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Autore: kurojulia_    19/07/2018    1 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che gli occhi della sua mente leggevano all'istante – fulgido.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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03.

Pioggia.

Fitta, scrosciante e gelida pioggia primaverile, in una noiosa e tediosa domenica mattina. Takeshi sedeva al tavolo della cucina, il mento appoggiato sul palmo della mano e il gomito pigramente sulla superficie del tavolo - guardava fuori dalla grande vetrata della stanza, iscritta dagli innumerevoli rivoli d'acqua. Sentiva la pioggia battere freneticamente sull'asfalto, incastrarsi nelle grondaie e inondare la piccola cittadina, come a volerla trasformare in una mediocre Venezia. Pensava, mordendosi di tanto in tanto il labbro inferiore, le palpebre abbassate. Pensava, ricordava - rimembrava a proposito della notte scorsa. Quell'oscura e agghiacciante notte, silenziosa come un requiem della morte.


 

 

 

***


 


 

Quanto tempo era passato, esattamente? L'albina non avrebbe potuto dare una risposta nemmeno se avesse avuto il Big Bang davanti agli occhi - perché quest'ultimi erano impegnati a guardare il volto esanime di Sayumi, la sua migliore amica. Era svenuta a causa dell'improvvisa assenza di una grossa quantità di sangue dal suo organismo.

E adesso, l'odore ferreo e acre di quel così denso rosso impregnava la biblioteca, oltre alla divisa della ragazza, della vittima – e al mento e le labbra di Yuki


 

Perché sì, Sayumi era stata una vittima. Una vittima della fame di qualcosa che non poteva assolutamente essere definito come un essere umano. Nemmeno come un essere vivente, probabilmente. Lei, d'altronde, non era altro ché un mostro.

E Sayumi Ichinomiya era stata, ironia della sorte, l'elemento che lo dimostrava. Chissà cosa aveva pensato poco prima che la sua carne venisse assaporata in quel modo, un istante prima che i denti penetrarono nel suo collo. Doveva essersi sentita spaventata, questo era certo, l'albina stessa aveva fiutato la sua paura mentre i canini laceravano la pelle ed entravano voraci. E quale meravigliosa e rigenerante sensazione aveva provato dopo, quando finalmente il fuoco che le incendiava la gola era stato domato.

«A tuo discapito», mormorò, scostando una ciocca rosea dalla sua fronte, la testa poggiata sulle gambe di Yuki. Dopo essersi sfamata, si era scostata da lei e l'aveva fatta adagiare alla moquette del pianerottolo, con la testa sorretta dall'albina.


 

Yuki si chiese con quale coraggio provava quel tormento interiore, con quale coraggio osava sentirsi colpevole, pentita, addolorata - se lei non era altro che un mostro egoista. Non c'erano parole per descriverlo - l'orrore.


 

«Vattene».

Lo disse con un tono talmente alto e rigido che quasi i vetri tremarono. Sentiva la sua voce e il suo marciume. Lo percepiva limpidamente. Ma, adesso, non era importante. «Sei stato lì anche per troppo, non credi?». Mentre i suoi occhi continuavano ad esaminare il viso di Sayumi, sentì dei passi felpati accorciare una certa distanza, da una delle pesanti tende scure fino all'inizio della scalinata. A separarli, erano solo una decina di gradini. Takeshi li guardò, uno per uno, fino a risollevare lo sguardo incupito sulle due ragazze - ma, alla fine, lo lasciò cadere sull'albina.

E non seppe cosa fare. Non sapeva se respirare o restar così, con l'aria trattenuta nei polmoni.


 

«Presumo che sarai confuso», esordì lei. «E spaventato. Per mia natura, sono certamente un mostro, fra l'altro, egoista: ma non sono cattiva. Non ti ucciderò, anche se è colpa tua - dato che hai deciso di seguirci».


 

"Volevo conoscerti", erano state le parole, quelle che gli danzavano sulla lingua - ma non uscirono dalla sua bocca. La danza divenne sempre più fiacca e poco energica, fino a spegnersi totalmente. Le labbra serrate e i muscoli del corpo tesi come una corda di violino, la guardava ancora. «Se non sei cattiva, perché... ».

