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Autore: alessandroago_94    27/08/2018    9 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo quindici

CAPITOLO QUINDICI

 

 

 

 

 

 

 

Al tavolo numero due notai subito un bel giovane, baldo e dalla parvenza forte. Vestito in maniera molto rustica, come avevo potuto immaginare per una frazione di secondo da quando Irene mi aveva donato una piccola informazione su di lui, prima di lasciarmi sola a barcamenarmi in quella sorta di avventura.

“Ciao”, lo salutai, in imbarazzo, prima di sincerarmi per bene che quello fosse il tavolo giusto, e il cartellino al suo centro lo confermava chiaramente, e mi avvicinai piano, con delicatezza.

“Ciao”, mi rispose il giovane, che doveva essere un mio coetaneo, forse con solo un paio d’anni in più di me, notando i suoi lineamenti già abbastanza marcati. Era un po’ in imbarazzo, come me, o almeno così interpretai lo sguardo vacuo che mi rivolse, pronto subito ad abbassarsi verso il tavolo, senza indugiare troppo sulla mia figura.

Mi accinsi a prendere posizione, e mi sedetti, mentre un cortese cameriere che passava di lì se ne accorse e accorse a spostarmi la sedia, però con una galanteria fredda e imposta, non come quella di Piergiorgio, che ahimè, mi tornava alla mente in quel momento delicato.

“Grazie”, ringraziai il cameriere per il suo atto di gentilezza, e mi chiesi come mai il ragazzo non avesse mosso un solo muscolo. La risposta già la sapevo; noi giovani avevamo perso qualcosa, a riguardo di galanteria, ma il ragazzo sembrava che non desse davvero segno di vita. I suoi occhi erano fissi sul menù, ma proprio fermi, siccome non lo leggeva nemmeno.

Se fino a qualche istante prima avevo provato un brivido di esaltazione, ecco che tutto pian piano tornava a smorzarsi.

“Come ti chiami?”, sussurrai piano, inquieta, continuando a notare la mancanza di reazione di chi avevo di fronte, con un po’ di imbarazzo.

“Simone”, mi rispose, a voce alta e squillante.

Sobbalzai leggermente sulla mia sedia, non attendendomi tanta risolutezza in una risposta così banale e formulata a voce bassa.

“Io invece mi chiamo…”.

“Isabella, lo so. Irene me l’ha detto”, affermò. Mi sventolò seccamente sotto al naso il biglietto d’ingresso, identico al mio, stampato in duplice copia per quella futile messinscena.

A me sembrava di aver a che fare con un bambino, sul serio.

Simone, come si era presentato, aveva un modo di fare che non era direttamente maleducato, ma di certo un po’ rozzo e buzzurro. Aveva un che di scontroso e di infantile allo stesso tempo, almeno a primo impatto.

Sperai che tutto fosse volto a migliorare, perché ad andare avanti di quel passo la serata avrebbe solo rischiato di precipitare. E io non avevo chiesto d’orchestrare un tale evento, e non ci tenevo proprio a restarne ferita, neppure per sbaglio.

Afferrai il mio menù, dopo aver fatto un semplice cenno affermativo col capo e aver notato che il mio interlocutore non aveva voglia di aggiungere altro, e cominciai a leggere tutte le bontà che il locale offriva.

Passò altro tempo, e mentre attorno a noi tutti gli altri commensali sembravano felici e rilassati, su di noi era come se stesse aleggiando una tormenta di neve e gelo. Ero obbligata a riconoscere che, tre sere prima, tra me e Piergiorgio era andato molto meglio, nonostante tutti i disguidi del caso in questione.

Ma ero anche costretta a comprendere il fatto che noi due non ci conoscevamo affatto, io e Simone, e quella era la prima volta che d’incontravamo durante le nostre distinte e, probabilmente, molto differenti vite, quindi qualche momento un po’ sospeso poteva starci.

