Libri > Mitologia greca
Segui la storia  |       
Autore: Avareil    08/08/2018    3 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quel che viene dopo
Parte 2 
(Rating rosso)
 
 
Tu che vivi, spirito benevolo,
sul colle d’Elicona e affidi,
al dio oscuro, la tenera vergine
rapita,
e le cingi il capo,
o Imeneo,
co’ fiori di maggiorana profumata.
Qui vieni col tuo piede
bianco fasciato d’oro:
eccitato dall’allegria
del giorno,
canta dolci inni nuziali.
 
Il nome di Imeneo, benevolo protettore degli sposi, veniva invocato dalle giovinette avernali e il suo canto nuziale, dolce come miele e caldo come ambrosia, si insinuava lento nella mente della dea trepidante.
Lo chiamavano, Imeneo, le ancelle di quei luoghi, in una nenia sottile pronunciata a fior di labbra; Emisu, davanti alle altre, fungeva da giuda e, con una candela in mano, illuminava il passo.
Tremava, Persefone, e il respiro, leggermente accelerato, piano piano si tramutava in bisbiglio intonato, preghiera sommessa rivolta a quell’Imeneo di cui tanto, da bambina, aveva sentito invocare il nome durante i riti nuziali.
Eppure era diverso, completamente diverso onorarlo lì, tra le ombre nere e luminose dell’Averno mortifero. Nessun rumore, nessun urlo sguaiato, non una goccia di vino vermiglio rendeva quella celebrazione sgangherata e sconcia mentre quella cantilena solenne faceva vibrare le corde del cuore in una lenta e intima preparazione dell’animo.
Presto sposa, Persefone piangeva sommessamente, emozionata dal pensiero di quella felicità afferrata e difesa con le unghie e con i denti in nome di un amore fin troppo ostacolato.
 
Oggi, Persefone, kore dei boschi,
abbraccia altari neri,
a Ade va sposa, sovrano d’Averno
giusto, e bella come la prima stella
del firmamento,
vergine si sposa
con gli auspici migliori, ornata
di bianchi asfodeli.
 
Le voci, ora ridenti e vive, celebravano il nome della sposa casta mentre una giovane dal volto pallido recava in offerta un mazzolino di narcisi gialli impreziosito con gemme e nastri variopinti. Così, accompagnata da volti amici, era stata condotta nei pressi delle sue stanze dove porte spalancante rivelavano uno stuolo di ninfe avernali benevoli.
Il suo corteo.
 
Vieni dunque,
Imeneo, e senza fermarti
lascia le grotte delle Muse,
bagnate dalle fresche acque
e richiama la padrona, invitala
presso le stanze
stringendo in un nodo d’amore
lo sposo,
come intorno al tronco si avvinghia
con la sua forza, l’edera.
 
Le aveva abbracciate ad una ad una, a ciascuna mormorando un grazie umido e commosso.

Nessun dio è più implorato
da un amante riamato,
nessuno è più onorato
da noi, O Imeneo.
In tuo onore scioglierà
la vergine la sua veste e
col timore del desiderio
ti ascolterà il marito, e tu,
o Imeneo,
tu strappandola al grembo
della madre, concedi a un dio fiorente
e imperscrutabile una fanciulla appena
in fiore, ridente come la vita stessa.
 
Mani, piccole e fredde, poggiate con delicatezza sulle spalle, la conducevano nella camera adiacente dove un’immensa vasca di acqua calda era stata preparata per la sua detersione.
Allentate le fibbie, sciolti i lacci, Persefone rimaneva nuda al cospetto del suo piccolo corteo e, rivestita di umile nobiltà d’animo, si immergeva nelle acque ristoratrici affinché Emisu e le altre potessero sciogliere la crocchia scomposta, districare i nodi, frizionare le membra stanche per donar loro nuovo vigore.
 
Invocato dal canto, giungo presso
le tue camere e vedo che
il pudore colora le gote nivee ma,
sentendo da lontano la voce
dell’amato, ora che ti prepari ad
andare,
non piangere.
Non c’è pericolo
che i tuoi occhi si colorino di
tristezza.
 
Dove sei, dunque?
Esci, sposa bambina.
Ascolta Imeneo impetuoso e
guarda come s’è fatta brillante
per te
la volta del cielo d’Averno.
 
 
Massaggiavano la pelle morbida, pettinavano le chiome ribelli e fluenti, aspergevano il volto con olii e acqua calda affinché il tormento del ricordo lasciasse spazio alla gioia trepidante del futuro. Fresca e profumata, la giovane dea, apriva nuovamente gli occhi, ora felici e tormentati dall’attesa.
 
Esci, esci bambina.
Non hai un marito irrequieto
che per cercare in qualche avventura
il piacere del tradimento
voglia riposare lontano
dal tuo bianco seno.
Come la vite flessuosa
abbraccia gli alberi vicini, lui
dal tuo abbraccio sarà
vinto.
Ma il giorno corre:
esci sposa, chiama lo sposo presso
l’altare ornato.
 
