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Autore: NavierStokes    30/08/2018    9 recensioni
Questa storia è una piccola favola d'amore moderna, costellata di momenti di speranza e di momenti di tristezza, di momenti comici e di momenti tragici. Perché si sa, ciascuno di noi ha una sua personale favola ad attenderlo, basta solo saperla cogliere.
Tra allerte meteo, senza tetto, improbabili gala di beneficienza, malintesi e bugie, i nostri impavidi eroi (Alec e Magnus) saranno protagonisti di questa romantica commedia agrodolce che abbatte i pregiudizi ed i dogmi tradizionali.
Preparatevi a vedere Magnus ragazzo di strada come non lo avete mai visto in questa mirabolante avventura nata dal profondo disagio di NavierStokes.
Genere: Comico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buonasera, innanzitutto, stiamo tutti calmi. Questa storia è nata mentre, teoricamente, avrei dovuto preparare degli esercizi di matematica. Quindi non ho sottratto tempo a “Quando il destino ci mette lo zampino”, di cui il capitolo 18 è quasi finito e sarà pubblicato a breve. Bensì ho sottratto tempo al mio lavoro, quindi no problem (si fa per dire, in realtà it’s a big problem).
La storia che vi propongo ora è in parte già scritta, si comporrà di pochi capitoli, non più di un paio. Vuole essere una favola contemporanea, triste, ma al contempo divertente (NavierStokes che scrive esclusivamente roba seria è molto poco credibile).


 

1 Le favole non esistono



- Marta May ha osato organizzare una cena di gala di beneficienza! – gridò indignata sua madre dall’altra parte del telefono. – Tutta New York sa che è Maryse Lightwood ad occuparsi dell’evento benefico più chic dell’anno, quella meretrice pensa di rubarmi la scena usando i miei slogan sui senza tetto solo perché ha sposato quel grassone del sindaco.

Alec restava in silenzio, ad ascoltare la voce furiosa di sua madre che si diffondeva nell’abitacolo della sua auto, mentre sfrecciava per le vie di San Francisco. Domandandosi come un evento di beneficienza, destinato a coloro i quali sono senza casa, potesse anche solo lontanamente essere classificato come chic.  E, se davvero quelle iniziative fossero state un concreto aiuto per la comunità in difficoltà, allora sua madre avrebbe dovuto essere ben lieta di sapere che anche altre persone fossero sensibili alla causa, ma, la realtà, era che questi eventi erano solo uno strumento per veicolare fama e soldi tra la New York dell’alta società. Da che ne aveva memoria non erano mai state fatte vere donazioni contingenti alle società di carità, i soldi venivano piuttosto spesi in campagne pubblicitarie, gadget e feste, con cui le mogli frustrate dei potenti della città cercavano di mettersi in luce l’una sull’altra, facendosi sgambetti e sabotaggi, il tutto in nome dei senza tetto.

Per Alec era davvero un comportamento vergognoso ed inammissibile, ma dopo aver provato più volte a far ragionare sua madre, senza successo, aveva ormai rinunciato. Preferendo chiudersi in un volontario e pacifico silenzio.

- Quindi, quest’anno, il nostro evento dovrà essere cento volte più sontuoso. Ho già ordinato un catering direttamente dalla Francia e ho contattato il miglior fioraio del mondo per occuparsi delle decorazioni, per non parlare poi delle statue di ghiaccio. Il Gala di Beneficienza per i senza tetto di Villa Lightwood finirà in prima pagina sul New York Times ed eclisseremo il gala di Marta May.

- E ai poveri quanto verrà donato? – fece l’errore di chiedere Alec.

- Oh Alexander, ma cosa c’entrano adesso i poveri! Ora l’importante è contattare lo chef stellato Michael Frost e sperare che accetti di venire al nostro evento prima che sia quell’arrivista di Marta May a chiamarlo.

Ovviamente Alec avrebbe dovuto aspettarselo, cosa c’entrano i poveri ad un gala di beneficienza per i poveri? L’unica cosa che conta è battere Marta May o, come la chiamava sua madre, l’odiosa moglie del sindaco.

-Mamma scusa ma ora devo andare.

Mise fine alla conversazione e continuò a guidare in direzione della villetta che gli avevano comprato i genitori quando era stato ammesso alla Berkeley University. Perché, ovviamente, i rispettabili coniugi Lightwood, proprietari di uno dei più importanti studi legali degli USA, non potevano non comprare una villa esageratamente grande per il figlio che frequenta l’università in California. Una villa più grande di quella che Marta May ed il sindaco avevano comprato per il figlio, naturalmente. Cosa avrebbe pensato altrimenti la gente? Non sia mai che i Lightwood possano permettersi meno agio della famiglia del sindaco. Anche perché Robert Lightwood era al suo secondo anno di mandato come senatore. Un senatore conta molto più di un sindaco, ripeteva sempre Maryse.