Come punta, Yuki sollevò di scatto la testa - irata, gli restituì l'occhiata. «Non l'ho uccisa».


 

Non avrebbe mai ucciso quella ragazza, quell'essere umano; quell'essere umano così leggiadro, dal sorriso dolce come il miele, capace di spazzare via qualsiasi spiacevole pensiero, capace di sostenerti quando meno te l'aspetti. Non avrebbe mai messo fine alla sua vita - a farlo, sarebbe stata la vecchiaia, coccolata dal calore di ciò che amava.

«Allora... », mormorò Takeshi, aguzzando gli occhi. Allora era svenuta, si disse, giunse a quella conclusione, sollevato. Per poco non sospirò di sollievo. «Perché l'hai fatto?», sbottò, chiudendo le mani in pugni fermi. «Questo non è... ».

«Non è ciò che farebbe un'amica? Te l'ho detto», e guardò la ragazza. «sono un mostro egoista. Ma, nonostante questo, Katugawa, ho bisogno di te». Il sangue che colava dal suo mento si fece presto sconfiggere dalla gravità, cadendo a picco sulla moquette, producendo un suono secco e chiaro. Si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo una goccia di sangue.

«Hai bisogno di me», ripeté lui.


 

Si ripeté queste parole, probabilmente più del dovuto, chiedendosi cosa diavole stesse succedendo in quel luogo - in quella biblioteca; ciò che aveva davanti, non riusciva nemmeno ad immaginare cosa realmente fosse. Era stato stupido? Era stato stupido a provare quell'intenso interesse per lei, un giorno qualunque della sua qualunque quotidianità? L'aveva intravista, con lo sguardo svogliato che lo caratterizzava, mentre varcava i cancelli della loro scuola. E quel fulgido argenteo gli era rimasto impresso come marchiato a fuoco.

Quel ricordo, ora, era in netto contrasto con le labbra sporche di sangue che si stavano muovendo, che stavano formulando quelle frasi senza senso.


 

Stava dicendo qualcosa, ma le orecchie di Takeshi erano otturate. Otturate dal sangue sulla divisa della sua amica - otturate dal terrore che, purtroppo, stava provando.

E cominciava a sudare.

Cominciava ad agitarsi. A spostare lo sguardo ovunque. A stringere di più i pugni ormai doloranti. Ma lei non era cattiva. Lei lo diceva...


 

«So che ti sto chiedendo molto, ma puoi farlo?», sentì distrattamente.

Sollevò il volto, spaesato, con la bocca schiusa e gli occhi sgranati. I capelli che ricadevano sulla fronte oscuravano appena appena la sua visuale. «C-cosa?».

«Ti sto chiedendo di riportarla a casa sua», ripeté Yuki, piano. «Che equivale al negozio di fiori e piante di questa via, giù per la discesa. Penso che l'avrai visto, almeno una volta». Pazientemente, l'albina stava ripetendo ciò che aveva detto ma che Takeshi, preso dal panico, non aveva udito nemmeno per scherzo. Persino adesso si sentiva troppo agitato per formulare pensieri logici. «Nella sua borsa ci sono le chiavi di casa, che adesso dovrebbe essere vuota».


 

Takeshi inspirò. «Perché dovrei farlo?».

Lei sorrise. «Perché sei una brava persona».


 


 

***


 


 

Con i brividi per tutto l'esile corpo, Kukuri cominciò a percorrere la stradina che portava all'uscita della residenza Akawa, infestata dalla vegetazione e da alberi, quasi volesse nascondersi il più possibile - sospirava lievemente, stringendosi nell'impermeabile giallo. La pioggia continuava a scendere ma, se non altro, adesso era molto meno fitta e si era ridotta più ad una pioggerellina, il ché avrebbe reso il suo compito più facilmente eseguibile. Certo, era probabile che non avrebbe potuto introdursi nella scuola senza prendersi un raffreddore.

Calpestando silenziosa la terra ora fangosa, raggiunse la strada in salita che portava al liceo frequentato dalla sua padrona. Era sinceramente contenta di indossare quell'impermeabile che, col cappuccio chino sul capo dai corti capelli corvini, riusciva a coprirla abbastanza - anche se quel giallo la tradiva un po'.