Un meraviglioso lino candido cingeva il suo corpo ora ripulito, ora risanato, sottolineando le curve morbide dei fianchi e delle cosce; dietro di lei, Emisu, le offriva con reverenza un piccolo coltello affilato.
In un colpo secco, Persefone ridente, aveva reciso una ciocca di capelli e con un’espressione dolce dipinta in volto, si era recata al cospetto del caldo braciere avernale.

“Dolce Estia, dea del fuoco familiare, accetta il mio voto e lega la mia promessa agli dei benevoli. Rincuora la madre, sostienila e bisbiglia al suo orecchio la mia felicità”.

Compiuto l’amabile sacrificio si era nuovamente affidata alle cure delle ancelle, adesso intente nell’ acconciarle i capelli in modo da lasciare il capo sgombro da qualsiasi ornamento. La corona, ripetevano, andava posta su di esso affinché riflettesse la sua nobiltà di cuore e il voto imperituro ad Ade, signore e padrone di quei luoghi.

Il solo sentir pronunziare il suo nome le faceva tremare il cuore.

O Imeneo, dolce Imeneo,
conduci alla porta la sposa e
mostra lei il marito
impaziente
presso l’altare nero.
E dille, o Imeneo.
che anche dentro il suo petto brucia
la stessa fiamma che la infuoca
ma più profondamente.
 
Lo sguardo luminoso e perso in ricordi dolci, le labbra incurvate in sorriso tenue rendevano la sposa ancor più bella.
 
Accompagnatela, ancelle.
Tenete la sua mano e conducete
il passo incerto verso i luoghi
in cui lui l’attende.
Invocate ancora, col canto
 Imeneo, Imeneo benevolo,
finché la candida vecchiaia immortale,
con il tremito delle tempie,
li colga uniti.
 
Emisu, tremante, le aveva infine offerto un nuovo mazzo di fiori, ancor più bello e prezioso del precedente.

“Sono Asfodeli, dolce signora. Fioriscono spontanei e forti da quando siete qui”.

Sull’uscio di quelle camere che si apprestava ad abbandonare per sempre, Persefone aveva stretto al seno quel piccolo essere.

“Grazie”. Un bisbiglio umido di lacrime.

Poi, avevano ripreso il cammino: armonioso coro, le ninfe d’Averno, invocavano Imeneo, dio benevolo, protettore degli sposi.


°°°
 
 
Se gli avessero esplicitamente chiesto in che modo fosse arrivato lì, nelle sue camere, non avrebbe saputo rispondere con lucida certezza.
Pianificata la cerimonia, stabiliti i riti e i sacrifici, si era mosso a passo lento verso quelle stanze che, di lì a poco, avrebbe definitivamente salutato.
Da tempo, infatti, maturava nel cuore il desiderio di una vita intimamente vissuta in comunione con lei e lei soltanto. Avido della sua presenza, non avrebbe mai diviso con nessun altro il loro poco tempo.

Si dice, sposo d’Averno,
che il vostro regno non sia avvezzo
alla gioia, ma io leggo
sul volto sereno,
una speranza.
 
Si dice, sposo oscuro,
che non sappiate regalare sorrisi
ma dovrete farlo,
a volte.
Certo, la serietà è dovere lecito per voi,
re nero,
ma ad un marito nemmeno questo
è concesso se la sposa vive
sola e triste.
 
Radamanto, alle sue spalle, recitava quel carme con un sorriso dipinto sulle labbra morbide da gatto.
Distratto dal flusso di pensieri, il dio, non aveva colto la sua presenza ma, udite quelle parole, simili ad uno strano e barcollante inno, aveva riso di gusto allungando una pacca verso la spalla del giudice.

“E’ bene che non percorriate da solo questo lungo corridoio, mio signore.”

“E dunque vi fingete corteo di vergini avernali e intonate per me il canto dello sposo?”

“Certamente, mio re”.
 
Un riso sghembo illuminava il volto di entrambi.
 
“Vorreste preparare le mie vesti?”
 
Toccato da quella proposta fraterna, Radamanto aveva chinato il capo rispettoso.

“Ne sarei onorato, mio sovrano”.
 
“Andiamo allora”.

Sorridente, Ade aveva ripreso il passo verso le camere e lì, lasciato Radamanto alla scelta e alla cura degli abiti cerimoniali, si era recato presso il bagno, agognando il calore delle acque ristoratrici.
Non aveva guardato il letto ricoperto di morbide pelli nere, non aveva osato gettare alcuno sguardo verso il camino scoppiettante e caldo ai cui piedi si stendeva un morbido tappeto: la ferrea volontà di mantenere la mente sgombra da qualsiasi pensiero gli vietava di soffermarsi su quella parte di arredamento.
Per questo motivo, rapidamente raggiungeva il lavabo ricolmo di acqua limpida, e lì dava inizio alla sua purificazione.
La lama del rasoio scendeva impietosa sul volto barbuto rivelandone uno etereo, affilato e spigoloso in cui campeggiavano occhi grigi e liquidi, e sempre quella mano armata non aveva avuto pietà della chioma che, sciolta dalla severa coda che la imprigionava, era stata tagliata all’altezza delle spalle, conferendogli un aspetto regale e selvaggio al contempo. Li aveva poi lavati, profumati e tirati indietro, affinché gli occhi potessero saziarsi della figura candida che di lì a poco avrebbe riempito il suo orizzonte; il desiderio, bestia un tempo placidamente accucciata, iniziava a destarsi impetuosa.  