In ogni caso, dopo circa venti minuti dopo il mio arrivo i camerieri vennero a prendere le ordinazioni, e si resero conto finalmente che eravamo i vincitori del premio, e si congratularono con noi, ed entrambi restammo un po’ in imbarazzo e ci limitammo a dire qualche grazie di tanto in tanto. Poi, di nuovo silenzio.

L’attesa per le pietanze si rivelò un po’ lunghina, e dato che ormai mi barcamenavo in quella scocciatura, avendo naturalmente ben in mente la scenata che avevo piazzato alla mia amica in macchina, prima di giungere al Mald’est, decisi di provare a fare un altro tentativo, in modo poi da poter dire che almeno ci avevo provato, anche se non mi andava affatto.

“Tu lavori?”, gli chiesi, forse un po’ troppo improvvisamente, siccome fu il mio interlocutore quella volta a guardarmi con un pizzico di stupore.

“Certo. Che domande”, mi rispose, dopo qualche secondo di silenzio, un po’ bruscamente, lasciando poi cadere il suo sguardo di nuovo verso la sala circostante, a scrutare visi sconosciuti che si abbuffavano o che mangiavano in compagnia.

“Scusa”, gli dissi, arrendendomi di fronte al suo irrazionale muro.

‘’Come?’’. Ancora quel suo tono di voce particolarmente squillante.

“Ti chiedo scusa se ti ho scocciato con la mia domanda. Stai pur certo che passeremo la serata in silenzio, anzi… vado a godermi il mio regalo in un altro tavolo”, dissi, prendendo man mano maggior risolutezza, e parlando a voce alta a mia volta, siccome pareva che Simone fosse anche un po’ sordo. O forse non gliene fregava niente di quello che gli dicevo.

“Cosa stai dicendo? Ma non scherzare, non andartene mica! Anzi, sono io a scusarmi, per i miei modi… magari poco raffinati. Me ne rendo conto. Sono una persona semplice e di poche parole, e anche timida, ed è difficile per me intavolare un discorso in questa situazione”, provò a spiegarsi all’improvviso, bloccandomi proprio mentre accennavo seriamente ad alzarmi e ad andarmene. Però, a quel punto, mi fermai e rimasi seduta al mio posto.

Lui mi stava guardando; notai solo in quel momento il suo sguardo sincero, puro.

I suoi occhi erano di un verde intenso; i capelli castani, lasciati un po’ allungare, erano ben sistemati col gel sulla fronte. Il viso era segnato da qualcosa, era come se un’ombra aleggiasse su di esso, indurendone i lineamenti, che a tratti, soprattutto sotto gli zigomi e sulle guance, erano visibilmente molto marcati. Era come se fosse un giovane invecchiato troppo presto. Tuttavia mi appariva sincero, e questo era l’importante, e dopo quell’impatto mi sentii di potermi tranquillizzare almeno un pochino, e ciò mi venne come spontaneo da fare.

 Anche i suoi abiti mi passavano un qualcosa di bucolico che nella mia mente veniva indirettamente paragonato alla calma e alla pacatezza; quella sua camicetta a scacchi, quasi scozzese, e le spalle larghe che si muovevano sotto di essa ogni volta che l’uomo faceva una qualche piccola mossa, mi trasmettevano un qualcosa d’indefinibile, che mi spronava a restare e a incuriosirmi.

Ecco, tra noi si era instaurato un minimo di feeling, così come doveva essere capitato anche a lui stesso, e ciò lo diedi quasi per scontato, a seguito di quell’ultimo suo intervento.

“Non devi scusarti. Capisco, anche per me è la prima volta… la prima esperienza di questo genere”, poi gli sorrisi, lentamente, “e quindi anche io sono un po’ tesa e in imbarazzo. Sai, ha organizzato tutto quella pazzerella di Irene”.

Rise garbatamente.

“Sì, è vero, pensa che all’inizio non volevo neanche partecipare, mi ha letteralmente trascinato qui, mezzora fa. Voglio essere sincero con te”, mi disse, poi, tornando molto serio. Incrociai i suoi occhi e fui tentata di provare a scorgere dentro di loro quella sorta di mare profondo e inesplicabile, quasi magico, che avevo visto in quelli di Piergiorgio, eppure quello che vidi furono solo due bei bulbi oculari, ma senza nulla in grado di attizzare di nuovo la mia curiosità.

