia Tabbaniello, che, come ogni sera, assieme alla sorella gemella Maria Luna, si era recata per spettegolare amabilmente sugli avventori.

“Certo. A me sembra pure minorenne”, annotai, mentre le due giovani si sedevano a fianco a me, una per lato.

“Uh, no, ora ha diciotto anni. Cioè, li ha da due giorni. Ti ha sostituito in fretta, eh? Con materiale anche più giovane”, insinuò con la sua solita cattiveria Maria Luna.

Le due gemelle erano fisicamente identiche, ed amavano vestirsi in modo molto simile, e alla stessa maniera anche a truccarsi, in modo da confondere le prede quando le avvicinavano. Io quella sera dovevo essere stata definita da loro come la preda ideale per l’assalto ai pettegolezzi.

Le due ragazze le conoscevo fin dai tempi delle superiori, essendo mie coetanee, e le riconoscevo grazie alla voce; Maria Luna parlava a denti stretti, quasi sibilava, mentre Maria Grazia aveva una voce nasale, più profonda di quella della sorella, che non aveva consistenza ed appariva solo come insinuante.

In compenso le avevo sempre odiate, e odiavo entrambe le loro voci.

“Non ne sono gelosa, che se lo tenga. Quando la ragazzina imparerà a conoscerlo a fondo, lo pianterà anche lei”, mi limitai a dire, stizzosa. Poi, quasi mi ripresi da sola; dimostrando nervosismo, alimentavo la loro curiosità e la loro voglia di continuare a importunarmi. Dovevo trattenermi il più possibile ed avere sangue freddo.

“Uh, uh!”, occhieggiavano le due, nel frattempo, divertite dal mio affondo.

Bevvi un bel sorso dal mio bicchiere; non vedevo l’ora di andarmene.

“E pensare che è da quando è arrivato qui che non fa altro, il tuo bel Marco, che raccontare come ti ha lasciata. Tu ci vuoi raccontare una bugia”, insinuò di nuovo Maria Luna, smettendo di gongolare come un’oca giuliva.

“Che sia come gli pare allora, non me ne frega”, aggiunsi, bevendo un altro sorso.

“Senti, è vero che… che tu facevi solo quello che ti diceva tua madre? Che hai sempre cercato di ostacolarlo…”.

“Stai zitta, smettila di dire queste stronzate. Non parlare se non sai quello che dici!”, quasi aggredii Maria Grazia, che con la sua voce impertinente aveva cominciato a sussurrarmi all’orecchio destro quelle accuse che mi apparivano infamanti.

Ferita nell’orgoglio, non seppi trattenermi più, e al diavolo il desiderio precedente di mantenere la calma. Avevo una dignità da difendere.

“A me non parli in questo modo! Mi rispondi come si deve!”, sbraitò ad alta voce, all’improvviso, Maria Grazia.

“Oh, bene. Allora, ti accontento subito; che io dipendessi da mia madre e che lei mi manipolasse, è vero quanto le supposizioni che circolano su di te, e cioè che stai andando bene all’università e che sei molto intelligente”, le dissi, mantenendo comunque normale il tono di voce, anche se quelle due rompiscatole avevano cominciato a stancarmi seriamente.

Le due gemelle, dotate di un intelletto mediocre, si scambiarono un’occhiata curiosa, prima di riuscire a comprendere e a rielaborare la mia frecciatina offensiva molto pacata.

“Perché, credi che io stia andando bene? Io studio…”.

“Ma sì, certo, prendi tutti trenta con lode con tanto di stretta di mano accademica, quando si sa che vostra madre è così tirchia che, per voi, ha preferito farvi dote di un solo neurone a testa”, aggiunsi, saccentemente stronza, e ormai irrimediabilmente irritata.

“Oh!”, si lasciò sfuggire la gemella alla mia sinistra, mentre l’altra, dopo aver udito il mio ennesimo affondo, non pareva decisa ad incassare.

Si trattava di due ragazze un po’ bulle, a cui piaceva sottomettere chi le circondava e dare tormento alle vittime designate, ma odiavano tantissimo chi le sfidava, cercando di ferirle prima di loro. E poi, ero andata completamente con la testa; quelle due oche, che faticavano a comprendere un linguaggio più articolato delle solite loro idiote domande, avevano provato anche a colpire in un qualche modo anche mia madre, con quello che avevano detto poco prima, ed ero più che mai intenzionata a non lasciarle impunite per l’affronto.

Non le temevo affatto, conoscendole da una vita, e potevo non farmi scrupoli nel rispondere, proprio come stavano facendo anche loro due.

“Senti, stronzetta… nostra madre non la offendi, eh?”, sibilò poi Maria Luna.

“Eh, ma ho solo detto la verità! E poi hai capito cos’ho detto? Sai cos’è un neurone? E vi fate tanto i cazzi degli altri senza sapere una beata minchia della vita! Figlie di papà”, conclusi, finendo di bere la mia aranciata e spingendo il bicchiere verso il giovane barman, che ci stava ascoltando con gli occhi spalancati.

