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Autore: Avareil    10/08/2018    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo
 
Se ne era andata dalle sue camere con un sorriso furbo disegnato sulle labbra.
Aveva detto:
“A presto, mio amato giudice. Ho in serbo qualcosa per voi”, ed era sparita tra le fiamme, lasciandolo solo e con un’espressione atroce dipinta sul volto.

La curiosità, strana belva sconosciuta, si presentava al suo cospetto brutta e ambigua.

Turbato, incapace di capire quello strano comportamento, Radamanto l’aveva chiamata per nome nella vana speranza che fosse ancora lì, raggiungibile dalla voce, nascosta tra le scoppiettanti lingue di fuoco ma, non era giunta nessuna risposta.

A presto, mio amato giudice.
Ho in serbo qualcosa per voi.
 
Il primo giorno aveva atteso pazientemente, cullato dal ricordo del sorriso amato.
Il secondo, la bestia da poco conosciuta, era giunta in visita e con essa, indesiderati, uno stuolo di interrogativi:

“Ma cosa starà facendo?”
“Dove si sarà cacciata?”
“Starà bene?”

Ma il terzo dì, infausto per l’Averno che l’aveva per abitante, Radamanto aveva dato il peggio di sé.

Né il sonno né la veglia gli recavano conforto: ferito da quell’assenza immotivata, turbato da domande alle quali non sapeva trovare una risposta, si sentiva in gabbia, trattenuto lontano da colei che amava e che, però, si nascondeva alla sua vista.

Aveva dovuto aspettare sette giorni, sette dannatissimi giorni prima che quella facesse ritorno.

Furioso, divorato dalla rabbia e dall’assenza, non aveva sollevato un sguardo verso le fiamme ed anzi, non volendo proprio incrociare quegli occhi brillanti, aveva dato le spalle al camino vivace, intento nella quotidiana abluzione delle membra.
 
“Radamanto!”
“Mio signore?”

Estia, entusiasta e allegra come chi non sta più nella pelle per l’impazienza, lo chiamava con ardore mentre il fumo si faceva corpo e l’incenso profumo di donna.
Ostinandosi in quella guerra di logoramento, il giudice aveva continuato a darle le spalle, offrendole, però, uno spettacolo senza eguali: ella, infatti, si era come ammutolita quando lo sguardo desideroso si era imbattuto sulla schiena tonica e definita dell’avernale sulla quale rotolavano goccioline di acqua limpida; un caloroso, sicuramente sensuale, benvenuto.

“Radamanto, volete sedurmi? Perché io sarei già sedotta, ora, subito”,

ella, scherzando – o forse no? – si era avvicina col chiaro intento di abbracciarlo da dietro ma il giudice, ora mal celando l’astio represso, si era scostato emettendo un cavernoso ruggito.

“Radamanto?”

Intristita da quella reazione, la dea gli si era fatta dinnanzi nella vana speranza di incrociarne lo sguardo ma, quello la evitava.

“Si può sapere che vi prende, cocciuto di un giudice?”

Mani sui fianchi ed espressione impettita, Estia esigeva una risposta, chiaramente offesa.

“Niente, assolutamente niente”.

“E allora perché fate così?”

“Così come, di grazia?”

“Come uno stupido, arrogante e gelido avernale”. Estia, dura perché toccata da quel comportamento distaccato, l’aveva affrontato a muso duro esigendo il suo sguardo, strattonandolo per un braccio.

“Se mi ritenete tale fulgido esempio di vizi, perché non ve ne andate altrove?”

L’aveva fulminata con uno sguardo laterale, l’espressione vitrea, i denti stretti per la rabbia che esplodeva nel cuore.

Rabbia nutrita dal veleno dell’assenza.

Ferita da quella risposta, Estia, non riuscendo in alcun modo a capire il motivo di quella feroce reazione, si era morsa l’interno guancia nel vano tentativo di evitare risposte di cui si sarebbe potuta pentire.

“Bene, vi lascio solo. Non vi disturberò oltre”, un mormorio glaciale aveva preceduto i veloci passi verso il camino.

Un piccolo tonfo, poi solo il silenzio.

Un’imprecazione sfuggita con ira dalla bocca, la bacinella scagliata per terra con rabbia.