“Anche per me è stato così, più o meno”, riuscii a replicare, dopo aver tentato quell’infruttuosa analisi.

“Ora ci godiamo questa cenetta omaggio e poi ognuno a casa propria”.

Annuii.

“Assolutamente giusto così, e non potrebbe essere altrimenti”.

Avevo già capito che Simone non era proprio la mia anima gemella, non aveva nulla che fosse stato in grado di colpirmi dritto nel cuore. E poi, chi aveva sancito che quello doveva essere una sorta di incontro combinato? Irene? E allora mi sentivo ridicola a voler stare al suo gioco.

In fondo, cominciai a pensarla solo come se fosse stata un’uscita qualunque, solo che mi era stata regalata, e di conseguenza dovevo dividerla con un altro, se volevo usufruirne.

“Che cosa fai nella vita, Simone?”, lo interloquii mentre giungeva al nostro tavolo un antipasto freddo ciascuno.

“Sono un allevatore di bestiame”.

“Uh”, sbottai, un po’ sorpresa, anche se avrei dovuto capirlo molto prima. In effetti, aveva proprio le sembianze del classico ragazzo di campagna, anche da come si vestiva, un po’ fuori luogo in quel posto di classe.

Anch’io tuttavia lo ero.

“Tu?”, mi chiese, educatamente. Pian piano la diffidenza iniziale si stava sciogliendo.

“Io sono una cameriera, lavoro a L’angolo della bontà, non so se conosci lo conosci…”.

“Sì, certo, ci passo di fronte ogni giorno”.

Spiluccai un po’ di quello che avevo nel piatto, senza tanta fame; un vero peccato che avessi già mangiato un po’ anche a casa, e che ancora fossi un po’ tesa. In condizioni normali, avrei potuto godermi meglio il momento e l’occasione.

“Hai l’aria della ragazza di città”, mi disse dopo un po’, scansando il piatto che aveva di fronte, e tornando al suo tono un po’ burbero.

“Lo sono. Cioè, ho sempre vissuto in periferia, anche se non in completa campagna, ma poi negli ultimi due anni ho vissuto quasi in centro della nostra cittadina, fintanto che ho convissuto col mio ragazzo”, gli risposi, comunque cercando di risultare sempre carina nei suoi confronti, non essendo il caso d’indispormi.

“Hai avuto anche un ragazzo?”, domandò, e per la prima volta anche lui un po’ sorpreso.

“Sì, poi ci siamo lasciati, da un paio di settimane a questa parte”.

“Mi dispiace”.

“Oh, non ti devi preoccupare. Lui ha già trovato una nuova compagnia, e per me dimenticarlo, a questo punto, non sarà un problema troppo serio”.

Allungai poi i piatti ai camerieri, che venivano a servirci un primo e a portare via i piatti delle pietanze precedenti, raccogliendo qualche loro ringraziamento.

“Accipicchia, che robe!”, batté poi incivilmente i pugni sul tavolo, facendo sussultare tutte le persone più vicine.

“Perché, tu sei perdutamente innamorato?”, gli chiesi, dopo aver notato quel suo gesto colmo di disapprovazione verso ciò che era successo tra me e Marco.

Mi sorrise, tranquillizzandosi nuovamente, e perdendo quell’aura di buzzurro incallito che ogni tanto riaffiorava in lui, all’improvviso, come poco prima.

“Scherzi? Alle ragazze fanno schifo i giovani che fanno il mio mestiere. In genere, le femmine cercano maschi giovani, belli e ricchi, e possibilmente che non sudino mai, altrimenti puzzerebbero”.

Mentre parlava e spiegava le sue argomentazioni in modo molto basilare e banale, lasciai che i miei occhi indugiassero sulle sue mani, dal dorso evidentemente arrossato, e con le dita callose. Si poteva notare solo facendoci caso, ma non era un mistero insabbiato.

