Nickname: zenzero91,
zenzero su efp
Titolo
fanfic: La fine di Zenigata e Lupin
Pacchetto:
Difficile, Introspettivo, Saudade
Fandom+Pairing:
Lupin III, Lupin x Zenigata
Note: le
righe non indicano i capitoli ma i paragrafi. E’ un what-if
di parte di un episodio
autoconclusivo di Lupin, serie “L’avventura
italiana” (episodio 14), ma ci sono
ben poche cose da sapere, non è necessario vederlo per
capire la trama, vedi
anche le note d’autrice in fondo. La premessa è
che Lupin si trova in Italia,
viene catturato da Zenigata e viene imprigionato in una prigione fatta
su
misura su di una piccola isola, ed è sorvegliato
costantemente dall’Ispettore.
I
Le
onde si abbattevano con forza sugli scogli, esplodendo
in enormi schizzi d’acqua salata.
Zenigata
si sistemò meglio il cappello in testa.
Presto il vento invernale avrebbe preso a soffiare con maggiore forza,
tagliente
come una tempesta di coltelli, probabilmente portandosi dietro la
pioggia, se
non addirittura la neve.
Ormai
conosceva quella minuscola isola e il suo
clima come le sue tasche; dopotutto la abitava da ben due mesi. Sospirando si rivolse al
piccolo falò dove
stava preparando la cena, e diede qualche mescolata al contenuto del
pentolino
che rischiava di attaccarsi al fondo. Lupin quella sera avrebbe avuto
spaghetti
al pomodoro per cena. Sempre
se si fosse
miracolosamente deciso a mangiare, questa volta. Lasciò che
il vento spegnesse
la fiamma, che aveva fatto il suo lavoro. Versò il contenuto
in un piatto di
carta e aggiunse una forchetta, di plastica.
Niente
metallo o coccio per un ladro che poteva
trovare ben più di un uso impensabile in semplici stoviglie.
Raggiunse
in un attimo la prigione in cui
sorvegliava il suo ospite. Assomigliava ad un gigantesco e massiccio
cubo di
roccia e metallo, ma l’ispettore sapeva che era ben
più di questo, se Lupin da
ben sessantotto giorni non era ancora riuscito ad uscirne. In effetti solo lui
dall’esterno poteva aprire
la porta, dall’interno era semplicemente impossibile farlo.
Lui era l’unico
contatto tra l’esterno e l’interno del cubo. Bussò come sempre
sullo spioncino di metallo.
“Ehi,
Lupin. La cena è pronta!” annunciò con
ben
poco entusiasmo.
“Oh,
Zazà. Quindi è già sera?”
chiese la voce di
Lupin, una voce bassa e sottile, da vecchio sotto dialisi.
Zenigata
sollevò lo spioncino e introdusse il
vassoio con il cibo, spiando l’interno della prigione.
Due
occhi scuri, circondati da occhiaie violacee
incontrarono i suoi.
La
sua salute peggiorava di giorno in giorno, con
lentezza ma inesorabilmente, tanto che probabilmente anche i suoi
colleghi di
furto avrebbero avuto difficoltà a riconoscerlo.
“Prendilo
e mangia tutto, questa volta.” gli
intimò il poliziotto.
Lupin
si limitò ad afferrare il piatto con le
mani, le cui nocche sporgevano pericolosamente quasi a voler perforare
la pelle,
e ad alzarsi per portarlo ad un angolo della prigione. Zenigata poteva
sentire
chiaramente il secco scrocchiare delle giunture del ladro mentre
compiva quei
pochi passi. Non avrebbe mangiato neanche stavolta.
No,
avrebbe lasciato il cibo in un angolo, per poi
mettersi a dormire o mormorare, o semplicemente fissare il vuoto.
L’ispettore
lo aveva osservato spesso, i primi giorni di prigionia, sperando in un
qualche
suo tentativo di escogitare un piano di evasione, che lui avrebbe
volentieri sventato,
ma per ore e ore il manigoldo non si metteva a fare altro
che…beh, nulla! Assolutamente
nulla!