Se Alec avesse dovuto scegliere un aggettivo per rappresentare il suo stato d’animo avrebbe scelto frustrato. Perché era esattamente così che lo aveva fatto sentire la sua famiglia per tutta la vita, facendolo crescere nella finzione e nella credenza di stereotipi superficiali. Suo padre aveva un’amante, ma i suoi non potevano divorziare perché non volevano rovinare la falsa immagine di famiglia felice che avevano costruito. Perché è più importante avere una finta immagine di copertina piuttosto che una vita reale. Alec era gay, ma era più saggio non sbandierarlo troppo in giro, perché, anche se sua madre era stata una sostenitrice dei diritti gay durante la sua campagna elettorale di qualche anno prima, una cosa è sostenere i figli gay degli altri e un’altra è avere un figlio gay.

Max, il più piccolo della famiglia, era morto qualche anno prima per assecondare la finzione. Era annegato in un pomeriggio di settembre, mentre i genitori litigavano in casa, al riparo da sguardi indiscreti, a causa di tutte le bugie e le menzogne che aleggiavano tra di loro e che cercavano in ogni modo di tenere a bada quando erano al pubblico. Alec e la sorella di mezzo, Isabelle, non erano in casa quando successe l’incidente. Il bambino, che aveva solo nove anni, era uscito in giardino, per non sentire le grida dei genitori e, per disgrazia, era scivolato nella piscina. Non sapeva nuotare. La prima cosa che fece Maryse fu coprire lo scandalo che la vedeva come madre negligente, adducendo come spiegazione della catastrofe l’incapacità della governante, che aveva così perso il posto e si era ritrovata emarginata e con una morte sul curriculm.

Con rabbia Alec strinse il volante dell’auto e, mentre il cielo sopra di lui baluginava in vista dell’imminente tempesta, la radio dava il bollettino meteo, ricordando l’allerta prevista per quella fredda notte di febbraio.

Era fermo al semaforo quando un corpo, accasciato sugli scalini di un portone, sotto il fascio di luce di un lampione, attirò la sua attenzione. Si trovava in un quartiere periferico, terribilmente malfamato, in cui passava sempre nel tragitto tra la villetta e l’università e, ogni volta, aveva messo la sicura all’auto per stare più tranquillo. In quel preciso momento, mentre era ancora in coda al semaforo, l’auto lesse un messaggio vocale di sua madre.

-Per il gala di beneficienza ti farò confezionare un abito da Armani. Ho dato al sarto il tuo numero telefonico, ti chiamerà per incontrarvi.

Con uno sbuffò di frustrazione spostò lo sguardo sul termometro digitale, segnava -5°C, e poi lo riportò sul corpo riverso sugli scalini, a pochi metri da lui, appena all’inizio di un vicolo malandato.

Un nuovo trillò segno l’arrivo di un nuovo messaggio della madre. Accostò l’auto e scese a passo spedito.

Quando fu abbastanza vicino alla figura accasciata, un dubbio serpeggiò nella sua mente: e se si fosse trattato di un cadavere? Non si sarebbe stupito, quella zona era nota per lo spaccio, la prostituzione e gli omicidi.

-Ehi – provò a chiamare in direzione dell’involto di abiti che aveva di fronte, non riusciva a capire dove fosse la testa, tanto quella persona era raggomitolata. Non capiva nemmeno se fosse un uomo o una donna.

Scosse leggermente una parte di quel corpo con la punta della scarpa, per poi ritrarsi bruscamente, quella era una cosa terribilmente da sua madre. Lei adorava toccare tutto ciò che si trovava per terra con la punta della scarpa, ma, ovviamente, non sarebbe mai andata per vicoli malfamati a farlo. Alec dubitava che si fosse mai avvicinata ad un povero che non fosse stato lavato e ben vestito per un’intervista.

-Ma cosa diavolo sto facendo? – sbottò ad un certo punto. – Ora dovrei essere a casa, a preparare il mio esame di diritto penale e non a viverlo in prima persona. Non sta a me indagare l’elemento psicologico del reato per capire se sia doloso. Non ricordo più nemmeno la definizione di dolo. Maledizione, stupido esame. E stupidi gala di beneficenza. E dannazione alle allerte meteo. Non ci sarebbe il problema del cambiamento climatico se si fosse trovata prima una soluzione all’uso smodato dei combustibili fossili in favore delle biomasse. E noi, ora, non avremmo inverni così freddi ed estati così calde! Ed io non dovrei cercare di redimere i peccati della mia famiglia nei vicoli malfamati.