Ovviamente, il bagno nelle acque calde non aveva alleviato il suo tormento.

Neanche un po’.
 
“Mio re, vi aggrada la scelta?”

Ade, cinto in un morbido telo, osservava compiaciuto le vesti adagiate sul letto: la tunica nera, finemente lavorata in ghirigori argentati, la stola purpurea adorna di spilla raffigurante la testa di un lupo, animale sacro all’Ade e, infine, la kunée rosso vermiglio, emblema della forza invisibile del suo dominio.

“Grazie, Radamanto.”

In un inchino il giudice aveva lasciato le camere, e quando il dio, vestito da innamorato e dimentico della corona, si mostrava ai suoi occhi meraviglioso e fiero, aveva concluso lo sgangherato ma solenne inno:

E voi, dio oscuro, che il vostro amore
non nascondete a nessuno, che lo volete
al sole, e all’Orco, rischiarato dalla luce
degli astri,
abbracciate la sposa tremante e ditele
di quel tempo in cui
solo
l’attendevate.

 

°°°


 
Il casto corteo di giovani avernali aveva intonato un nuovo canto, sostegno lungo il cammino finale, alternando risate e scherzi gioviali a momenti di solenne raccoglimento in cui parole care venivano rivolte alla sposa agitata.
Persefone, infatti, gote rosse e sguardo umido, stringeva le mani intorno ai gambi dei fiori e tremava il cuore, sforzato dall’attesa.
Allo stesso modo procedeva il dio nero, accompagnato unicamente dal fedele giudice, ora entrambi silenziosi.
Il primo a varcare le soglie del tempio nero era stato proprio lui, il signore di quei luoghi, sebbene da lontano il coro di voci giovani fosse già percepibile;
questo lo aveva fatto sorridere.
In quelle immense sale, ora adorne di splendidi asfodeli bianchi e gemme e brillanti, campeggiava imponente l’altare rivestito di lussuosi drappi dorati.

Su di esso solo tre oggetti: un calice prezioso, un melograno avernale e la preziosa tiara.

“Mio signore, tutto è stato allestito come desideravate.”

Eaco, vestito di bianco, osservava benevolo il volto dell’avernale, ora segnato dall’impazienza, come è lecito per uno sposo.

“Ottimo, mio fedele. Adesso, manca solo la sposa”.

La battuta, divertente e assurda proprio perché proferita da labbra solitamente gelide e tirate, riscaldava l’animo dei convenuti: anime benevole, eroi illustri, saggi pensatori, esseri d’averno; pochi invitati, testimoni dell’unione sacra.

Ecco, dunque, un’attesa forse ancor più snervante della precedente: il coro di voci si udiva distintamente così come le risate pudiche delle ancelle, ma la porta nera, pesante e massiccia, non accennava a muoversi.

Per questo motivo, turbato, il re aveva dato le spalle al grande varco, incapace di reggere lo strazio della pazienza.
 
 

Un rumore strascicato di porta smossa, la voce armoniosa di Emisu presentava la dea sposa: solo in quell’istante, egli si era voltato.
 

Meravigliosa.
Semplicemente bellissima.
 
Immobile in quella posizione che tanto lo rendeva simile ad una statua di sale, il sovrano della morte aveva assaporato con ogni terminazione visiva lo spettacolo dinnanzi a lui. Persefone, dea splendida nel fiore della sua giovinezza, lo guardava e sorrideva emozionata.
Rivestita di lino candido come il suo animo, preziosa come i fiori che recava in mano e pura come il viso che, fresco, non nascondeva nessun sentimento, ella si mostrava come luce brillante in un regno fatto di ombre fumose.
Un dolore al petto, simile ad una stilettata rapida e acuta, aveva restituito a quella cavità toracica la pienezza di due battiti.
 
 
Meraviglioso.
Semplicemente bellissimo.

Varcata la soglia, lasciata dalle tenere ninfe avernali che, commosse, ne baciavano le mani e le rendevano onore con profondi inchini, Persefone cercava con gli occhi impazienti il dio.
Lo aveva trovato di spalle, intento ad adagiare la preziosa kunée al suolo e, solo quando la fedele ancella aveva annunciato il suo arrivo, egli si era voltato, regalandole uno sguardo di indicibile profondità.
Gli occhi, solitamente vitrei e imperscrutabili, si mostravano ridenti e liquidi, la bocca sottile, leggermente schiusa, mal celava l’emozione che rendeva tremolante il cuore.

Il cuore.

Come quando un arto intorpidito riprende vigore dopo una forzata immobilità, la giovane dea artigliava, adesso, la mano all’altezza del petto, dove il lino morbido celava allo sguardo dei più una generosa scollatura. Stupita da quella strana sensazione, aveva osservato il dio alla ricerca di una qualche spiegazione ma, scorgendo in lui lo stesso sbigottimento, accompagnato da un’azione simile – anche lui aveva posto una mano poco più in alto rispetto allo sterno – aveva sorriso commossa.
Occhi negli occhi, a una considerevole distanza, gli dei si osservavano in silenzio, incapaci di muovere alcun muscolo o proferire verbo.

