L’indomani mi
svegliai indolenzito. La sera prima
avevo deliberatamente eccesso con l’alcol, bevendomi un paio di
Margarita sotto
l’occhio vigile di Adeline. Più di una volta provò a portarmi via il
bicchiere
da sotto il naso, ma sapeva bene che presto ne avrei ripreso un altro
dal
bancone del barman. Non mi erano rimasti molti ricordi.
Strascicai i
piedi sulla moquette consunta ed andai
a lavarmi il viso. Ero pallido, come la neve gelida sul Monte
Washington, e le
mie labbra rossastre, raggrinzite e gonfie sembravano il resoconto di
una lite
non finita bene. Gli occhi erano tetri, come una vetrata sporca, e
sembrava
volessero rispecchiare il mio stato d’animo di quel momento: uno schifo.
Ashton non era
in camera. Probabilmente aveva
trovato qualche ragazza con cui passare la notte. Dopotutto era sua
abitudine
farlo. A volte mi chiedevo come mai non volesse di più, come mai non
provasse a
stare con la stessa persona ed intraprendere un percorso con essa. Ma
Ashton
era molto diverso da me, credo non gli passasse nemmeno in testa un
pensiero
simile.
Quella mattina
non avevo lezioni.
Così, indossai
una semplice tuta nera ed andai in
biblioteca.
Diversamente da
molti ragazzi della mia età, io
amavo leggere. Lo studio me lo impediva, non avevo molto tempo libero,
ma
quello che riuscivo a ritagliarmi, lo passavo immerso in pagine e
pagine di
volumi.
Probabilmente,
se non avessi intrapreso questo
percorso di studi, sarei diventato uno scrittore.
La Cornell
possedeva molte biblioteche ed io avevo
sempre l’imbarazzo della scelta.
Riposi Fiesta
sul carrello e mi incamminai verso il secondo piano, dove vi erano i
manoscritti.
Presi in mano Le
memorie di Barry Lyndon, quando sentii due mani pizzicarmi i
fianchi.
«Ciao secchione»
borbottò la ragazza, spingendomi
gli occhiali su per il naso.
Adeline era più
felice del solito, stretta in un
maglione cremisi, i libri schiacciati contro il petto. Mi guardava con
occhi
supplichevoli, occhi che sotto celavano una domanda che non mi sarebbe
affatto
piaciuta.
Sistemai meglio
la montatura dei miei occhiali scuri
e riposi il libro sullo scaffale. Incrociai le braccia al petto, prima
di chiederle
che cosa volesse.
«Niente, voglio
solo scambiare due parole col mio
migliore amico» sbuffò, rotando gli occhi al soffitto.
«Adeline.»
«Okay, mi devi
dare una mano con questi» disse,
piazzandomi sotto il naso due volumi di letteratura contemporanea.
Avranno
avuto almeno mille pagine ognuno.
«Ma sei matta?»
Si corrucciò,
mostrandomi il labbro. «Ti prego, ne
ho bisogno.»
Adeline stava
cercando di laurearsi in letteratura. Sapevo
quanto fosse difficile per lei farlo. E sapevo anche quanto odiasse
quella materia.
I genitori avevano preso questa scelta per lei, senza pensare ad i veri
interessi della figlia. Oramai si era data per vinta, all’ultimo anno
non pensi
più ad inseguire i tuoi sogni, cambiare, bensì non vedi l’ora di avere
quella
stramaledetta laurea in mano ed andartene.
Glielo leggevo
negli occhi che non ce la faceva più.
«Va bene»
sbuffai, «però mi devi un favore. Era il
mio giorno libero.»
Adeline
strabuzzò gli occhi, felice, e mi abbracciò
calorosamente. Trasalii, imbarazzato.