Non
era quello Arsenio Lupin III, il ladro in
grado di evadere da qualsiasi prigione, grazie alla sua incredibile
astuzia? Il
ladro capace dell’impossibile?
Zenigata
si trovava a rimanere sveglio la notte
nella sua tenda, assorto nel pensiero, nel desiderio di trovare la
cella vuota
la mattina successiva o anche solo assistere ad un tentativo di fuga.
Desiderio
che puntualmente non si realizzava. Un desiderio vergognoso per un
poliziotto
quale era, ma non poteva farci nulla.
La
cattura di Lupin non gli aveva portato la pace
che cercava da tutta la vita. Tutt’altro.
Aveva
impiegato gran parte della sua vita ad
inseguirlo e questo, si era reso conto in quei giorni, era
ciò che gli aveva
dato maggiore soddisfazione, nonostante il continuo affanno. Una vera e propria ragione
d’essere. Ma ora
che finalmente il manigoldo era dietro alle sbarre, lui non era felice.
Anche
lui passava ore di apatia e noia, in quell’isola minuscola in
mezzo
all’Adriatico. Certo, aveva un collegamento – non
troppo diretto viste le
interferenze- con il commissariato, grazie alla radio di linea. Ogni
mese lo
raggiungeva un poliziotto col motoscafo con una grossa scorta di viveri
e altri
generi di prima necessità, come era accaduto giusto la
settimana prima. Ma
ciò non lo rendeva soddisfatto e passava
giorni e giorni divenendo sempre più inquieto. Per quanto a
lungo sarebbe
andato avanti?
Quel
giorno, osservò con attenzione il ladro
poggiare il piatto in un angolo, assieme a decine di altri piatti
intatti, come
sempre. Poi alzarsi con la solita lentezza. E infine cadere a terra,
praticamente a peso morto.
Stavolta
Zenigata trasalì.
Questo
non era mai capitato. Sapeva che il ladro
era debole per via della mancanza di cibo, ma non aveva mai perso
l’equilibrio.
E non accennava a rialzarsi. Attese per minuti interminabili ma non
accadde
nulla. Pur appoggiando l’orecchio alla porta di metallo non
riusciva ad udire
niente, che assomigliasse lontanamente ad un respiro o un gemito. Solo
i rumori
naturali delle onde e del vento.
Iniziò
a preoccuparsi seriamente, non sapendo cosa
fare. Poteva trattarsi benissimo di un nuovo stratagemma di fuga del
ladro. Ma
mentre i minuti passavano l’idea risultava avere sempre
minore credibilità. Del
resto, anche la sua resistenza fisica doveva aver raggiunto un limite.
Forse
stavolta stava veramente male. E aveva
bisogno d’aiuto. Non era un medico, non poteva saperlo da una
semplice
occhiata.
L’incertezza
e l’indecisione si affollavano nella
sua mente. Alla fine, dato che il prigioniero non accennava a muoversi,
decise
di andare a controllare.
Le
sue dita esitanti trovarono le chiavi che
inserì una alla volta nella serratura del pesante portone
della prigione.
Digitò
il codice di apertura e attese.
Di
lì a pochi istanti, la granitica porta si aprì
con un cigolio basso. Si
sarebbe
richiusa nello stesso modo, nei novanta secondi successivi, per cui
l’agente di
polizia doveva fare in fretta.
Lupin
giaceva ancora lì sul pavimento, immobile.
Zenigata
attraversò il portone senza neanche
attendere che si fosse aperto del tutto e con uno scatto raggiunse il
ladro e
lo esaminò con attenzione. Notò subito un
bernoccolo sulla sua fronte. Il
battito, come capì stringendogli il polso magrissimo,
c’era, ma piuttosto
debole e irregolare.
Inoltre,
notò con orrore un piccolo rivolo di
sangue uscire dalla bocca del giovane, che gli bagnava la barba
incolta.