Era così preso dal suo più che assurdo sproloquio da non essersi accorto di due occhi affilati, seducenti ed attenti che lo scrutavano con curioso interesse.

-Tutto bene? – domandò ad un tratto una voce dal basso, lievemente sarcastica.

Alec smise di straparlare, abbassò la testa e si scontrò con un viso stanco, ma giovane, asiatico, che lo fissava con un sopracciglio inarcato.

- Sei vivo – disse solo il giovane Lightwood, parlando più con se stesso che con il ragazzo.

- In teoria credo di essere in Paradiso – rispose sornione l’altro – non credo esistano angeli così belli sulla terra.

Alec lo guardò in tralice e si accigliò: - Alzati – disse solo, con voce decisa e sicura.

-Per andare dove? – chiese divertito l’altro, inclinando la testa, semi nascosta dal cappuccio del cappotto logoro, perforandolo con gli occhi più intensi e particolari che Alec avesse mai visto. Le sue pupille ricordavano terribilmente quelle dei gatti e, per quanto non fosse il momento adatto, il giovane si trovò a pensare che fossero affascinanti.

- A casa mia.

- Oh…si fa interessante – mormorò con un tono di voce che Alec classificò come sensuale. Ma poi scacciò il pensiero e fece strada, placidamente seguito dall’altro. Perché un senza tetto dovrebbe cercare di essere sensuale?

- Wow, amico – gridò quando la macchina del Lightwood lampeggiò per essere stata aperta con le chiavi a distanza – hai una Porche. Devi essere parecchio ricco – commentò euforico.

- Me l’hanno regalata i miei– spiegò con noncuranza. – Sali.

Il senza tetto non se lo fece ripetere due volte e in pochi istanti la macchina era ripartita.

-Ce l’hai un nome, o posso chiamarti mio? – domandò non appena si furono rimessi nel traffico della città, scrutandolo ammiccante.

Alec spalancò gli occhi, scandalizzato e si chiese se avesse davvero fatto bene a fare quello che considerava un gesto caritatevole o se lo avesse fatto solo per redimere sua madre dalle sue false beneficienze.

- Mi chiamo Alec – rispose a mezza bocca, gli occhi fissi sulla strada.

- Diminutivo di? – insistette l’altro, continuando a fissarlo avidamente.

- Alexander – spiegò arricciando gli angoli della bocca in una smorfia contrariata.

- Alexander – ripeté il senza tetto e il giovane Lightwood, per la prima volta, pensò che il suo nome non fosse poi tanto male. Forse era dovuto al particolare accento dolce dell’altro o al modo in cui aveva ruotato la lingua quando aveva pronunciato la x e la r.

Decisamente avrebbe dovuto guardare la strada e non la lingua del tizio che aveva caricato in auto.

-Solo Alec – concluse brusco.

- Perché?

- Il mio nome completo non mi piace.

- Io penso sia bellissimo invece, è importante, ha un bel suono, è molto virile. Come te – concluse facendogli l’occhiolino.

Alec ringraziò il buio nella vettura, in cui poteva nascondere l’evidente rossore sulle guance. Proprio a lui doveva toccare il senza tetto sfrontato?

-Quanti pulsanti ci sono – esclamò entusiasta, osservando l’interno dell’auto.

Non solo era sfrontato, ma era anche logorroico.

-Posso toccarli? – domandò come un bambino in un negozio di giocattoli.

- E’ la radio – spiegò brevemente il proprietario del mezzo.

- Posso mettere una canzone?

Prima ancora che Alec rispondesse che no, non poteva mettere una canzone perché lui ascoltava solo musica classica e la radio non la trasmetteva, l’altro aveva già messo una canzone pop a tutto volume, iniziando a cantare i ritornelli.

Quando finalmente parcheggiò nel garage della villetta tirò un sospiro di sollievo. Il tizio orientale che aveva tolto dalla strada non era stato zitto un solo secondo. Aveva parlato a raffica di tutto e Alec non era decisamente abituato a tutta quella vitalità. Lui era un tipo silenzioso, che faticava a stare in mezzo alla gente.