Così, le spiegai
Flaubert,
Proust, Joyce
mentre lei mi guardava stralunata, attenta a qualsiasi mia
parola come fosse una delle più dolci poesie. Ma io lo notavo, che a
lei non
interessava nulla, come abbassava le palpebre e volesse chiuderle, come
distoglieva l’attenzione alla minima persona che passava; eppure, stava
lì,
seduta con le gambe accavallate, ad ascoltarmi parlare ore ed ore, come
se
fossi stato io lo scrittore, come se sapessi già quello che vi era
scritto nel
romanzo, nelle poesie di Baudelaire. Mi guardava dolcemente, dicendomi
grazie
ogni singolo attimo e mi parve di scorgere il mio stesso sentimento
nelle sue
iridi scure… o forse, solo il riflesso del mio.
Forse era per
quello che mi ero innamorato di lei.
Adeline mi ascoltava ed io riuscivo ad esprimermi. Ero sempre stato un
tipo
riservato, eppure con lei non ero in grado di innalzare quel muro. Lo
aveva
abbattuto prima che riuscisse a dividerci. E nel vano tentativo di
ricostruirlo, io non facevo altro che denudarmi delle mie paure, dei
miei
pensieri.
Mi nascondevo
dietro a delle rocce, che sapevano di
cenere quando era lei a guardarmi in quel modo.
Ero
inspiegabilmente perso in quel arrischiato gioco
chiamato amore e speravo di non sfuggirne mai.
Dopo quattro
ore, mi fermò. Posò le mani sulle mie e
parlò. «Basta, Chase. Ti offro il pranzo» disse, ponendo All’ombra
delle fanciulle in
fiore dentro la tracolla.
Annuii,
seguendola verso la caffetteria.
Ci sedemmo ed
ordinammo, mangiando successivamente
in silenzio.
«Vuoi anche il
mio?» domandai, guardandola addentare
il terzo panino.
«Perché mi
guardi così? Eh? Lo studio mi mette
fame.»
Scossi la testa,
sorridendo. Spinsi il piatto verso
il centro tavola e glielo passai. Lei mi guardò con gli occhi lucidi, e
mimò
un: «sei il migliore.»
Dopotutto,
nonostante non avessi trascorso il mio
meritato giorno di pausa, non potei lamentarmi. Passare il tempo con
lei mi
inondava di felicità ed ero inspiegabilmente leggiadro. Avrei potuto
superare l’oceano
con un balzo.
Amavo passare il
tempo in sua compagnia. Non ci si
stancava mai. A volte calavano degli aloni imbarazzanti tra di noi, ma
lei
riusciva sempre – e dico sempre – a colmarli. Anche per quello la
amavo: faceva
svanire ogni imbarazzo da quell’imbranato che ero.
Stavo per
chiederle di uscire con me, quella sera,
quando Perry entrò dall’entrata sul retro. Mi rabbuiai, stringendo i
pugni.
«Ciao amore»
bofonchiò, avvicinandosi al nostro
tavolo e baciando le sue labbra.
Alzò lo sguardo
su di me. «Crawford.»
«Si chiama
Chase» canzonò lei, a denti stretti.
Perry puzzava di
pericolo, e Adeline ci andava
matta. I pantaloni di pelle, il taglio rasato, l’Harley Davidson del
novanta;
tutte cose che la facevano impazzire. Ogni weekend, da quando
iniziarono a
frequentarsi, se la coricava in sella e la portava via. Non ho mai
saputo per
dove. Lei non voleva dirmelo. Ma non ero stupido, l’avevo capito.
Non avrei mai
potuto darle quelle cose.
«Va bene
Crawford, per lui.»
La ragazza mi
guardò in collera, lei ci teneva che
provassi a farmelo amico. Ma non ci riuscivo, non volevo.
«Devo andare.»
Mi alzai e feci
un cenno alla ragazza, non degnando
di minimo sguardo quel coglione. Sapevo di ferirla così, ma non potevo
sopportare tutto questo.