Gli
sollevò i piedi e lo chiamò per nome
più volte
ma lui sembrava non potersi svegliare per così poco.
Con
controvoglia gli appioppò un paio di
schiaffoni che però non parvero sortire effetto. Sempre più
spaventato, mentre la sua mente
andava in tilt, lo strinse a sé con forza, sentendo che quel
debole corpo non
faceva resistenza. A dire il vero non aveva un vero motivo per farlo ma
neanche
cercò di trovarlo. E poi udì la voce fievole del
ladro.
“..zà…”
“Cosa,
Lupin? Sei… sveglio?”
“Orta….”
Continuò il manigoldo.
L’agente
accostò l’orecchio per sentirlo.
“Zazà…”
ripeté Lupin debolmente.
“Cosa
c’è, Lupin?” chiese preoccupato.
“La
porta...”
“Quale
porta?” chiese confuso.
Lupin
la indicò. Indicò il portone di ingresso
della prigione, mentre si stava ormai inesorabilmente chiudendo. Rimase
un
unico filo di spazio per la libertà, poi anche quello
sparì.
“NOOOOOO!”
urlò l’ispettore ma era troppo tardi.
Non si era accorto del tempo che era passato e, un istante dopo, il
portone si
chiuse automaticamente, lasciandoli nel buio della cella.
II
“Ti
ho detto che è inutile fare tutta questa
scena, ormai il danno è fatto…”
sussurrò seccato per l’ennesima volta Lupin
III.
Senza
ascoltarlo, Zenigata picchiò la testa contro
il muro per la trecentesima volta.
Era
l’unico modo che aveva trovato per esprimere
la sua frustrazione. Erano
rimasti
chiusi dentro ed era tutta colpa sua!
Aveva
lasciato la ricetrasmittente, le sigarette, il
cellulare, la pistola… ogni dannata cosa al di là
di quella porta impenetrabile,
che solo lui poteva aprire. Dall’esterno, dato che aveva
preso ogni possibile
precauzione. Erano completamente isolati dal mondo.
“Almeno
tamponati quella ferita!” esclamò il
ladro, indicando la propria fronte.
Stupito,
l’ispettore ripeté il gesto, trovando del
sangue sulla punta delle dita. Era talmente sconvolto da accorgersi a
malapena
del dolore.
La
polizia avrebbe trovato il loro cadaveri di lì
ad un mese, forse più tardi. Cadaveri già
scheletrici, di due morti di stenti.
“Non
pensavo fossi capace di concentrarti tanto, Zazà.
Beh, in ogni caso, potrebbe servirti, in questa situazione.”
scherzò Lupin
ridendo tra i baffi.
“Ma
fa silenzio. É anche colpa tua se ci siamo
ritrovati chiusi dentro.”
“Non
proprio, diciamo un cinquanta e cinquanta.”
valutò Lupin. “Vedi, il piano era leggermente
diverso. Dovevo cadere a terra
fingendomi in fin di vita varie volte, fino a che tu non mi avresti
aperto
credendomi veramente morto… solo che… ho valutato
male la mia fame e sono
svenuto per davvero.”
“Lupin
che fa un errore di calcolo? Mi giunge
nuova!”
“Se
tu mi avessi svegliato prima le cose sarebbero
andate diversamente.” mormorò il ladro.
“Sì?
Cosa pensavi di fare, di preciso?”
“Beh,
mi sarebbe bastato sgusciare dalle tue
braccia da gorilla e andarmene in qualche modo dall’isolotto.
Molto semplice.”
Zenigata
valutò o meno se tentare di strozzarlo
per la battuta del gorilla. Decise che per il momento non ne valeva la
pena.
“Quindi
ora che si fa? Non hai escogitato nessun
piano B? Anche C,
mi accontento.”
Lupin
scosse la testa. “Veramente no. Questo era
l’unico piano a cui avevo pensato. Ho dato indicazioni
precise anche ai miei
compagni, e non interverranno. Non ho modo di comunicare con
loro.”