 

Non aveva mai amato avere a che fare con le persone - o meglio, c'è da precisare: le veniva direttamente un attacco di panico. La sua incredibile, indicibile e ingestibile timidezza era uno dei motivi per cui era finita a lavorare come cameriera per il casato Akawa.

Era, naturalmente, onorata di prestare servizio per una famiglia così facoltosa e che l'aveva aiutata così tanto sin dalla tenera età ma, contemporaneamente, provava sempre un po' di timore a convivere con quelle creature - perché lei era un normale essere umano. Un essere umano fragile come tanti altri, se non di più.

Ma d'altro canto, se non lì, dove avrebbe potuto andare?

Con questi strani pensieri e le lenti rotonde degli occhiali appannate, era ormai giunta nei pressi della scuola - ma dovette fermarsi, sgranando gli occhi e boccheggiando.

Oh, no.


 

Proprio davanti ai suoi occhi, a circa una quindicina di metri, si ergeva la figura slanciata e incappucciata di quello che sembrava un ragazzo. Sembrava piuttosto alto, tanto da apparire più come un giovane adulto - ma l'abbigliamento faceva pensare ad un ragazzo; i jeans scuri, il cappuccio di una felpa grigio che spuntava da una giacca di pelle nera che, bagnata dalla leggera pioggia, splendeva lucida.

Una condizione del suo compito era di non essere vista da nessuno né di parlare con qualcuno - ma, trovandoselo lì davanti, non poté fare a meno di avvicinarsi un pochino. Poteva essere un buon esercizio per sconfiggere il suo timore di parlare con la gente.

Passo dopo passo, riuscì ad accorciare leggermente quella distanza - se non ché, il ragazzo si voltò prima che lei potesse arrivargli accanto.

Kukuri si fermò, come se fosse una ladra e lui il poliziotto. Per qualche secondo, si guardarono in viso, lui sorpreso e lei terribilmente indecisa e imbarazzata. Poi, per fortuna, lui decise di tornare a guardare verso la scuola.

Oh, e adesso che faccio?, si chiese, sospirando rumorosamente.


 

«Hai bisogno di aiuto?».

Kukuri sobbalzò. «Come?».

«Scusa, ti ho sentita sospirare... », il ragazzo girò appena il viso, sorridendo, e Kukuri si trovò a soppesare la domanda postale. Beh, sì, in effetti poteva aver bisogno di aiuto per entrare. Ma chissà se quel bel ragazzo poteva realmente aiutarla.


 

«Ah, è successo che-», balbettò. «Ho dimenticato la mia borsa in classe. Non... non sapevo come rimediare, e così... ».

«Vuoi entrare?», domandò lui. Kukuri annuì.

«Beh, l'entrata principale è chiusa, come vedi. Ci dovrebbe essere ancora qualcuno dentro, però», poi si fermò un attimo, aggrottò leggermente la fronte e squadrò la ragazza; guardò gli occhiali che scivolavano sul piccolo naso, gli occhi scuri come la notte incorniciati da folte ciglia e i capelli corti, molto corti, che carezzavano gli zigomi, le guance e un po' del collo. Aveva un'aria davvero timida. «Non credo di averti mai vista, comunque».


 

«Ah».

Kukuri tremò. Oh, ecco. Ecco ecco ecco. Era stata scoperta. Quel ragazzo aveva capito che stava lavorando in incognito per la sua padrona non-umana. Oh, accidenti. Non andava per niente bene.

La sua unica possibilità, l''unica cosa che poteva fare - sollevò la testa e schizzò via da quel punto, lasciando solo un'ombra al suo posto. Il ragazzo aveva sussultato, visibilmente sorpreso, per poi guardare l'esile figura gialla allontanarsi in tutta fretta lungo la discesa, temendo che potesse scivolare sull'asfalto scivoloso - aggrottò la fronte. L'ultima cosa che riuscì a vedere fu il retro delle sue ginocchia spuntare da sotto l'impermeabile.

… aveva forse detto qualcosa di male?