Bravo Radamanto, l’hai rifatto!
Sei riuscito a farla scappare, nuovamente!
Non è proprio questo che odi?
Che lei vada via senza la possibilità, per te, di seguirla? Non è questo che avvelena il tuo sangue?
Un essere più furbo eviterebbe di farla scappare.

La voce dell’animo, unica lucida in quel fiume di rabbia, rimproverava l’avernale irato.

Ma cosa poteva la razionalità contro la gelosia e la preoccupazione?

Dove era stata?
Con chi era stata?
Che cosa aveva fatto?
Che cosa aveva in serbo per lui?

Una gelosia stupida, lo sapeva, simile a quella dei bambini, che nulla aveva a che vedere con la fiducia quanto piuttosto con l’impossibilità di poterla seguire, di poter vivere con lei ogni giorno e ogni notte.

Questo lo uccideva dentro.

…Ed era già morto.
 
Raggiunto il letto vi si era seduto con un tonfo, la testa stretta tra le mani.
Un sottile alito di vento, le pesanti tende scosse da una brezza frizzane, il fuoco ondeggiante tra le braci: questo l’aveva ridestato dal suo rammarico e, solo in quel momento, l’aveva visto.

Un pacco sottile, avvolto in carta finemente decorata, stava immobile ai piedi del focolare, e sembrava osservarlo con rimprovero.

Il regalo.

Mosso da una curiosità intossicata dal senso di colpa, l’aveva raccolto con infinita delicatezza e lì, sul letto, l’aveva scartato.
 
Non aveva mai sorriso in quel modo, un calore avvolgente lo riscaldava dentro.

Tra le mani reggeva un quadro, un piccolo e delizioso quadro raffigurante il tempio della dea Estia, vivido per colori e realistico oltre misura, in cui ella stessa era stata ritratta sorridente e benevola. Sembrava vera, gli occhi brillanti lo fissavano con amore.  

“Sarà come avervi sempre qui, ospite amato.”

Recitava la dedica scritta con grafia di donna, morbida e rotonda, dietro la tela.

“Sarà come avervi sempre qui, al mio fianco, ospite amato.”

L’aveva letto e riletto con tale ardore da sentire nelle orecchie la voce amabile della sua dea, oppure…

Con il cuore in tumulto si era voltato con lentezza per scorgerla dietro di lui, in piedi sul letto; ella lo fissava con gli occhi lucidi.

“Mi dispiace, sono stato un idiota”.

“E’ vero, lo siete stato”.

Ora inginocchio alle sue spalle, Estia gli aveva allacciato le braccia intorno al collo e con un bisbiglio solleticava il suo orecchio:

“E io non mi sarei dovuta assentare per così tanto tempo senza offrirvi una spiegazione. Perdonatemi, cocciuto giudice”.

Un bacio sulla guancia non aveva ammansito l’avernale:

“Cocciuto io? E voi allora?”

“Nel mio caso il termine giusto è determinata”, ma le risate l’avevano travolta quando Radamanto, adesso più sereno, in una mossa delicata l’aveva spostata tra le sue braccia per zittirla in un lungo e profondo bacio.

“Radamanto?”

Il nome, mormorato labbra contro labbra, aveva avuto il potere di ridestarlo dal tornado di sentimenti.

“Si, mia signora?”

“Vi amo”.

Aveva sorriso, la dea, piacevolmente toccata dallo sbigottimento sincero di quello.

 “Mi amate anche se sono uno stupido, arrogante e gelido avernale?”

“Non vi amerei se foste diverso da come siete”.

La carezza sul volto, delicata e leggera, si era spinta oltre, verso le labbra da gatto ora distese in sorriso innamorato.

Le aveva baciato le dita prima di ritornare famelico sulla sua bocca, esigendo quel contatto di cui aveva sentito terribilmente la mancanza.

“Appenderete il quadro presso le vostre camere?”.

“Certamente, mia signora. Ma dopo”.

Il sorriso sghembo si era perso in un bacio umido mentre la faceva stendere sul letto rivestito da scure lenzuola.

“Vi siete assentata per sette giorni. Ora dovrete risarcirmi”.

“Cosa posso fare per voi, mio signore?”, il sorriso rendeva frizzante la parola.

“Dovrete rimanere con me, al mio fianco, per sette giorni e sette notti”.

Una risata divertita era sfuggita dalle labbra rosate, la felicità, adesso, le aveva contagiato gli occhi.

“E al termine di questi? Mi manderete via?”