Zenigata
lo osservò con attenzione. Sembrava insolitamente
sincero. “Mah…
allora tanto per
rimediare mettiti a pensare ad un nuovo piano, oppure qui ci lasciamo
le pe….”
Fu interrotto da un potente gorgoglio proveniente dal suo stomaco vuoto.
“Zazà,
non hai cenato, sembra!” scherzò Lupin.
“Cosa posso offrirti? Sei mio ospite, dopotutto!”
“Io
non mangio con un criminale.” protestò
l’ispettore. Un istante dopo un piatto familiare lo
raggiunse, fatto scorrere
sul pavimento da Lupin.
Un
piatto carta colmo di spaghetti, assieme ad una
forchettina di plastica.
“Credo
sia buono ma non saprei, dovrei chiedere al
cuoco.” lo avvertì ironico Lupin. “Ce ne
è abbastanza per entrambi, ed è meglio
se ci abituiamo subito a dividerci i pasti, perché ci rimane
solamente quello
che mi hai cucinato finora, e non tutto è in buono stato di
conservazione!”
commentò, e divise a metà il pasto, consegnandolo
al commissario. “Comunque
buon appetito!”
Zenigata
era troppo affamato per pensare
all’orgoglio. Mangiò in un misto di sentimenti di
rabbia, imbarazzo e
soddisfazione. Dovevano trovare un modo per uscire da quella prigione.
III
“Secondo
me in questo modo consumerai troppe
energie.” mormorò Lupin.
“Chiudi...
quella fogna… criminale…”
sospirò
Zenigata, terminando l’ultima serie delle sue cinquecento
flessioni e
lasciandosi finalmente cadere a terra. Il corpo ringraziò
rilassandosi
completamente sul pavimento polveroso. Stava diventando troppo vecchio
per
queste cose. Un tempo avrebbe finito esercizi del genere senza neanche
sudare,
mentre adesso avrebbe impiegato un bel po’ anche solo per
rialzarsi. Si limitò
a voltare la testa per controllare Lupin.
Lo
osservò mentre dava gli ultimi ritocchi a
quella che chiamava “L’asta della
salvezza”.
Per l’ispettore si trattava semplicemente del
“Bastone fatto di
spazzatura”. Aveva legato tra loro, con i capelli, tutte le
posate utilizzate
finora in un’asta lunga più di due metri, assai
instabile. Una volta sistemata,
con accortezza la fece passare attraverso l’apertura dello
spioncino. Puntava a
raggiungere la tenda, e magari a riuscire a portarsi dietro qualche
oggetto
utile. Forse perfino la ricetrasmittente per chiamare aiuto. Zenigata
non
capiva il motivo per cui si ostinasse tanto. Ormai erano tre giorni che
tentava
inutilmente. Forse stava tentando di occupare il tempo in quella
scatola di
cemento. O magari stava semplicemente impazzendo, dopo tutte quelle
settimane
chiuso dentro, e inattivo. Ma era davvero completamente inattivo?
Magari era tutta
apparenza.
E
se… tutto questo fosse stato architettato per
prenderlo in giro? Forse Il farabutto sapeva già da tempo
come uscire da lì,
stava semplicemente cercando di distrarlo per poi fuggire nel momento
più
opportuno. Poteva
anche essere vero, si
disse Zenigata, deciso a non abbassare la guardia.
Lupin
era talmente concentrato sul suo lavoro che,
quando l’asta si spezzò, non se ne accorse subito.
Continuò a muoverla finché
non la tirò a sé nella cella, ritrovandosi con un
inutile moncherino tra le
mani.
Imprecò
tra i denti e si massaggiò la fronte, le
dita ossute che si muovevano come zampette di ragno.
Poi
si rimise nella posizione di meditazione che
Zenigata conosceva ormai sin troppo bene.