Non mi aveva mentito, era di certo un uomo che stava molto all’aria aperta, e che credeva in quello che faceva, e questo me lo faceva stimare un po’, siccome amavo anche il fatto che sembrasse sempre tremendamente sincero, quando parlava e interveniva per dire qualcosa, e lo era per davvero, probabilmente.

“Non tutte le ragazze sono così”, gli dissi, come per rassicurarlo, mentre cominciavo a mangiucchiare nel mio piatto colmo di un delizioso e profumato risotto.

“Non venirmi a dire che tu saresti la mia ragazza ideale, perché non lo credo”, replicò.

“No, no”, lo bloccai, forse con troppa fretta, “ma non sono tutte come me, o come quelle che hai citato poco fa. Non devi fare di tutta l’erba un fascio!”.

Scrollò la testa.

“Lo dici solo per non essere scortese con me. In fondo, però, sei d’accordo”.

Non aggiunsi nulla in effetti, di nuovo a disagio, e persi tempo attorno al mio pasto, mentre il mio interlocutore stava anch’egli chino sul suo piatto a mangiare. Pareva avesse molta fame, ed ero felice per lui. Finsi di mangiare, ma il cibo proprio non mi andava giù… era una serata no.

Mi tornò ancora alla mente Piergiorgio, e la nostra ultima cena fuori, e mi dibattei, scocciata, come per scacciare tutto ciò. Mi disturbava, in un certo senso.

Finimmo in silenzio anche quell’ennesima portata, e fu lui a tornare a parlarmi.

“Spero che tu non te la sia presa. Sono una persona molto schietta e sincera, me ne rendo conto, ma non voglio offendere nessuno con il mio parere”, disse infatti Simone, di nuovo un po’ più calmo.

Gli rivolsi un sorriso tiepido.

“Ci mancherebbe altro”.

“Non mangi?”.

Guardai il mio piatto in pratica ancora integro, dopo che avevo spiluccato solo ai bordi.

“Non ho tanta fame”, risposi, mestamente.

“Non ti piace questo posto, forse? Eppure tutti dicono che è fantastico”, infierì, di nuovo.

Non risposi e mi costrinsi a guardare altrove. Quel ragazzo mi piaceva per la sua sincerità, ma non riuscivo a sopportare quando mi parlava… a tratti mi incuteva timore, e mi dava fastidio, alla stregua di una mosca molesta.  Si continuava a percepire che era un classico incontro combinato da altri.

Continuammo a mangiare, parlando pochissimo. Mi chiedeva soventemente se quella o l’latra pietanza erano di mio gusto, ed io annuivo con un cenno del capo, quando in realtà tutte le prelibatezze scivolavano sotto al mio naso senza che io le sfiorassi.

L’unico momento vivo della serata fu quando André, il proprietario del locale, venne a congratularsi con noi, stringendoci la mano, poiché eravamo i fortunati vincitori di quel primo premio. Fui costretta dalle circostanze a incassare, e tacitamente ad accreditarmi tal fortuna, in realtà non mia.

André era un uomo ancora piuttosto attraente e affascinante, nonostante la sua età ormai piuttosto matura, e mi fece piacere ascoltare la sua erre moscia d’oltralpe e scambiare con lui un formale saluto. Il resto, vuoto assoluto.

Dimenticavo tutto man mano, era proprio come se ormai avessi perso anche la mia rotta personale, e l’euforia iniziale era svanita, nonostante il mio interesse per quel posto fosse rimasto vivo solo grazie al gentile intervento del raffinato proprietario.

Finimmo di mangiare in tutta tranquillità, tuttavia cercammo di evitare il più possibile di interagire; era come se, in fondo, in quella serata costruita da altri, entrambi ci fossimo solo studiati, e basta, cercando di non sbilanciarci e quindi di non ferirci. Eravamo perfetti estranei, e ciò eravamo rimasti. Il piano di Irene era andato a rotoli, sembrava.