“Sciocca dea”, aveva mormorato contro le sue labbra,

“a quel punto troverò un altro modo per legarvi a me”.

E affondato il volto nell’incavo tra la spalla e il collo, si era perso in quel profumo che sapeva d’incenso e fuoco.

Oh dei, quanto gli era mancata.
 


°°°
 

Poteva, solo la sua voce, ridurla in quello stato?

Persefone sedeva compostamente sul grande scranno nero. La schiena rigida, le mani strette in grembo, lo sguardo fisso dinnanzi a sé: sembrava attenta, la dea, eppure, turbata, non riusciva a focalizzarsi su nulla che non fosse quella maledetta voce.
Ade, sovrano e giudice massimo di quel regno, parlava con tono di comando, impassibile, imperscrutabile, solenne, e la sua voce, solitamente pacata, acquisiva come un gusto metallico capace di procurarle all’udito quel sottile e sibilante piacere simile a un bacio brutale, che termina in un morso o in un gemito roco.
Aveva distratto la mente, rivolto altrove gli occhi, stretto le mani tanto serratamente da ferirle con le unghie ma nulla, assolutamente nulla, l’aveva resa sorda.
All’ennesimo comando, formulato con ferma volontà, le mani affusolate erano corse ai braccioli di pietra, le gambe, per istinto incondizionato, ora strette, frementi, sbandieravano al vento l’incapacità della dea di star ancora seduta.

“Persefone?”

“Persefone?”

“Sì?”

Come colta in flagranza di un qualche reato terribile, ella aveva risposo al secondo richiamo con voce tesa.

“Sì, mio signore?”

Ade, stranito dal fare di quella, aveva cercato il suo sguardo mentre la mano gelida afferrava quella piccola e calda.

“State bene?”

Come ustionata da quel contatto, la dea si era ritratta maldestramente e, vergognosa, non aveva avuto il coraggio di dire alcunché.
Non si era fatto attende lo sguardo, ora sottile e indagatore, con il quale Ade tentava di eviscerare i desideri più profondi e proibiti della dea e, per questo motivo, scattata in piedi, si era data alla fuga.

“Mio re, perdonatemi”.

Rossa in volto, vergognandosi per quella sua mancanza di serietà, aveva lasciato la sala per trovare riparo nella cella in cui si ergeva l’altare del dio.

Ma cosa ti passa per la mente, sciocca dea?
Il tuo sovrano svolge un compito delicato, che richiede risolutezza e saggezza e tu, dea impulsiva, pensi alla sua voce?
Sì, magari fosse solo la sua voce… svergognata!

Una mano sul volto vergognoso celava gli occhi, ora pieni di lui.

“Persefone”.

Dal buio delle ombre, come richiamato dai suoi più oscuri pensieri, si era, infine, palesato Ade: le spalle ancora cinte dal mantello regale, gli occhi attenti alla ricerca di una qualche spiegazione.
Ma la bocca della dea, serrata dall’imbarazzo, si manteneva muta, incapace di formulare risposte.

“Parlatemi. Adesso.”

Fulminata da quel comando, da quella voce che, nuovamente si faceva brutale e dolcissima per le sue orecchie, ella lo aveva guardato negli occhi, ostinandosi in un tombale silenzio.
Illogicamente, irrazionalmente, se contrariarlo significava poter sentire ancora e ancora quel tono metallico e vibrante, ella allora sarebbe rimasta zitta in eterno.

Stupida, stupida kore.

Aveva scostato la mano rivelando occhi fieri e letali.

Silenziosa e immobile, lo fissava implorante.

“Voi, dea d’Averno, osate mancarmi di rispetto?”

Ade, ora palesemente infastidito da quella situazione, per lui assolutamente priva di senso, aveva mosso dei passi verso la dea, spogliandosi della carità matrimoniale e assumendo il tono del re.

Quel tono.

“Parlatemi, ho detto.”

Un nuovo ordine, una nuova fitta al basso ventre, e più quello si avvicinava, più le gambe si facevano tremolanti e incapaci di sostenerla.
Chiaramente furioso, come ombra le si era fatto dinnanzi, a pochi centimetri e, sollevatole il volto con fare scrutatore, aveva osservato gli occhi, incapaci di qualsiasi menzogna.

“Persefone...”

Il tono, ora stupito, smascherava la debolezza del cuore della dea.

E…non c’era stato bisogno di aggiungere altro.