“Beh,
non costruisci un’altra Asta della Salvezza?”
chiese il poliziotto, giusto per punzecchiarlo un tantino.
“Non
ne avrei motivo, ho appurato che questa
strategia non funziona, e ne inventerò
un’altra.” mormorò lui, incrociando le
gambe e le braccia, e chiudendo gli occhi. Zenigata sapeva che questo
terminava
la discussione, il ladro era già nel pieno della sua
meditazione.
Questo è
quello che dici a me, ma cos’avrai davvero in mente, Lupin?
IIII
“E siamo a
dodici.”
sospirò Zenigata, barrando le righe che aveva inciso con
difficoltà grazie ad
un coltellino di plastica, sul muro della prigione. Segnare il tempo
era
l’ultimo rimasuglio di quotidianità che gli
rimaneva.
“Oh,
sono precise, penso che tu stia imparando qualche
trucchetto da galeotto!” esclamò Lupin, sollevando
la testa dalla posizione del
“Cane a testa in giù”.
Negli
ultimi tre giorni si era dato allo yoga per
sfuggire alla noia e all’apatia.
Zazà
si limitò a fare una smorfia. Aveva imparato
ad ignorarlo. Si accostò al minuscolo fuocherello in un
angolo della stanza.
Lupin
era riuscito a recuperare un paio di sassi,
che se sfregati potevano produrre scintille. Ora potevano
scaldarsi… il minimo
indispensabile per non crepare di freddo. Cosa che negli ultimi giorni
non
sembrava troppo inverosimile, visto che le temperature si erano
abbassate. La
sera precedente refoli di neve erano filtrati dalle sbarre delle
minuscole
finestre, una delle poche fonti di luce di quel bugigattolo, ricoprendo
di
bianco parte del pavimento sottostante, come un tappetino di benvenuto.
“Sarà
ora di spegnerlo, stiamo finendo il
combustibile, e manca ancora qualche ora al tramonto.”
osservò il ladro,
voltandosi appena mentre ingarbugliava la testa e le braccia sotto le
gambe.
“Sì,
sì, fammi almeno finire il pranzo.”
ribatté l’ispettore,
arrostendo un paio di marshmallow, per quanto le mani tremanti gli
permettevano.
Odiava come gli desse degli ordini così liberamente; lui lo
aveva arrestato, e
lo aveva fatto imprigionare, dopotutto. Lui era il suo carceriere.
Se
solo lo avesse catturato in Giappone, si
sarebbe evitato tutto questo. Ma in quel caso Lupin avrebbe rischiato
grosso,
perfino la pena capitale, e allora…
Un
paio di potenti starnuti lo dissuasero da quel
pensiero. Da qualche giorno starnutiva sempre più spesso.
Forse non si trattava
di un semplice raffreddore. Anche i tremori che sentiva lo
preoccupavano. Ma in
quel caso, poteva trovarsi in guai seri, nessun medico poteva curarlo
se neanche
poteva raggiungerlo.
Ma
quale carceriere? Erano entrambi due
prigionieri, nelle stesse condizioni. Era una lotta alla loro
resistenza
fisica. Ma sarebbero arrivati i soccorsi, con i rifornimenti di cibo,
questo
era sicuro.
Certo,
di lì a poco meno di due settimane.
Come avrebbero potuto sopportare altro tempo lì
dentro?
Starnutì
di nuovo. E stavolta Lupin lo zittì
seccamente.
“Piano…
spaventi la cena...”
sussurrò, indicandogli qualcosa nell’angolo dove
stipavano gli avanzi, quello che
sembrava un batuffolino di pelo.
No…
era un topolino.
Un
minuscolo topolino
che stava frugando tra i loro avanzi. Doveva essere entrato tramite lo
spioncino della porta. Sembrava ignorarli, la coda lunghissima che si
agitava
in minuscole onde.
I
baffetti fremevano
mentre si muoveva attorno ad un piatto di patatine ormai dure quanto le
mura
della prigione. Ma ancora commestibili.