“Mio re?”

Il bisbiglio impercettibile di Radamanto aveva riscosso il dio nero dall’intorpidimento e, riguadagnata una parvenza di lucidità, si era mosso verso la splendida giovane, ora sola e in attesa a pochi passi dall’altare.

“Persefone divina.”

Quel nome, accompagnato da una profonda reverenza, aveva dato il colpo di grazia al povero cuore tremolante, ora ridotto a poltiglia dolciastra.

“Signore d’Averno”.

Un sorriso tanto dolce e tanto beato aveva illuminato il volto della ragazza che, dovendo farsi forza per mantenere un certo contegno, si era limitata ad offrirgli una mano affinché l’accompagnasse presso la lastra finemente abbellita.

Ade, il suo sposo,

il suo sposo, diamine,

meraviglioso e regale, mostrava un viso affilato, ripulito dalla barba ispida che da tempo gli ammorbidiva il volto, e gli occhi, solitamente imperturbabili, rifulgevano di vita e speranza e desiderio.

Meraviglioso.

“Siete bellissimo.” Persefone, occhi fissi su quel viso amato, non era riuscita a trattenere la lingua, sconvolta da quello spettacolo che, di lì a breve, avrebbe chiamato marito.

Una risata roca, sincera, profonda, aveva riempito la sala.
“Voi, mia signora, siete semplicemente stupenda. La vostra anima lo è”.

La confessione, mormorata vicino al suo orecchio con fare intimo, le aveva rubato il fiato.
 
Un breve silenzio aveva preparato gli animi alla sacra celebrazione.

“Persefone, amata ospite, l’Averno vi accoglie benevolo ed io, che ne sono il signore, vi porgo gli onori e gli ossequi che si convengono a una dea luminosa. Oggi, presso questo altare, vi offro la mia devozione, il mio amore e il solenne rispetto: diventate mia sposa.”

Ade, che ancora la teneva per mano, la osservava intensamente, beandosi dell’emozione che le colorava il volto sincero.

“Vi domando, dolce signora: siete qui di vostra sponte?”

La domanda solenne aveva trovato risposta sulle labbra morbidamente arcuate della giovane.

“Nessuna forzatura, nessun obbligo o violenza mi vincola al vostro cospetto e a quello dell’Averno. Io, Persefone, figlia di Demetra, sono qui di mia volontà per prendere
Ade, sovrano giusto di questi luoghi, come legittimo e amatissimo consorte”.

Dopo quella risposta, segnata da voce sicura eppur addolcita da tremolii, il dio le aveva baciato la mano prima di stendere le proprie sopra l’altare.

“Oggi, Persefone, figlia di Demetra, si promette all’Erebo e al suo signore.”

Sovrano del suo tempio, sacerdote presso i propri altari, Ade celebrava il rito circondato da un’aria che sapeva di ancestrale e misterico potere.

“Vi offro, amata signora, l’ambrosia nera e dolce del sottosuolo, perché possiate berne, dissetando il cuore e pacificando l’animo trepidante.”

Il calice prezioso, preso con reverenza, veniva offerto con altrettanta cura alla dea che, tremante, bagnava le labbra di quel nettare amaro e dolce per poi porgere, a sua volta, la coppa all’amato, affinché anche lui ne saggiasse il liquido e dissetasse l’animo lacerato da tormenti passati.

“Persefone, figlia di Demetra regale, dea luminosa, vi offro un seme di melagrana, cibo d’Averno, perché le vostre labbra si abituino al sapore della vita e della morte, e il cuore si tinga di ombra brillante.”

Spaccata la scorza dura del frutto profumato davanti agli occhi lucidi della dea silenziosa, egli ne schiudeva le labbra con un chicco gustoso.

Nel silenzio cerimoniale, umido di lacrime e bisbigli d’amore taciuti nel cuore, il re aveva infine sollevato la corona e, con un movimento quasi incantato, l’aveva posta sul capo chino della dea.

“Io, Ade, re delle ombre, vi offro la corona dell’Erebo, preziosa ma grave sul capo di colui che, insieme alla bellezza e al potere, non accetti l’onere che questo ruolo comporta. Sarete una regina benevola e giusta, non negherete mai l’ascolto o il consiglio. Mi sarete fedele come moglie e sovrana. Promettete, dolce sposa”.

“Lo prometto”.

A gran voce, rivolto alla platea degli astanti, Ade aveva annunciato sorridente:

“Persefone, figlia di Demetra, è mia sposa. Io, Ade, signore dell’Erebo, sono il suo sposo e a voi, anime beate, la presento come regina d’Averno: onoratela con le vostre preghiere”.

Un bacio sulle labbra, caste e schiuse, suggellava il rito, mentre braccia tremanti di dea si allacciavano al collo dell’avernale.

“Marito amato, Ade, sovrano d’Averno, io Persefone, vostra sposa, lego i nostri destini eterni secondo gli usi di superficie. Che il nostro sia un sodalizio legittimo agli occhi di molti”.