Adeline non
aveva mai provato piacere verso i
ragazzi ordinari, a lei piaceva l’avventura, il rischio e
plausibilmente si
sarebbe anche stancata di lui non appena avrebbe trovato qualcuno di
più
azzardato. Avevo perso ancora prima di giocare.
Cosa avrei
potuto darle?
Forse l’amore,
ma anche di quello si sarebbe ben
presto stancata.
Uscii. Il cielo
piangeva e un po’ rispecchiava me.
Tirai su il cappuccio sopra la testa, i ricci si bagnarono e mi
solleticarono
il viso. Passeggiavo tranquillo, sotto quell’acquazzone. Mi sentivo me
stesso.
Mi stavo
dirigendo
verso la confraternita, ma avevo bisogno di stare da solo. Avevo
bisogno di
pensare. Invertii la marcia.
Cacciai dei
sassolini
lungo il percorso.
«Che cos’ha
quell’idiota
che io non ho» sbuffai, irritato.
«Si crede tanto
figo perché
è un biker!»
Cacciai un urlo.
«Se
non avesse quella moto, diamine, non sarebbe nessuno!»
Probabilmente
attirai l’attenzione
di qualche studente, avevo troppi occhi addosso. Affrettai il passo.
«E poi che
diamine di
nome è Perry?»
Mi morsi il
labbro,
frustrato. Avevo camminato per tutto il campus e mi ero ritrovato
nuovamente di
fronte alla confraternita. Non potevo far altro che coricarmi sul
letto. Me e
la mia rabbia.
Il restante
pomeriggio lo passai martellandomi la
testa con la matita. Ero finito nella Clark Hall, giocando con i
microscopi
elettronici. Non ero molto concentrato, i miei pensieri vorticavano su
tutto
fuorché sull’anatomia del nematode preso in considerazione.
Stranamente, il
laboratorio era vuoto. La maggior parte delle volte non si riusciva
nemmeno a
sperimentare con attenzione, dovuto al viavai di laureandi, dottorandi,
professori e ricercatori. Ora, benché minimo passante sembrò
interessato ad
entrarvi.
Adeline mi aveva
lasciato una decina di messaggi in
segreteria ed io ero tentato a risponderle, ma non potevo, non dovevo. Così, ero uscito.
Stavo cercando
di laurearmi in biologia, ma ero
rimasto indietro con lo studio e dovevo dare troppi esami in poco
tempo. Avevo
poche probabilità di laurearmi in quell’anno. Nonostante non fossi
fiero del
mio percorso di studi, trovavo sempre la voglia di continuare e
impegnarmi.
Forse perché ero curioso, affascinato.
Il mio trattato
sui vermi andava a gonfie vele,
dopotutto era la materia che mi piaceva di più del corso. Il Caenorhabditis Elegans era
il tema principale della mia tesi. Secondo Sydney Brenner, fu il primo
primate,
dal quale si generarono successivamente migliaia e migliaia di specie
diverse.
Zoomai con la
rotella del microscopio e osservai il
comportamento dell’essere vivente. Annotai successivamente quanto
compresi sul
taccuino. Non fui pienamente soddisfatto di quanto appresi, ma decisi
comunque
che sarebbe andato nella mia tesi, come buona constatazione da fare al
relatore.
Inspiegabilmente
la pace si interruppe e qualcuno
occupò il silenzio circostante.
«Non ti credevo
così entusiasta di analizzare vermi»
pronunziò, dietro di me.
Mi girai
lentamente e mi aprii in un grande sorriso.
La figura snella
e longilinea di Scarlett occupava
la mia visuale. Erano giorni che non la vedevo e non avevo notizie di
lei, ed
un po’ mi era mancata. Scarlett era la mia vicina di banco a biologia.
E la mia
unica amica al campus.
«De gustibus non
est disputandum» echeggiò la mia
voce contro le pareti.