Lupin
azzardò un paio
di passi, aiutato da una vita di fughe e furti ad essere il
più silenzioso
possibile.
Il
roditore parve non
notarlo, impegnato com’era a masticare le patatine.
Dodici
giorni prima, l’ispettore
avrebbe dato del pazzo a chi gli avrebbe proposto un topolino come cena.
Dodici
giorni prima,
però, non sapeva cosa significasse patire la fame.
Valeva davvero la pena abbassarsi a tanto?
si chiese l’ispettore in
un sincero esame di coscienza.
Un
istante dopo si
avventò contro Lupin.
“NO,
É MIO!!!” esclamò in
preda alla fame.
Il
ladro fu colto alla
sorpresa e crollò a terra, sotto il suo peso.
“Che
stai facendo?”
esclamò.
Il
topolino si accorse
dell’aria che tirava e ne approfittò per afferrare
quante più patatine poteva e
sgusciare via a razzo, verso la libertà. Lasciando i due da
soli.
“Stupido
imbecille!”
urlò Lupin, e colpì l’ispettore con un
pugno dato da tutta la flebile forza che
gli rimaneva. Fu abbastanza per scrollarselo di dosso.
Zazà
si rialzò a
fatica, e si massaggiò la guancia dolorante. Lupin non era
mai stato un tipo
manesco, ma la rabbia e la frustrazione dovevano aver preso il
sopravvento. E
mentre rifletteva su questo, il manigoldo lo accostò, pronto
a tirargli un
calcio. Stavolta, l’uomo non si fece trovare impreparato e
gli acchiappò una
caviglia, prima che il piede riuscisse a colpirlo, cercando di
sbilanciarlo; Lupin
però, facendo peso con l’altra gamba,
riuscì a svicolarsi e roteando la gamba
libera lo colpì ad una spalla.
A
questo Zenigata
rispose con un pugno rabbioso, che fu subito ricambiato dal manigoldo.
Continuarono
a menare colpi
l’uno all’altro, ormai spinti più dalla
frustrazione che da un vero motivo. E
nonostante l’ispettore fosse meno debilitato dalla fame, ebbe
presto la peggio,
e un ulteriore pugno preso in pieno naso lo fece crollare a terra, come
un
sacco di patate (che avrebbe mangiato volentieri).
E
da lì non si rialzò.
“Cavolo
Zazà, non sei
molto bravo nelle risse.” commentò Lupin
accostandosi a lui, il volto ridotto
ad una maschera gonfia.
“Sta
zitto, manigoldo!”
fu la seccata risposta, seguita poi da un accesso di tosse che si
fermò dopo
parecchio tempo.
“Non sembri
ridotto molto bene.” disse lui
ignorandolo, e gli toccò fronte e collo.
“Diamine, no, sei bollente!”
Lui
tossì ancora.
“Quanto
pensavi di
nasconderlo?”
“Lasciami
in pace, non
è affar tuo… non toccarmi!”
protestò, mentre Lupin gli puliva il sangue dal
naso con un lembo della casacca da carcerato, ormai di un verde spento.
L’uomo
oppose sempre
meno resistenza, ormai sfiancato, mentre Lupin recuperò la
coperta che usavano
come letto e lo avviluppò completamente.
L’ispettore
continuò a
borbottare in maniera confusa ancora per un po’,
finché come un bimbo, non
crollò all’abbraccio del sonno e della stanchezza.
IIIII
Fu
svegliato improvvisamente da dei suoni acuti
che non riuscì a decifrare. Prestando ascolto
capì meglio.
Erano
uccelli, che anche in quell’isola sperduta
salutavano l’arrivo del mattino.
L’ispettore
si strofinò gli occhi che faticavano a
mettere a fuoco con la tiepida luce dell’alba.
Nonostante
la costrizione del vivere in quella
prigione, in quell’attimo si sentì veramente in
pace, e al caldo.