Ella, infatti, incapace di ogni ulteriore resistenza, si era praticamente gettata tra le sue braccia, esigendo con foga la bocca sottile e gelida.
Gli aveva preso il volto tra le mani, baciato con passione le labbra che, schiuse, le concedevano adesso un umido incontro di lingue.
Pur desiderando sentire ancora e ancora quella voce, non era stata capace di allontanarsi, di porre fine alla sragionata mania che la pervadeva, e l’aveva baciato sul volto, sulle guance, sul filo della mandibola squadrata e giù, sul collo, dove i baci si alternavano a delicati morti.
Ade, letteralmente assalito e braccato dalla passione di quella, l’aveva accolta ridente prima che le iridi, grigie e placide, venissero offuscate dal desiderio.
 
Persefone, mani tremanti e sottili, aveva slacciato il mantello, sciolto la cinta regale e, emozionata e impaziente, accarezzava quel corpo ricoperto dalla tunica nera. Tenui ruggiti rochi risalivano dal petto del dio.

“Ferma”. Un bisbiglio cupo, mani gelide stringevano i piccoli polsi.

L’aveva sentita tremare, come scossa da un brivido lungo la schiena e sedotto da quella visione di donna, innocente e desiderosa, l’aveva afferrata per le cosce tornite e, sollevata sul bordo dell’altare nero, in un gesto ne aveva tirato su anche le gonne.
Persa negli occhi di demone, Persefone aveva tentato di liberarsi, ma un solo e secco
ferma, kore”, comandato direttamente a pochi centimetri dall’orecchio, l’aveva completamente soggiogata permettendo al dio di schiuderle le ginocchia per trovar posto tra le gambe affusolate.

Ma era stata lei a stringerlo più vicino affinché i loro corpi si sfiorassero, era stata lei a sollevargli con lenta spudoratezza la pesante tunica. Era stata lei a baciarlo, invitandolo a saziarsi di quella bocca e di quelle carni che gli venivano offerte con devozione e amore.

 L’aveva fatta sua in un solo e umido movimento.

Quasi brutale, quasi selvaggio, infinitamente giusto.

In un gemito strozzato lo accoglieva in sé e, finalmente accontentata, languida aveva allacciato le gambe intorno alla sua vita.  
Ade, stretto in una morsa di puro piacere, le aveva nuovamente ordinato di stare ferma, di non emettere un solo gemito fino a che lui non l’avesse ordinato e, presso quel luogo a lui infinitamente caro, l’aveva posseduta con ardore, lasciandosi travolgere a sua volta. 
Le spinte si erano fatte folli, umide, profonde, la carne tenera lo avvolgeva stretto, donandogli un piacere senza ragione; poi l’aveva sentita tremare, bagnata da umori.

“Mio signore”, aveva bisbigliato tra i denti, occhi sgranati per il piacere e imploranti.

“Dite il mio nome”.

Poderose spinte l’accartocciavano, riempivano, distruggevano.

“Mio re.” Aveva mormorato disperata e persa nel piacere eppure intenta, fino all’ultimo, nel contraddirlo per ottenere quella voce impietosa e maledetta.

“Ho detto: invocate il mio nome”.

 La voce ferrea era giunta al suo orecchio come fuoco bollente, a dispetto del grande gelo lasciato dall’assenza di quel corpo.

Tradita da quel vuoto che lui le imponeva –Ade, infatti, si era distaccato e adesso la osservava implacabile e intimamente compiaciuto– lo guardava supplichevole.

Quegli occhi, maledetti, l’avevano stregato.

Afferrata per i fianchi e fatta scendere dall’altare nero, l’aveva girata di spalle, denudandola completamente in un unico gesto impaziente.

“Irrispettosa, osate ignorare i miei ordini?”

Alle sue spalle, carezzevole come un demone, le aveva sfiorato la schiena prima che una mano, gentile ma decisa, afferrasse la chioma oramai scarmigliata. Una leggera pressione, il volto della dea sollevato, un altro sibilo vicino al suo orecchio.

“Dite il mio nome”.

Un altro ordine, accolto con un leggero cenno del capo, faceva da preludio ad una nuova invasione.
Si era spinto in lei lentamente, perché saggiasse, istante per istante, il dominio che lui era capace di esercitare sul suo corpo.
Poi, l’aveva invocato. Gemito roco e strozzato, lei lo chiamava per nome, lo supplicava, lo implorava, tormentata dal piacere che quella strana posizione le regalava.