“Ho passato una serata carina. Perdona il mio comportamento, ma davvero, con le ragazze non ho tatto, e questo è un momento un po’ difficile per me, ho tanti grattacapi…”, mi disse Simone, quando giunsero i sorbetti finali.

Ormai eravamo rimasti soli, il locale si stava svuotando, e la serata cominciava a farsi tarda.

“Non ti preoccupare”, non gli recriminai nulla, capendolo un po’, in fondo. Anche se non vedevo comunque l’ora di andarmene. Avevo sonno, volevo solo riposare e dedicare un po’ di tempo a me stessa.

Anche se non volevo ammetterlo a cuor leggero, siccome ero ancora un pochino irritata, ero in pena per mia madre, non sapendo quello che stava accadendo a casa, quello che in lei sembrava non andare più… ma reprimevo tutto quanto, con forza; mi sembrava di essere davvero troppo pessimista e pignola. Lei era una persona adulta, e in quanto tale aveva deciso, e possedendo ancora la facoltà d’intendere e di volere, la mia lontananza se l’era cercata, pure se ormai ero pronta di nuovo a tornare alla nostra dimora condivisa.

“Non credo che possiamo andare molto d’accordo”, aggiunse dopo qualche minuto di silenzio il mio interlocutore, strappandomi dai miei pensieri sempre più aggrovigliati.

“Lo credo anch’io”.

“Potremmo comunque essere amici. Parlarci ogni tanto, mandarci qualche messaggio…”.

“Sicuro”, acconsentii, distrattamente.

“Ehm…”, tornò a lasciarsi sfuggire Simone, come se si stesse attendendo qualcosa.

Certo, poi capii; voleva il mio numero, o almeno qualche mio recapito.

“Se ti va di far quattro chiacchiere, sai dove trovarmi. Nel locale dove lavoro. Dubito che potremmo parlare molto, siccome la proprietaria è molto severa a riguardo, ma se hai bisogno di qualcosa, sono lì per quasi tutto il giorno”, lo liquidai, così, in modo labile.

Immaginai che comprese che anche a me, di quella serata, non era rimasto proprio nulla, da come gli avevo risposto. Non gli avevo concesso neppure un numero di telefono fisso, ma d’altronde non riuscivo davvero a comprendere per quale altro motivo i nostri destini si sarebbero dovuti incrociare di nuovo.

Finii bruscamente di trangugiare il sorbetto al limone, facendo fare alla cannuccia quel classico brusio fastidioso che mi piaceva tanto produrre da bambina, e allontanai il bicchiere da me.

“Io ora devo proprio andare. Domani mattina ho tre stalle da pulire… mi auguro buona fortuna da solo. Spero che ci rivedremo”, si accinse finalmente a congedarsi Simone, comunque sempre più in imbarazzo con me, dato che sembrava che fossi piombata in un profondo silenzio stampa pieno di delusione.

“Anch’io. Buona notte”.

Lo salutai senza neppure alzarmi da sedere, e il ragazzo, impacciatamente, sussurrò qualche altro saluto e se ne andò, e la cosa neppure mi sfiorò, apatica com’ero diventata. Sempre più amareggiata.

Mi sentivo sfortunata; per qualche istante, prima di interagire con quel ragazzo gradevole d’aspetto, ma insignificante interiormente, e troppo diverso da me, avevo pensato all’opportunità di conoscere qualche persona che avesse potuto arginare almeno un pochino quel senso di vuoto e di solitudine che mi sentivo dentro. Invece, tutto quello che avevo appena vissuto non aveva fatto altro che alimentare ulteriormente tutto ciò, e mi sentivo uno straccio, letteralmente.

Forse era in me che non andava qualcosa, ma non cedetti.

Quando mi alzai a mia volta per andarmene, Simone era già un lontano ricordo archiviato in tutta fretta nei meandri della mia memoria. I camerieri si congratularono ancora con me, seppur in tono falso e freddo, per la mia vincita, e me ne andai con la pancia mezza vuota, lasciando una marea di pietanze smangiucchiate alle mie spalle.