Cercò
di voltarsi e si scontrò con qualcosa, che
capì essere la schiena di Lupin.
Realizzò
allora che dovevano dormito vicino, sotto
la stessa coperta.
Era
ancora troppo intorpidito per potersi
sconvolgere, e troppo debilitato per spostarsi. E inoltre non vedeva
buoni
motivi per scappare dall’abbraccio di quella coperta,
comunque confortante.
In
effetti, si rese conto di non aver mai dormito
tanto bene, da quando era rimasto rinchiuso. Di solito si limitava a
prendere
un esile lembo di coperta solo per sé, ben poco calorosa,
allontanandosi il più
possibile dal manigoldo, e ciò che ne risultava erano solo
dolori alla schiena
nei giorni successivi, e un riposo sempre frammentato.
Provò
almeno a mettersi a sedere, ma fu scosso da
tremende vertigini che lo costrinsero a desistere. Non era guarito, non
ancora.
“Siamo
mattinieri, Zazà.” lo salutò la voce
roca
del ladro, che al contrario di lui era in grado di mettersi seduto.
“Vuoi una
mela per colazione? Dovrebbero essercene almeno quattro o cinque ancora
buone.”
L’ispettore
accettò con un grugnito e cominciò a
mangiare.
“Se
il tempo peggiorerà ancora dovremo trovare dei
nuovi modi per non congelarci. Magari cercare più
combustibile, per accendere
il fuoco più spesso. Potremmo anche cominciare a dormire
vicini, eh! Non è più
il tempo di essere schizzinosi!” propose il manigoldo,
ridacchiando, e dando un
morso alla sua mela, di un giallo pallido.
Zenigata
finì di masticare un boccone. Deglutì. La
mela era dolciastra ad un livello nauseante, per lo più
coperta da un velo di
un marrone malaticcio, ma doveva mangiarla.
“Hai
mai pensato a cosa farai una volta uscito da
qui?” la buttò lì. Non c’era
un grosso motivo per cui fare conversazione, ma
era effettivamente curioso.
“Vediamo…”
rifletté il ladro, incrociando le
lunghe gambe “Direi che prima di tutto vorrei mangiare un
piatto gigante di
spaghetti. A Roma c’è un ristorante che li cucina
benissimo, e sono, come dicono
in Italia, la fine del mondo! Poi una doccia di un’ora, e
ovviamente, dopo…” e
sorrise malizioso, riducendo gli occhi in due minuscole fessure
“L’amore con le
donne che amo. Fujiko e Rebecca, non necessariamente in
quest’ordine. O magari
entrambe assieme, perché no?”
Zenigata
sbuffò, ma lo conosceva troppo bene per
scandalizzarsi. “E come le convinceresti a farlo?”
“Beh,
non vedrebbero l’ora, dopo mesi di attesa. E
poi credo sia una innocente richiesta, dopo tutto questo tempo passato
a
dormire da solo… o con uno scimmione come te.”
Se
ne avesse avuto la forza, l’ispettore lo
avrebbe per lo meno colpito ad un braccio, ma lo sentiva come annegato
nella
melassa.
“Sono
un uomo semplice, dai bisogni semplici.”
disse il ladro. “E tu, invece?” chiese, dandogli
una gentile gomitata.
L’ispettore
ci rifletté seriamente. “Voglio
mangiare una porzione gigante di katsudon in un ristorante giapponese.
Voglio
farmi una doccia. Ma più che altro, voglio guidare
l’auto della polizia a tutta
velocità, mentre ti inseguo, Lupin.”
Il
ladro ne fu talmente sorpreso da quasi far
cadere la mela ormai quasi ridotta ad un torsolo.
“Cos’è
questa, Paparino, una dichiarazione, eh?”
chiese dandogli un’altra gomitata.
“No…
è solo che… mi manca…”
“Cosa?”
“La
routine che abbiamo noi due. Sai, darti la
caccia in giro per il globo, cercare di arrestarti e fallire
miseramente. Beh…
quasi sempre.” Guardò
il muro dipinto di
un grigio chiaro dalla luce dell’alba e sospirò.