Ade” sospirava la dea e più gemeva più lui la prendeva, costringendola a urlare più forte, in onore di quell’altare a lui sacro sul quale ella veniva posseduta con ardore.

Un ruggito roco. Due mani le afferravano le cosce con foga, le ultime spinte, poi si era perso in lei, gemente.

Due braccia forti l’avevano stretta contro il suo petto, leggere carezze le riscaldavano le spalle; l’aveva chiamata mio amore, e poi aveva esatto un bacio.
Si erano guardati a lungo, avvinti in quell’abbraccio.

“Non voglio lasciarvi, non voglio, mio amato”.

Angosciata dallo scadere dei giorni, Persefone aveva affondato il viso nel petto del dio.

Per la prima volta, Ade, non aveva trovato parole gentili con le quali consolarla.

°°°      
 

Non era stato facile.

Non era stato facile sciogliere quell’abbraccio.

Non era stato facile sapere che quel bacio, scambiato con amore, sarebbe stato l’ultimo.

Assolutamente impossibile guardarlo negli occhi e leggervi lo stesso tormento che la logorava dentro; per questo motivo si era voltata di scatto, incapace di resistere, e aveva varcato le immense porte nere senza più voltarsi.

Che fosse il giorno giusto l’aveva sentito dentro.

Il richiamo vibrante della vegetazione, il frusciare delle foglie verdi, il respiro del grano smosso dal vento frizzante. Non era più tempo di riposare: il sottosuolo, ricco di nutrimenti, offriva la vita alla flora verdeggiante e piena.
Ma per quanto sentisse quelle voci richiamarla alla luce e al cielo azzurro, non era riuscita a mantenere il cuore saldo, l’animo sereno o la mente sgombra da tristi pensieri.
Per questo motivo aveva intrapreso quella via senza più rivolgere uno sguardo al suo amato: che almeno lui non vedesse il volto rigato da lacrime. Questa la speranza.

Gli occhi persi nella contemplazione di un punto lontano, spenti e aridi, avevano trovato sollievo nello scorgere all’orizzonte una piccola figura allegra e saltellante.

Estia, benevola, le veniva incontro; tra le mani reggeva le monete d’Averno, lasciapassare incontrovertibile.

I loro passi si erano arrestati a metà strada; la prima giungeva, la seconda andava.

“Divina Estia”. Un sorriso mesto illuminava il volto etereo della giovane dea, l’aria d’Averno pungente sulla pelle.

“Mia regina”, un cenno del capo ossequioso precedeva un’espressione materna; la dea del fuoco aveva capito.

“Come state, zia?”

Cosa avrebbe dovuto rispondere?
Che era felice, maledettamente felice al pensiero che il giudice l’attendeva lì, oltre le mura nere?

Con che cuore rivelarle la propria gioia sapendo che quella, invece, si apprestava ad affrontare un momento di grande sconforto?

L’incertezza, lampo sul volto silenzioso, aveva trovato risposta nel sorriso sereno della sovrana.

“Potete confidare tranquillamente la vostra felicità, mi rallegrerò per voi e con questa certezza di sapervi felice e vicina anche al mio sposo, affronterò meglio la distanza”.

Stupita da quelle parole pacate che con solenne nobiltà d’animo Persefone proferiva, Estia ne aveva afferrato le mani fredde e strette sopra il ventre.

“Sarete la felicità di vostra madre, dolce sovrana e, al vostro ritorno, farete quella del dio di questi luoghi”.

Un leggero sospiro aveva schiuso le labbra rosate,

“La sento, lo sapete? Sento chiaramente l’essenza di mia madre, pronta alla fioritura ma monca, lacerata dalla mia assenza, sebbene si ostini nel celebrare i riti in solitudine”.

“Senza di voi non la rallegrano più i cortei di satiri e ninfe”.

“Lo immagino, dolce zia. Eppure so che sentirò terribilmente la mancanza di questi luoghi… di questo silenzio”.

“Ade vi ha corrotta, giovane dea, vi ha arruolato alla causa delle ombre silenti”. La battuta alleggeriva l’aria già grave di nostalgia.

“Il mio sposo abita dentro di me, io sono il mio sposo. Non potevo non lasciarmi travolgere da lui che amo oltre ogni ragione”.
 