Animata dall’amore e dalla devozione, Persefone aveva proteso le mani su quell’altare nero che ora la riconosceva come sovrana e, a sua volta, aveva recitato la promessa.

“La luce del sole, il vento fresco, le acque chiare siano testimoni di questo legame e la terra stessa, amata e cara, fiorisca di gioia. Io, Persefone, dea dell’oltre, annuncio il legame inscindibile: Ade è mio sposo.”

Un sorriso raggiante arcuava le labbra di entrambi mentre i convenuti intonavano peana vittoriosi in onore della coppia. Un altro bacio, questa volta ricco di gioia esplosiva, aveva fatto gemere e serrare gli occhi della dea tremante mentre Ade, felice, le prendeva il volto tra le mani invitandola ad osservarlo.

Un bisbiglio udibile solo per lei:

“Persefone degli altari oscuri, Persefone dei miei altari. Siete mia adesso”.
 

Per tutta la sera avevano mangiato, bevuto, danzato e rallegrato il cuore con i canti armoniosi ma giungeva, infine, il momento che lo sposo e la sposa lasciassero le sale per ritirarsi nella grande dimora che, da quel giorno in avanti, sarebbe stata la loro casa. Ecco, allora, i ritornelli allegri che fino a quel momento avevano riempito l’Erebo, assumevano la forma di nenia sottile, amabile sottofondo per i sovrani che, mano nella mano, si allontanavano dalla folla.

Sprangate le porte, ancelle:
Imeneo benevolo, adesso ritorna dalle
sue Muse, il rito è concluso,
l’amore incorato.
La sposa prende per mano
l’amato e gli cammina di fianco
verso la dimora familiare.
E lo sposo, fremente, si lascia
condurre, già perso in quel
sorriso che parla
d’eterno.
 
...

Il lungo cammino, condito da sguardi veloci, sospiri tronchi e sorrisi laterali, trovava la propria fine sulle labbra della dolce dea, non appena il piccolo piede aveva varcato la soglia intima. Come un assetato, il dio nero si era avventato su quella bocca impetuoso e passionale, nella disperata esigenza di un bacio che fosse solo loro.

Le spalle premute contro l’uscio appena chiuso, le braccia inermi lungo i fianchi: Persefone offriva le labbra, ardente allo stesso modo.

 “Mio signore”.

“Ade, chiamatemi Ade. Tra queste mura voi e io siamo sposo e sposa. Non sovrani, non dei, solo esseri promessi l’uno all’altra”.

L’avernale, voce roca e sguardo caldo, aveva accarezzato il volto rosato della giovane al suo cospetto. Le pietre preziose che le ornavano la chioma non potevano in alcun modo competere con gli occhi vivi e brillanti, dolci e liquidi della sua signora.

“Ade, amato sposo”.

Fronte contro fronte, perso nell’odore di vita e morte che in lei trovava un fatale equilibrio disturbante, aveva mormorato a sua volta:

“Il nostro tempo è eterno”.

Improvvisamente angustiata, la dea aveva portato alle labbra la mano del dio baciandone le nocche.

“Dovrò lasciarvi tra pochi mesi”.

“Finirà anche il tempo dell’assenza, sposa amata, tornerete da me. Questo, per sempre”.

Come un padre amorevole, come un compagno fedele, egli aveva modulato la voce in modo tale che ella percepisse la sincerità del suo cuore.

“Nessuno, oramai, può separarci”.

Il nuovo bacio era stato un sfioramento delicato, un assaggio di labbra lento. Indugiava su quella bocca dolce e schiusa mentre mani gelide la stringevano per la vita in una carezza intima.

“Avete paura?” Il sospiro roco, sibilo tentatore, si insinuava nelle profondità di quel corpo tremolante; il cervello, scosso da emozioni sconosciute, non la sosteneva in quella dolcissima lotta che sapeva voler perdere.

“Dovrei averne ma mentirei a me stessa e a voi. Vi ho invocato, pregato, cercato nelle ombre. Io vi appartengo, dio nero, vi appartengo da sempre e vi desidero con tale forza da sentirmi male”.

In uno slancio di pura sincerità, ella aveva parlato con gote imporporate e occhi scintillanti, scatenando nel dio atroci aggrovigliamenti al basso ventre.

Ade, ossimoro vivente, la sfiorava come un demone dannato, la guardava come un innamorato e la sorreggeva tra le braccia al pari di un sovrano: il volto affilato emanava regalità, dannazione e sentimento.

Sollevata tra le braccia la giovane sposa, l’aveva condotta senza sforzo presso le loro stanze e, adagiata gentilmente al suolo, la invitava a familiarizzare con quei luoghi che, adesso, per loro, significavano casa.

In un silenzio carico di aspettative aveva poi chiuso le porte e oscurato le luci con pesanti drappeggi, affinché solo la fiamma del camino riscaldasse le loro figure, ora strette in un abbraccio.

Ma lì, in quel primo contatto che li vedeva sposi e soli, l’avevano sentita, forte e vibrante.

Ahi loro.
 

“Fratello! Dolce Persefone!”