A mia insaputa, e senza inizialmente accorgermene, stavo dando spettacolo, siccome le ochette si erano alzate e mi starnazzavano attorno come se fossero in cerca di becchime.

“Affanculo!”, dissi loro, alzandomi anch’io.

“Calme, ragazze! Calme!”, ci invitava alla calma il barman, intervenendo, ma io non ascoltavo già più niente e nessuno. Mi avevano fatto girare fin troppo le scatole, per quella sera. Tutti quanti.

Uscii dal Picadilly che ero paonazza, dalla rabbia e dallo sconforto. Dovevo precipitarmi subito a casa, mi sentivo come ubriaca dal tanto che ero confusa.

 

Rincasai alle ventitré. La mia uscita era durata a malapena un’oretta scarsa.

Trovai mia madre a venirmi incontro, in vestaglia, non appena feci scattare la serratura, ed in fondo ciò era proprio tutto quello che volevo evitare, desiderando ardentemente che lei non mi vedesse nello stato confusionario che mi portavo impressa in volto.

“Colpa di Marco?”, esordì con cattiveria, richiudendo a chiave la porta d’ingresso.

“Anche”.

Andai tranquillamente vero la cucina, tanto ormai ero stata beccata.

“Insomma, la tua uscita non è andata bene e non ha avuto gli effetti desiderati”, m’incitò a parlare mia madre, e si sa, di notte siamo più inclini a drammatizzare e a lasciarci andare, anche solo a parole.

“Sono andata al Picadilly ed ho trovato Marco in compagnia di una nuova ragazza, che teneva seduta sulle sue ginocchia, e con loro c’era il gruppetto di amici al gran completo, quello con cui uscivamo, e naturalmente hanno fatto finta di non avermi mai conosciuto. Poi, le gemelle Tabbaniello mi hanno importunato, ed ho avuto con loro una leggera discussione… oh, cosa poteva capitarmi di peggio?”, mi lasciai andare, amaramente, per poi volgere le spalle alla mamma.

“Che Marco sia un coglione unico al mondo ormai lo sappiamo, no? Ma lasciamo perdere… ti prego, non pensare più a questa vicenda, piuttosto…”, aggiunse la mamma, con tono premuroso.

Aveva ragione. Ma io ero disposta a ingranare di nuovo la marcia, ora che ero stata umiliata davanti a tutti dal mio ex, e che mi sentivo tanto sola, dopo aver aggiunto alla mia figuraccia anche una scenata con le due gemelle mono neurone? Chi ero, cosa volevo dalla vita, cosa credevo di fare? Non avevo più un punto fisso.

Potevo però contare su Irene, pensai, e anche su… su di lei, su quella magnifica donna che avevo di fronte a me in quel momento.

Abbracciai spontaneamente la mia mamma, in fondo lei aveva sempre avuto ragione su tutto, e se il mio ragazzo non fosse stato come me lo descriveva di tanto in tanto, facendomi poi arrabbiare, non si sarebbe comportato in quel modo così infantile, egoista, e, in una sola parola, disgustoso.

Mamma ricambiò il mio abbraccio, piacevolmente sorpresa, e si sciolse ancora di più.

“Ah… ecco… sei molto fortunata, sai. Hai appena rotto ed hai già fatto colpo…”, mi disse, parlandomi timidamente all’orecchio. Per fortuna che non mi ero lasciata andare all’ennesimo pianto, poiché balzai all’indietro, allontanandomi da lei, e le donai un’occhiata allibita. Ero senza parole.

“Ma cosa stai dicendo?”, le chiesi, sbalordita da quello che mi aveva appena detto.

Fui ricambiata non da un’altra occhiata, ma da una risposta timidissima, leggera… come se la mia interlocutrice fosse appena stata messa in imbarazzo.

“Quello che ti ha mandato le rose… oh, insomma, non ne sai proprio nulla? Vieni, guarda qui”, mi disse, piano, indicandomi un punto imprecisato nel salotto.

“Rose?! Mamma, smettila…”. Pensavo avesse delle allucinazioni.

Però mi morì in gola quello che avevo da aggiungere. Nel centro del tavolino del salotto, un consistente mazzo di rose bianche troneggiava come una divinità nell’ambiente dal gusto un po’ vintage e retrò.

“Ma chi ha mandato una cosa del genere?”, sillabai, a voce bassissima, mentre mi muovevo verso il mazzo.

Lo sfiorai, e mi venne da sorridere; ci doveva essere un qualche errore.

“Mamma, sicura che non sono per te?”.

“Ma che dici! Guarda, c’è anche il bigliettino. E poi il fioraio è stato chiaro, doveva consegnarlo all’indirizzo dove soggiornavi”, mi rispose la mamma, molto chiara. Il suo imbarazzo si era già tramutato in curiosità.

Le rose erano avvolte in una bella cartina bianca, che le faceva figurare davvero bene; al centro del mazzo, ce n’era una rossa, di un colore vermiglio, quasi come il sangue.