Sorrise di
gusto, mostrando due piccole fossette ai
lati della bocca e si mise su il camice alla svelta.
«Avanti,
spostati, lascia fare alla dottoressa.»
Mi avvicinai
lentamente a lei, ascoltando quant’ebbe
da aggiungere. Le nostre mani si accarezzarono per un secondo, quasi
avessero
paura di farsi del male, di graffiarsi. Sentivo il suo respiro caldo a
pochi
centimetri dalle labbra, ed un sentimento nuovo e disarmante si propagò
in me.
Era così bella, dolce, pura, come una candida rosa baciata dalla
rugiada; ed in
quel momento avrei voluto assaggiarla, baciarla, rendere parte di me il
suo
profumo.
Una ciocca bionda le cadde sul naso, in mezzo agli occhi, e prima che
dicesse o
provasse a fare qualcosa, portai il pollice e l’indice in quell’angolo,
spostandogliela indietro.
Si girò lentamente verso di me, facendo sfiorare il suo naso contro il
mio,
fissandomi negli occhi.
«Scusami» dissi,
abbassando per qualche istante lo
sguardo sulla sua bocca.
Scarlett
increspò le labbra e lessi nei suoi occhi
del dispiacere.
Mi spostai.
«Allora, come è
andata a Minneapolis?» domandai.
Lasciai che uno sgabello ci dividesse.
«Bene. Vogliono
brevettarla.»
Strabuzzai gli
occhi, stupito. Scarlett aveva
inventato un marchingegno in grado di prelevare il sangue e stilare una
lista
di risultati molti più completa rispetto a qualsiasi altro emocromo
esistente.
Ero orgoglioso di lei.
«Davvero? Sono
felicissimo.» Azzerai la distanza
abbracciandola. Profumava di rose.
Le si colorarono
le guance, ed imbarazzata mimò un grazie
con le labbra.
Ashton diceva
che ero sordo. Probabilmente l’amore
non si poteva vedere, ma eri in grado di sentirlo. Ed io avevo perso il
senso
dell’udito. Scarlett era diversa da Adeline, per quello non pretendevo
nulla da
lei, non cercavo di impressionarla; non avrei dovuto fare nulla, non mi
sarei
dovuto mettere in gioco. E questo mi spaventava. Dovevo solamente
essere me
stesso.
Ashton diceva
che avrei avuto bisogno di essere
amato. Che presumibilmente amavo troppo io, che la mia vita era uno dei
miei
libri preferiti e avevo perso il senso tra realtà e fantasia. Adeline
era la
mia fantasia, Scarlett la realtà. E sapevo che tra le due cose un mare
le
separava ed io dovevo decidere verso quale porto dirigermi.
La testa mi
diceva una cosa ed il cuore un’altra.
Ero costantemente un indeciso.
Posò i suoi
occhi cerulei sul mio viso e le vidi
arrossarti le gote. «Ecco, prova ora. Ho cambiato vetrino.»
Osservai. «Wow»
enunciai, sbigottito, «è
meraviglioso, grazie Scar.»
All’inizio non
mi accorsi di averle affibbiato un
nomignolo, poi vidi l’espressione del suo viso e fece sorridere persino
me. Era
bellissimo vederla sorridere per me.
Così, passammo
tutta la serata assieme e il tempo
sembrò passare inspiegabilmente veloce e qualcosa in me chiedeva di
più, voleva
che quel momento si ripetesse millemila volte ancora, finché non mi
sarei
stufato.
Ma la vedevo dura, io, di lei, non mi sarei mai stancato.
Scusate se questo capitolo non è questo granché, ma è più una fase di passaggio.
Ho introdotto un nuovo personaggio, vi piace? Chi lo sa che ruolo avrà nella storia.
Ora vi lascio con il nostro protagonista. Con i prossimi capitoli metterò anche gli altri :)
Chase Crawford
Mi trovate su wattpad come whatlou.
Un bacio, Elena.