 Una voce, squillante e calda, riempiva la stanza privata degli sposi.

“Lasciate che vi benedica col fuoco domestico che nutre l’amore familiare”.

Estia, essenza fumosa e spettrale, parlava loro attraverso le fiamme ardenti del camino.

Il suo palesarsi improvviso aveva costretto gli sposi a sciogliere l’abbraccio ardente, preludio di carezze ancor più intime.

“Sorella…”

Ade, seccato e rassegnato, la guardava attraverso la fiamma e, offertale una mano, la conduceva fuori da quel braciere permettendole l’approdo sul duro pavimento nero.

Riguadagnata densità di corpo e spolverate le vesti, Estia si era gettata tra le sue braccia per poi rivolgere le sue attenzioni all’amata nipote.

“Persefone, bambina mia”.

La commozione rendeva gli occhi della dea brillanti.

“Il mio cuore tremava di gioia mentre le fiamme consumavano il vostro voto”, le aveva sistemato una ciocca fuggiasca dietro l’orecchio,
“state tranquilla per vostra madre, lei sa e accetta”.

Estia, materna, aveva preso il volto rosato della giovane tra le mani e dopo baci e carezze, nuovamente la rendeva allo sposo impaziente.

“Vi ho, per caso, interrotto?” Furba, assottigliato lo sguardo in un’espressione maliziosa, aveva scrutato i volti dei consorti, rosso e imbarazzato quello della dea, turbato dall’attesa quello del fratello.

Le risposte erano giunte immediate e contrarie:

“Si”, Ade secco e brutale.
“No, cara dea”, tenera Persefone.

Una nuova risata, questa volta fragorosa e divertita, aveva riempito la stanza quando, all’improvviso, un nome, quasi abbaiato impazientemente, richiamava l’attenzione dei tre.

Proveniva da oltre fiamma.

“Estia!”

Il silenzio ricevuto in risposta non aveva frenato la ricerca di quello.

“Divina Estia, per l’amor dell’Averno! Lasciate i sovrani in pace!”

Radamanto, molto probabilmente dal camino presso le sue camere, intimava perentorio la ritirata di quella, invitandola categoricamente a lasciare quelle camere private.

“Perdonatemi, sovrani d’Averno”.

Il sorriso genuino brillava sul volto della piccola dea.

“Volevo solo unirmi a voi in questo momento di gioia e di festa. Vi amo, teneramente. Tutti e tre!” L’ultima parte l’aveva urlata affinché anche quello dietro il braciere potesse udire le parole devote.

Era stato Ade ad abbracciarla, a stringerla al petto per primo, poi si era aggiunta Persefone.

“Andate adesso, anche voi siete attesa”.

Un raro sorriso illuminava il volto del dio nero.

“E ricordate, sarete sempre la benvenuta qui, nei nostri domini”.

Un grazie commosso era stato il tremolante saluto della dea di fuoco, risucchiata dalle fiamme ardenti.
 
 
 

Nuovamente soli, leggermente straniti ma divertiti da quella simpatica intrusione, gli innamorati avevano azzerato la distanza tra loro, ricongiungendosi in un bacio lento.

“Siete sicuro che nessun’altro varcherà queste porte?”

Dolcemente, Persefone, aveva baciato l’angolo delle labbra sottili per poi posarne altri sulla guancia liscia e su, ora sulle punte, sulla tempia.

“No, mia divina”.

Una malia, scagliata distrattamente, rendeva impetrabile la porta, il braciere, le finestre.

Soli, completamente soli e persi l’uno nello sguardo dell’altra, si erano nuovamente baciati e, questa volta, qualcosa ben oltre la castità e la purezza li animava.
Avvinti in un abbraccio serrato, si scambiavano bisbigli innamorati mentre, ad uno ad uno, monili, fibbie, lacci e stole, cadevano o frusciavano al suolo.
In un silenzio spezzato da respiri agitati, Ade l’aveva spogliata con lentezza beandosi della vista di quella pelle a lungo desiderata, e quando il corpo della dea si era mostrato in tutta la sua florida bellezza, non era riuscito a distogliere lo sguardo da lei che lo scrutava meravigliata a sua volta.
In quegli occhi grigi e liquidi come metallo fuso, ella scorgeva dannazione e pace eterna.
Anche lui si era spogliato, con lentezza.

Più precisamente era stata lei a denudarlo, sollevando e poi abbandonando al suolo la veste preziosa, rivelando la bellezza virile del dio.
Le fiamme ardenti del camino illuminavano i corpi nudi, vicini eppure separati.
Stranamente silenziosa, Persefone, lo osservava dal basso, gli occhi lucidi e grandi, la sottile pelle d’oca, il respiro sottile: tutto in lei testimoniava lo sconvolgimento del cuore.

E lui non aveva resistito oltre.