 


 

***


 


 

Kukuri era rimasta ferma, immobile come una marmorea statua greca, davanti alla porta d'ingresso degli Akawa, considerando caldamente l'idea di fuggire per qualche terra lontana e sconfinata; l'idea di entrare in quella casa e trovarsi faccia a faccia con la sua padrona che, ne era certa, l'avrebbe sgridata e punita per il suo fallimento le faceva venire i brividi su tutta la schiena - d'altro canto, per l'appunto, aveva fallito nel suo compito.

Sospirò. Non c'era molto da fare. La prossima volta che le fosse stato affidato qualcosa da fare, avrebbe fatto del suo meglio e anche oltre.

Silenziosamente, infilò la grossa chiave nera nella serratura e la girò per due volte, sentendo il suono un po' gracchiante della porta che si apriva. Tanto era assorta nei suoi desolanti pensieri che nemmeno aveva fatto caso al cessare della pioggia e, difatti, il cappuccio era ancora tirato su - sospirando, spinse la porta ed entrò. Ed eccola, come temeva, proprio davanti alle scale, ad aspettare il suo ritorno come aveva detto. Era di spalle, e aveva un affascinante postura slanciata, con le mani chiuse a pugno sui fianchi e le gambe leggermente divaricate. Aveva i capelli legati in un'alta ed elegante coda di cavallo. Sembrava proprio nel pieno delle sue forze. «Nobile Yuki... ».


 

Al suono della vocina smorzata di Kukuri - probabilmente un essere umano non l'avrebbe mai sentita -, la mezzosangue dai capelli argentei si voltò, di slancio, con una strana energia nei movimenti. «Bentornata. Dunque, come è andata la missione?».

Kukuri si strinse nelle spalle, come se volesse rimpicciolirsi o farsi risucchiare dall'impermeabile. «Ecco... io... sono mortificata, ma non sono riuscita ad entrare nella scuola e a recuperare la borsa. I-i cancelli... c'era... c'era una persona, un ragazzo... ed io non- si era offerto di prestarmi aiuto m-ma naturalmente ho rifiutato. Mi dispiace immensamente, Nobile Yuki». In un gesto riflessivo, Kukuri chinò la testa, ormai priva di cappuccio, afferrando la stoffa della gonna, stropicciandola fra le dita - attese, impaziente, qualcosa. Qualcosa che non arrivò mai.


 

«Kukuri?», la chiamò Yuki - per cercare il viso della ragazza, si piegò un po' in avanti. «Guarda che puoi stare tranquilla, non era indispensabile!», e ridacchiò appena, divertita dalla sua apprensione.

«Come?», balbettò l'altra, sollevando il viso. «Ma... ».

«Se proprio mi troverò in difficoltà... userò qualche trucchetto. Quindi tranquillizzati e togli quell'impermeabile bagnato, prima che ti venga un raffreddore».


 

E prima ancora che Kukuri poté formulare una risposta, Yuki le aveva già rivolto le spalle per poter risalire le scale, con passo lento ma deciso. La cameriera l'aveva seguita con lo sguardo fin quando la sua figura non era scomparsa oltre una delle tante porte della casa.

E, allibita, era rimasta immobile a fissare il vuoto.


 


 

***


 


 

Immersa nelle tenebre della notte, in un letto inondato dalla luce della luna, lei aveva lo sguardo puntato sul grande specchio posto sopra la scrivania dove, appena visibile, c'era il suo riflesso; era passata quella tragica sera di venerdì, quando aveva marchiato il candido collo della sua migliore amica, quando aveva sentito la vena pulsare incredibilmente veloce, agitata, terrorizzata; era passato un sabato silenzioso e il suo umore, rinfrescato da ciò che aveva preso forzatamente, si era risollevato - ma se da una parte era felice, sazia, dall'altra era a pezzi.

E poi, quella stessa notte, domenica notte.

Socchiuse le palpebre, lasciando incastrare fra di loro le ciglia superiori con quelle inferiore, nascondendo il luccichio inumano dei suoi occhi.

I suoi occhi. Quelle gemme dorate che avevano il potere di splendere anche in notti del genere. Quelle gemme dorate che di umano non avevano nulla.

Ancora, Yuki guardò la sua immagine riflessa nello specchio e si rese conto, ancora una volta, che lei era la persona che vedeva - e nient'altro.


 

Solo una mezzosangue.


 


 


 


 


 

   
 
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