Mi sentivo uno schifo in tutti i sensi, non avrei mai desiderato che quella parentesi finisse per concludersi in quel modo, nonostante la mia iniziale e decisa reticenza.

Quando uscii dal ristorante, davanti ad esso c’era solo parcheggiata la macchina di Irene, e il mio orologio segnava la mezzanotte e un quarto. Ero troppo, troppo in ritardo, talmente tanto che già m’immaginavo in versione zombie la mattina successiva, per presentarmi alla signora Virginia con una flemma da morta e sepolta.

Salii in auto senza dire nulla, scura in volto e molto nervosa, era come se il mondo stesso mi stesse crollando addosso.

“Perché quel muso lungo?”, esordì Irene, mettendo in moto l’auto e cominciando a sfrecciare lungo il medesimo percorso affrontato qualche ora prima, ma nel senso inverso.

Scrollai le spalle, non mi andava di parlarne.

“Simone mi ha già detto tutto, quand’è uscito. Mi è parso di capire che tra voi non è andata bene, giusto?”, mi sollecitò, riprendendo a parlare con quel tono da affamata di gossip che ogni tanto sfoggiava, quando non riusciva più a trattenersi, e questo m’indispettì un altro po’.

“No, non è andata bene”, affermai, cercando di stare calma e di non pensare a nulla.

“E pensare che è sempre un ragazzo così gentile e cortese”.

“Non ho detto che non lo sia, a modo suo”.

“E allora cos’è che non va?”, mi chiese, e si distrasse dalla guida per offrirmi uno di quei suoi sguardi radiosi, che vidi perfettamente nonostante la penombra che ci avvolgeva. “Tu, petit, cercavi l’amore, allora! Ah, come sei romantica, non ti credevo così…”.

Non la lasciai concludere, poiché non seppi più trattenermi, ed esplosi come una bomba.

“Non ti credevi un cazzo! Io voglio essere sincera con te, guarda, non voglio star qui a nascondere qualcosa che è stato un disastro completo! Sappi che tutto questo non l’ho voluto né cercato!”.

“Ma cos’è che vuoi, Isa?”, m’interloquì molto pacatamente la mia amica, facendosi seria all’improvviso, dopo il mio brevissimo ma chiaro sfogo.

Restai ammutolita; cos’era che volevo? Non lo sapevo! Ero di nuovo confusa.

“Non lo so neppure io, in fondo. So però che non desideravo quello che ho appena vissuto, e non voglio poi ascoltare i tuoi commenti sarcastici”, dissi, a quel punto mogia, come se mi fossi sgonfiata tutta d’un tratto, come un palloncino che dopo averlo forato perde il suo vigore e la sua forma.

“Va bene. Ti giuro che non farò mai più commenti sarcastici, né ti provocherò, anche se l’ho sempre fatto bonariamente”, cominciò a spiegarmi, “però questo era un mio regalo che volevo farti. So del tuo periodo no, e volevo solo trovare un modo originale per farti stare tranquilla, mica volevo che tu ti gettassi tra le braccia di un perfetto sconosciuto per amoreggiare direttamente! A volte, hai dei modi molto strani di vedere la realtà; o è tutta di colore bianco, e allora via libera, o è tutta di colore nero, e allora sei irritabile ed esplodi, dici parolacce e non sei gentile per niente. Ma se ci pensi sopra un attimo, capirai che qualcosa ti è rimasto, di questa serata”.

Tacqui.

“Ti è rimasto un amico. Almeno, spero. Hai interagito con un tuo simile dopo settimane in cui hai messo un muro tra te e il mondo, dove ti sei solo preoccupata, dove hai pensato al tuo ragazzo e poi a tua madre, e nient’altro. Ed è stato giusto così! In ogni caso, hai passato una serata diversa dal solito, hai stravolto la monotonia nella quale ti immergi”.

“E’ questo quello che pensi? Che sono solo una gran noia ambulante?”, sbottai, seppur a voce molto moderata e senza evidente irritazione.