Come istigato da quello sguardo che sapeva di preghiera e supplica al contempo, il dio aveva poggiato le labbra su quelle della giovane, esigendo un bacio profondo, passionale, umido, trovando la morte su quelle labbra rosate e schiuse unicamente per lui, intente, tra un sospiro e l’altro, ad invocare il suo nome in un bisbiglio ciclico.
Afferrate le cosce tornite in un gesto lento, l’aveva adagiata sull’immenso letto; sopra di lei, come un predatore che bracca la preda, si era perso nella contemplazione spudorata di quel corpo morbido e seducente e quando quella, eccitata dalla profondità dello sguardo con il quale egli la divorava, aveva allargato le braccia in un silenzioso ma chiarissimo invito, egli l’aveva presa.
Ne aveva baciato le labbra con terribile lentezza e poi, mai pago, era sceso giù, verso il collo morbido in una meravigliosa tortura fatta di baci e suzioni che, infine, aveva raggiunto implacabile i seni bianchi e piccoli. Le aveva morso, succhiato, leccato le punte turgide mentre le mani, grandi e virili, la tenevano ancorata alle coperte, immobile ed esposta a quel piacere nuovo e troppo intenso perché fosse accolto silenziosamente.
L’aveva sentita gemere quando la suzione del seno si era fatta vigorosa; piccole ecchimosi comparivano sulle rotondità nivee per l’intensità di quelle carezze.

Ma non per questo era stato clemente, affatto.

Quella scia rovente non si era arrestata sui seni, no, aveva continuato il proprio percorso, fatto di baci e morsi delicati, fino a quando un singulto, più forte di altri, lo accoglieva tra le gambe di quella, sconvolta.

“Ade, no, vi prego”, aveva mormorato ad occhi sgranati e persi nella contemplazione della sua bocca, ora lontana presso lande intime e nascoste.

“Voglio farvi dono di ogni piacere”, aveva ruggito quello, travolto dalla passione.

Ancora il suo nome, Ade, sospirato sconclusionatamente, faceva da sottofondo a quelle carezze intime e nuove: la testa di lei, ricciuta e adorna di ciocche fuggiasche, spinta indietro, gli occhi umidi persi nella contemplazione di un punto nel vuoto.

 “Ade”, aveva singhiozzato con occhi umidi e gote rosse per il piacere.

“Ade”, aveva bisbigliato mentre mani artigliate sulle sue spalle lo spingevano sopra, verso di lei, in una disperata ricerca di quelle labbra gelide che da troppo mancavano
contro le sue; il corpo del dio, scivolando morbidamente sul suo, generava una terribile e meravigliosa frizione di nudità.  

“Vi amo”, il dio, accolto e bramato, le dichiarava il suo amore in un bacio solenne.

“Vi amo, ardentemente”.

Persa in quel caos di carezze, Persefone sentiva la sua erezione premere sul ventre; Ade, non meno travolto di lei, tentava in ogni modo la resistenza.
Occhi negli occhi, respiri affannati e condivisi, il dio dell’Averno aveva fatto pressione sulle braccia per trovare la giusta posizione tra quelle gambe che sapevano di terra dei beati. L’aveva osservata attentamente, scrutata fin alle cavità dell’animo alla ricerca di un qualche timore ma aveva trovato solo desiderio ed emozione.

“Ade, mio signore”, aveva ripetuto quella in un sospiro, mentre una leggera pressione schiudeva il delicato centro del suo corpo.

“Farà male?”

“Si, mia amata.” Consorte del vero, Ade accarezzava il volto della sposa impaurita e quando negli occhi di quella aveva letto la muta domanda:

sarete delicato?

Aveva risposto mormorando il suo nome con amore mentre una prima pressione, leggera ma tangibile, schiudeva le membra morbide e inviolate.

La prima vera spinta, più incisiva rispetto alla precedente, l’aveva fatta tendere come una corda di lira; le labbra strette e bianche per la pressione, trattenevano a stento gemiti di dolore e sorpresa mentre lo sposo forzava la virginea soglia.
La seconda spinta, decisa nella sua imperturbabile lentezza, l’aveva presa, conquistata, dominata.
Ade, in un lungo gemito gutturale, simile al ruggito di una belva feroce, la faceva sua, unicamente sua, mentre quella, interamente focalizzata sull’invasione che le tormentava il basso ventre, non percepiva che lui, solo e soltanto lui, ora centro del suo intero essere. Un dolore nuovo le stringeva in una morsa le viscere mentre il dio, tremante sopra di lei, tentava l’immobilità quel tanto che bastava per offrirle qualche istante di calma prima dell’ennesimo affondo.
Pochi istanti dopo, quando le labbra rosate si erano leggermente arcuate in sorriso amabile, si era nuovamente mosso, piano e cautamente, affinché ella saggiasse la profondità di quel nuovo legame.

“Mia”.

Ade, persa ogni razionalità, la osservava beandosi spudoratamente di quel corpo imperlato di sudore ed esposto a lui e al suo volere.

“Mio” aveva mormorato quella, stordita dalle prime fitte di piacere che trovavano eco nel volto trasfigurato del marito.
 