Riuscì a piegare le gambe e
avvicinarle al petto, in modo da far circolare meglio il sangue.
“Ma questo eterno
e infinito inseguimento … mi dà uno scopo. In un
certo senso è come se sapessi
che non potrei vivere in altro modo, una vita normale non avrebbe
senso. E il
bello è che me ne sono accorto solo quando sono finito qui,
solo quando la
caccia era finita. Giorno dopo giorno si è fatta sempre
più forte… questa
strana nostalgia.”
Lupin
non disse neanche una parola, ma guardò
anche lui i muri della loro prigione.
“Vorrei
tornare tanto alla mia vita di prima… la nostra
vita, Lupin. E ho la sensazione
che manchi molto anche a te.” sussurrò, mentre la
chiudeva gli occhi, perché la
luce dell’alba poggiata su un semplice muro non valeva quanto
vederla
veramente, sotto il cielo invernale.
IIIII
I
“Bevi.”
Resistere,
non si tratta altro che di questo.
“Bevi,
avanti!” insistette Lupin, accostandogli
alla bocca un bicchiere fumante.
Zenigata
accettò con una smorfia. Deglutì a fatica
quella robaccia amara che il ladro gli stava propinando da almeno
quattro
giorni. O forse erano sette. Non lo capiva più.
Ma ormai
mancava poco. Solo qualche giorno di prigionia. I soccorsi arriveranno.
A
volte si metteva seduto a guardare i fiocchi di
neve che danzavano nell’aria. Altre volte riusciva perfino a
stare in piedi per
qualche minuto. Dannata febbre. Mai come in quel momento avrebbe
desiderato un
paio di aspirine annegate in un bel bicchierone di whiskey.
“Bravo.
Adesso riposati un po’.” disse il ladro.
Come se avesse fatto altro che vegetare negli ultimi giorni!
Voltandosi
a fatica lo vide intento a perfezionare
un altro di quei bastoni, o Aste della Salvezza. Stavolta avevano dei
ganci, e
sembravano più resistenti. Con quella era riuscito a
prendere dei mestoli,
qualche bastone per il fuoco, addirittura una giacca, e a strappare
qualche strana
erba, che usava in quei decotti disgustosi. Avrebbero dovuto
abbassargli la
febbre, o almeno così diceva Lupin, ma riuscivano giusto a
riscaldarlo. Meglio
di niente.
Qualunque
cosa tu abbia in mente, è meglio che la faccia alla svelta, manigoldo, riuscì a pensare,
mentre si
abbandonava a quello che poteva essere il quarto o quinto pisolino
della
giornata.
IIIII II
Voci,
tante voci quante non ne sentiva da una
eternità. Voci allarmate, e poi uno schianto.
Poi
la luce, sempre più accecante, che i suoi
occhi abituati a giorni di oscurità non riuscirono a
sopportare.
Un’altra
voce, stavolta di Lupin, che urlava
“Presto, muovetevi! É in fin di vita! Soccorrete
lui! Presto!”
Chi sarebbe
in fin di vita? Provò a chiedere
l’ispettore, ma la sua lingua era una
spugna secca, e la bocca era serrata, impossibile da aprire. E intanto
lo
sollevavano mani robuste. Lo coprivano fino al mento. E lo portavano
fuori,
anche se non poteva vederlo; perché la mattina risplendeva
in tutta la sua gloria
inondandogli gli occhi di luce, e l’odore della salsedine si
insinuava
prepotente nelle sue narici, e il rumore degli schizzi sugli scogli lo
frastornava.
E
qualcuno urlava “Prendetelo! Sta scappando!”
“Dannato
farabutto!”
“Torna
qui!”
L’agente
di polizia abbozzò una specie di sorriso.
Chi sarebbe
in fin di vita? Io no di certo, ho appena ripreso a vivere.