Irene mi parlava in modo molto pacato e tranquillo, e per la prima volta in vita mia la vedevo seria, come se avesse calato per qualche istante quella maschera da ragazzetta superficiale che indossava in maniera quasi costante. Robe da inneggiare il miracolo. Ma non mi bastava.

“Non sei noiosa, è solo che sono tua amica e non sarei stata bene se ti avessi saputo a casa a mangiarti le unghie, con una mamma che evidentemente ancora non sta bene e non ce la fa a lasciarsi andare con te. Avevi bisogno di un po’ di respiro, come anche lei, d’altronde”, sospirò la mia amica.

“Ora sei libera di decidere. Se vuoi partecipare anche alle prossime due serate, approfittando del fortuito premio che ti ho regalato, puoi farlo e metterti liberamente in gioco, siccome nessuno pretende nulla da te e sei tu che puoi decidere come gestirti e quello che vuoi. In realtà sei tu a tenere in mano la vicenda. Ma se vuoi farla finita, è già acqua passata e il biglietto vincente è carta straccia”, aggiunse, vedendo che non dicevo nulla.

“Affronterò anche le prossime due sere, incrociando le dita”, asserii, alla fine, dopo aver ragionato un attimo e capendo che Irene non stava dicendo cavolate; dovevo solo capire cosa volevo, e il resto che me ne importava? Simone non mi aveva lasciato niente, ma almeno non mi ero logorata tra le mura domestiche e col silenzio strano di mia madre.

Mi sentivo comunque pronta a proseguire.

“Così mi piaci, ma sei liberissima di fare quel che vuoi”.

“Ho deciso, ti ho detto”, riconfermai.

“Allora domani sera torno a prenderti io, stessa ora stesso posto. Organizzo tutto io e ci metto tutto io, questo è il regalo che voglio farti, e mi farebbe piacere vederti felice”, tornò a dirmi Irene, tornando a guardarmi, ancora seria, fermando l’auto ad uno stop.

Io la guardai ma non feci una piega.

“Un sorriso, per favore. Un sorrisino!”, e sorrise anche lei.

A quel punto mi lasciai andare e l’abbracciai, felice di avere un’amica che pensasse così tanto a me. Era vero che lo faceva a modo suo, ma ognuno di noi ha il suo modo di esprimere l’affetto che prova per il prossimo e per chi gli sta attorno.

 

Una volta tornata a casa, non appena rientrai vidi che la luce era ancora accesa, nel salotto, dove le mie rose erano ancora le regine indiscusse dell’ambiente.

Mia madre, apatica, era impalata davanti allo schermo della tv, immobile come se fosse stata di pietra.

“Beh, mamma, non vai a letto?”, le chiesi, gentilmente.

“Ah, sei già tornata? Non ti preoccupare, ci andrò tra un po’, tanto non ho sonno”, mi rispose, relegandomi solo uno sguardo triste, molto fugace, che poi tornò a piantarsi sul televisore, tra l’altro con un audio così basso che non si sentiva niente.

“E’ mezzanotte passata, è ora di…”, provai a dire, ma la mia genitrice non ebbe reazione.

Mi ritrovai così sconsolata che mi sentii costretta a terminare così il discorso, interrompendolo, e a lanciarmi verso la mia camera da letto, senza più provare a far nulla per lei. Sapevo che non mi avrebbe ascoltato e che non avrebbe avuto alcuna reazione, e le mie parole sarebbero solo state sciupate, destinate a cadere nel vuoto assoluto.

Ero stanca morta e quella situazione mi aveva già sfiancato, seppure mi stesse mettendo alla prova da un solo pomeriggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Primo incontro andato. Beh… poteva anche andare meglio, credo xD

Nel frattempo, alcuni avvisi; sto pubblicando il racconto anche su Wattpad, e inoltre… ha ricevuto una magnifica recensione da parte della bravissima Karen Humbert, che potere trovare sul suo blog.

Grazie per essere qui, spero di continuare a intrattenervi nel modo migliore ^^

 

   
 
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