Quando i loro corpi, uniti e tremanti, avevano trovato l’equilibrio, Ade si era fatto più deciso e intrepido, aumentando l’intensità con la quale sanciva quel legame. Le spinte diventavano rapide, accecate dalla brama e dal desiderio, al pari di una danza cadenzata fatta di scivolamenti e frizioni.
E se lui percepiva distintamente l’odore di femminilità e piacere, quella tra le sue braccia godeva per la dolce e passionale intrusione, cullata dal profumo di anice, ambra e sudore del dio che l’avvolgeva tra le braccia forti.
Stretto dalle carni tenere in una serrata e dolcissima morsa disturbante, aveva definitivamente smesso di controllare il suo io più brutale e passionale quando Persefone, gemente, lo aveva implorato chiamando per nome.
Ade, sospiro turbato dal piacere mormorato contro le labbra sottili, aveva sciolto definitivamente la fiera che da dentro ruggiva feroce: le aveva sollevato le gambe sopra le spalle affinché quella tormentata unione si facesse più profonda, appagando lui, stravolgendo lei.
L’aveva vista sgranare gli occhi, schiudere le labbra a forma di piccola “o” prima che una nuova scarica di piacere, più intensa e brutale delle precedenti, la costringesse ad aggrapparsi alla sua schiena in una sequenza di gemiti disperati e contorcimenti; consacrata a lui e a lui soltanto.
Preso il suo viso tra le mani con l’ultimo barlume di coscienza rimastole, la dea aveva bisbigliato in gemiti spezzati:

“Il mio corpo è il vostro tempio”, poi, abbandonata a quelle labbra fameliche e alle spinte veloci e profonde, in poco tempo si era sentita come squarciata, rivoltata e tremante
mentre un lungo e gutturale gemito fuoriusciva dalla bocca.

Bruciato da quel voto, eccitato dal parossismo violento della sua sposa, Ade aveva intensificato la forza delle spinte e, in pochi colpi profondi, ognuno capace di strapparle ulteriori singulti scomposti, aveva perso se stesso, in lei.
 
 

 

Un movimento, leggero frusciare di lenzuola, un respiro lento e profondo.

Luci soffuse provenienti unicamente dalle fiamme del camino.

Un piacevole calore le avvolgeva il corpo, concentrandosi soprattutto all’altezza del basso ventre indolenzito.

Nell’inconsistenza del sonno che in breve diventa veglia, aveva spostato il peso del suo corpo sulla schiena e, con lei, aveva distintamente percepito qualcosa, o meglio, qualcuno, seguirla in quel movimento.

Un attimo di sfolgorante confusione aveva preceduto il ricordo.

Ade.

Sbattute le palpebre assonnate, Persefone finalmente metteva a fuoco quanto la circondava.

Stesa sull’immenso talamo nuziale, ricoperta da un leggerissimo lenzuolo, giaceva adesso stesa sulla schiena mentre il dio, profondamente addormentato al suo fianco, la teneva stretta a sé; la sua mano gelida posata morbidamente sopra un seno bianco.

Uno, forse due respiri erano andati persi nella contemplazione di quello spettacolo intimo e nuovo.

Eppure, non provava alcuna vergogna, anzi.

Alcune immagini indistinte le riempivano le mente, riportando a galla momenti di insaziabile passione vissuti con lo sposo florido che, adesso, le riposava vicino.

Per la prima volta dormivano insieme.

Per la prima volta si sarebbero destati dalle ombre di Ipnos insieme.

Sollevata lentamente la mano sinistra, come fa una madre amorevole, aveva accarezzato il volto dell’amato. Un filo di barba ispida ombreggiava il volto etereo, ora disteso nella serenità del sonno.

Ricordava, Persefone, con quanto amore, lui l’avesse guardata quando, esausti dopo l’amplesso, erano caduti tra le morbide coperte.

Stretti l’uno tra le braccia dell’altra, Ade le aveva mormorato il suo affetto a fior di labbra e poi, costringendola a guardarlo negli occhi lucidi di desiderio appagato, le aveva rivelato con quanto ardore avesse desiderato quel momento e con quanta emozione avesse accolto il voto pronunciato durante la loro unione.

Solo a quel punto lei si era stretta a lui e osservandolo con infinita dolcezza, aveva ripetuto il medesimo vincolo:

il mio corpo è il vostro tempio, mio signore amato. Il mio cuore è la vostra dimora”,

e tra quelle braccia che amavano con passione, stringevano con desiderio e sorreggevano con solenne devozione, ella si era addormentata felice.
 






 
 


 
L’angolo di Avareil
Carissimi lettori, carissime lettrici, spero con tutto il cuore che l’attesa sia stata ben ripagata. Questo capitolo è stato il più emozionante dell’intera storia, nonchè il più complesso da un punto di vista psicologico: volevo che Ade e Persefone fossero veri, reali, umani per quanto legittimo per delle divinità, senza mai banalizzare il sentimento.

Il canto di Imeneo è ideato sulla scia della mente geniale di Catullo.

Con tutto il cuore spero di avervi emozionati e vi sarei infinitamente grata se voleste condividere con me i vostri pensieri e le vostre opinioni.

Inoltre, vorrei salutarvi ma non posso,  la storia non finisce qui.

Come ringraziameto per voi, sempre presenti, sto ideando un breve epilogo che posterò prima di sabato.


Un bacio e a presto.

La vostra Avareil.
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Mitologia greca / Vai alla pagina dell'autore: Avareil