Affissa al suo lungo gambo ripulito sapientemente dalle spine, c’era in effetti un bigliettino, che mi affrettai ad afferrare e a rigiramelo tra le mani. Su di esso, a penna, c’era scritto solo per Isabella, e il mio nome era scritto in un modo strano, che avrei potuto definire artistico; era tutto arzigogolato, e la I iniziale era elaborata attentamente, quasi come se fosse stata preparata apposta da un miniaturista medioevale.

Ero sbalordita. E sbalordita era dire ancora poco.

“Ma… quando le hanno portate…?”.

“Mah, eri andata via da qualche minuto”.

“Mamma, sono partita da casa alle ventuno e trenta… un fiorista non fa consegne a domicilio a quell’ora. Capisco che siamo in estate, ma…”.

“Oh, lui mi ha detto che l’ha fatto per una persona che lo ha pagato generosamente per questo strappo, e che questa persona voleva mantenersi anonima”, alzò le spalle la mia interlocutrice, ormai a mio fianco, a paciugare tra le rose.

“Sono senza parole”, riuscii a dire.

“Non hai proprio idea di chi possa essere? Di certo, qualcuno che ti conosce bene, poiché a mandarti i fiori a questo indirizzo non potrebbe essere stato chiunque”, tornò ad aggiungere la mamma, e riconobbi che aveva ragione.

“Non ne ho idea, credo che solo Marco conoscesse questo indirizzo, gli altri erano a conoscenza solo di quello dell’appartamento in cui abbiamo convissuto fino all’altro giorno. E non credo che sia stato Marco o un suo amico, anzi… forse è solo una presa in giro, per illudermi”, mi venne spontaneo da dire, ragionandoci sopra.

Che il mio ex volesse confondermi? Eppure, era quella scrittura che mi faceva riflettere. Un ragazzo intenzionato a farmi uno scherzo non ci avrebbe lavorato tanto sopra. Ed era tutto perfetto e magnifico.

“Non è uno scherzo. Guarda prima come hanno scritto il tuo nome; è una vera e propria opera d’arte. Chiunque l’abbia scritto, ci ha impiegato un po’, e di sicuro un qualsiasi burlone non l’avrebbe fatto. E poi, le rose sono proprio quelle profumatissime, le più costose, e trasmettono un messaggio molto chiaro”.

“Davvero?”.

Non ci capivo nulla di fiori, ma per il momento, il discorso della mamma non faceva una piega, e concordavo in pieno.

“Rose bianche, simbolo di passione pura. Casta. Hai colpito qualcuno, e questo ti vuole molto bene. E la rosa rossa al centro del mazzo, a spiccare, ma ancora leggermente in bozzolo… beh, questo è un chiaro simbolo di profondo coinvolgimento. Però, non ti lusinga, anzi, con questo mazzo ti mostra che ti vuole bene, e forse anche lui stesso non sa quel che prova per te… affetto profondo, di sicuro, ma la rosa rossa ancora per metà in bozzolo fa capire che crede in qualcosa in più”.

“Oh, wow, che poetessa! Te ne intendi di queste cose, però!”, dissi, ammiccando a mia madre.

“Sai, tuo padre, all’inizio, prima di sposarci, me ne mandava tante. Comunicavamo tramite i fiori, e sapevo bene che, a seconda di ciò che mi mandava, mi faceva capire i suoi sentimenti del momento. Non c’erano telefonini e non avevamo altro modo di comunicare, e in più i miei non lo sopportavano, quindi… inizialmente ci arrangiavamo così”, mi svelò la mamma, molto commossa.

Riuscì a commuovere anche me, e tornai a riabbracciarla.

“Quindi tutto, nel complesso, è un messaggio?”, le chiesi di nuovo, ancora abbracciata dolcemente a lei.

“Sicuro. Peccato che sia anonimo”.

“Domani vado a parlare col fiorista. Sono troppo curiosa!”.

‘’E’ un fiorista della città vicina, credo. Non era di qui! E poi, non perdere il tuo tempo; il mandante ha pagato molto bene, anche per mantenere l’anonimato, e nessuno ti dirà nulla”.

Sciogliemmo l’abbraccio, e tornai pensierosa. Chi poteva avermi mandato, addirittura da un’altra cittadina, quel messaggio d’interessamento? Era stato un gesto carino, ma mi premeva molto sapere chi me lo avesse mandato, ero piuttosto curiosa. Ma mi rendevo conto che ero impossibilitata a saperlo.

“Le mettiamo in acqua, che ne dici?”.

Annuii distrattamente a mia madre.

Quella notte andai a letto piena di domande, e anche di imbarazzo. La mia povera mente era avvolta da una confusionaria foschia che, speravo, un po’ di sonno avrebbe potuto dissipare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Ma cosa sta succedendo? Perché queste rose? Che siano uno scherzo dei ragazzi? ^^

A voi le supposizioni ^^

Grazie di tutto!

   
 
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: alessandroago_94