Una reverenza del capo poneva fine alla conversazione.

“Arrivederci, cara dea”.

“A presto, Persefone degli altari neri”.

Lì i loro passi si erano nuovamente separati.
 



Era rimasta ferma, immobile sulla soglia d’Averno, meravigliata dai colori della natura che adesso le riempivano gli occhi non più turbati dalla forte luce: poteva vedere il cielo sereno, coperto da cirri bianchi e paffuti o il grano dorato in distese infinite.
E l’aveva fatto, aveva poggiato il piede leggero sull’erba umida di rugiada ma, il coraggio che l’aveva animata, era andato completamente dissolto quando il pensiero di lui si era nuovamente fatto vivido e tangibile.
Con un macigno sul cuore troppo grande da sopportare, si era slanciata nuovamente verso il tetro ingresso e lì l’aveva invocato disperata.

“Non sono abbastanza forte, non posso farcela, mio signore”.

Persefone, consapevole della densità dell’ombra, aveva allungato le braccia, trovando il fantasma del suo sposo pronto a stringerla.

“Calmatevi, mia signora. Vi prego”.

Ade, ombra silenziosa, l’aveva seguita, e adesso, invocato, la stringeva contro il petto, vano tentativo di offrirsi come conforto.

“Persefone”.

Eccola Kore, la sua dolcissima Kore.

“Persefone, guardatemi”.

Serio, aveva modulato la voce affinché fosse pacata ma decisa.

“E’ il vostro destino, abbracciatelo con serenità”.

“Ma voi? Io non voglio separarmi da voi”, afferrate le vesti del dio, ella lo aveva stretto in lacrime.

“… E lo so che vi sembrerò una sciocca, una patetica bambina, ma io vi amo, dio nero, vi amo”.

L’aveva baciata.
L’aveva baciata con foga, cancellando con le sue labbra, il tormento di quelle lacrime. La cullava tra le braccia gelide.

“Invocate il mio nome e io, in un istante, sarò lì, al vostro fianco. Questo, per sempre”.

La dea aveva sorriso leggermente,

“Promettete”.

“Ve lo prometto e, se vostra madre vi tormentasse in qualche modo, fuggite presso il tempio di Estia. E’ totalmente isolato e difficile da raggiungere”.

La battuta aveva avuto il potere di farla ridere flebilmente.

“Andate adesso, prima che ci ripensi e vi trascini con me nell’Erebo terribile”, sguardo liquido, Ade la guardava con un sorriso d’incoraggiamento dipinto sulle labbra.

Un bacio sulla fronte, uno per ogni guancia, uno sulla bocca rosate e schiusa.

Così il dio nero aveva consolato la dolce sposa.
 

Era rimasto lì, sull’uscio, nascosto nelle ombre per lei. Ne aveva seguito l’incedere incerto come un falco tiene d’occhio la propria preda e, quando ella si era voltata per un ultimo saluto, aveva sorriso a suo modo, bellissimo e terribile, per poi disperdersi nell’oscurità.
 
 


Nuovamente sola, ma forte nel cuore per la promessa del dio nero, Persefone, persa nel vento, si era slanciata in una corsa ridente sino al tempio della madre, amata casa della fanciullezza spensierata.
L’aveva trovata in ginocchio, sporca di terra, intenta, come suo solito, nell’esame attento del terreno; le dava le spalle.
 
 “Mamma”.







Fine
Una vita promessa alla morte




L'angolo di Avareil
Emozionata, felice, sull'orlo delle lacrime annuncio la fine di questa storia.
Una storia amata, terribile, fedele compagna per un anno. Grazie a lei ho avuto modo di conoscere lettrici meravigliose, amiche, me stessa.
Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicino con parole di conforto e d'incoraggiamento: sappiate di essere stati ancora solida alla quale aggrapparmi quando sopraggiungevano tempeste. Un sentito grazie anche alle anime silenti: lo so che ci siete e spero di aver allietato il vostro tempo.
Spero con tutto il cuore di sentire i vostri pareri e le vostre opinioni, amerei poter parlare di questa storia e mantenerla viva.

Ho dei progetti, grandi progetti per il futuro.
Prima verrà una revisione massiccia di quest'opera, poi penserò al seguito che, ahivoi, ha già iniziato a delineasi nella mia mente.
A presto, dunque, e buone vacanze estive.
La vostra Avareil. 

 
  
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