Era così assorto dalla lettura dei messaggi accumulati che gli aveva lasciato la madre sul telefono da non essersi accorto che l’asiatico non aveva più aperto bocca da quando erano entrati nell’abitazione. E così, mentre Alec si era tolto il cappotto e si era lasciato cadere sul divano, l’altro restava immobile a fissarlo, con una strana espressione sul volto, nel mezzo della sala.

-Prego – gli disse allora il padrone di casa con un gesto della mano – puoi toglierti i vestiti e fare un bagno, penso ne avrai bisogno. Ti presto qualcosa da mettere.

Il senza tetto lo interruppe, sembrava confuso. – Quanti anni hai?

-Diciannove.

-Non capisco – mormorò. – Sei bellissimo, ricco, giovane. Che ci faccio io qui?

Alec rimase interdetto, non capiva fino in fondo il significato di quella domanda. O meglio, non capiva come il fatto che lui fosse ricco e giovane e bello, anche se sul bello aveva i suoi dubbi, fosse connesso con la presenza dell’altro.

-Te l’ho detto, sono sensibile alla causa dei senza tetto. Questa notte è prevista un’ondata di gelo e una nevicata da allerta meteo.

- Io non sono un senza tetto – quasi rise.

- Lo sembri però – cercò di giustificarsi Alec, senza pensare che così dicendo potesse offendere l’altro, che, invece, apprezzo quella sincerità.

- Vivo in una topaia, con un mio amico. Letteralmente una topaia, qualche giorno fa abbiamo ucciso un ratto grosso così – disse distanziando i palmi di almeno 30 centimetri. – Ragnor voleva mangiarselo – raccontò con una smorfia. – Ma io mi sono impuntato per buttare il cadavere giù dalla finestra. Preferisco stare a digiuno piuttosto che mangiare carne di topo.

Alec rimase sconcertato ad ascoltarlo. Non pensava che qualcuno potesse anche solo pensare di mangiare un ratto. In realtà non aveva mai nemmeno pensato all’eventualità che qualcuno potesse trovarsene uno in casa da fronteggiare. All’evenienza lui avrebbe sicuramente chiamato la disinfestazione e provveduto per fare una fumigazione.

-Vuoi mangiare? – domandò concentrandosi sulle parole dell’asiatico circa il digiuno, scacciando così l’immagine molesta dei topi.

- Io non vorrei approfittare, non saprei come ripagarti – mormorò mestamente, all’improvviso tutta la spavalderia precedente sembrava scomparsa.

- Non lo faccio per ottenere qualcosa in cambio – rispose, sotto lo sguardo stupito ed affascinato insieme dell’asiatico. – Per stanotte puoi dormire in una delle camere degli ospiti. Ha il bagno privato. Puoi fare una doccia, io intanto ti cerco dei vestiti da prestarti.

Quando Alec lo ebbe lasciato solo nella camera degli ospiti, l’asiatico si guardò intorno. Non era mai stato prima d’ ora in una camera tanto bella e non aveva mai visto un letto tanto invitante, al punto che non poté fare a meno di sdraiarcisi per saggiarne la comodità e non riuscì a trattenere un gemito soddisfatto nel momento in cui la sofficità della stoffa lo accolse. Poi però si tirò bruscamente via, osservando apprensivo la coperta bianca che aveva l’aria di essere estremamente costosa, come tutto lì dentro, alla ricerca di eventuali macchie che poteva aver lasciato con i suoi abiti sporchi. Per fortuna non aveva lasciato impronte e così, avvolto dal tepore dell’ambiente, dovevano esserci almeno venticinque gradi in quella villa, iniziò a spogliarsi, accingendosi verso il bagno privato della stanza. La quantità di marmi e superfici brillanti che lo accolse gli fece quasi girare la testa e, quando i suoi occhi scivolarono sullo specchio enorme che troneggiava nel bagno, si sentì in una favola. E, a quelli come lui, non capitavano mai le favole, nemmeno per una sola notte.

Con un sorriso aprì il getto dell’acqua nella vasca, accarezzando con le dita le varie ampolle contenenti oli, saponi e profumi vari. Niente a che fare con il sapone dozzinale più economico del supermercato che poteva permettersi con Ragnor. Rimase immerso nell’acqua per un tempo indefinito a godersi quella pace e quel caldo. Quando uscì trovò perfettamente piegati sul letto dei vestiti puliti, si avvicinò e vi immerse il naso, avevano un profumo buonissimo. Si rivestì con calma, assaporando la morbidezza di quella stoffa scivolargli sulla carne. Era solo una tuta da casa, eppure era l’indumento più soffice che avesse mai sentito addosso.

Tornò in cucina, ancora indeciso su come comportarsi con quello strano ragazzo che lo aveva accolto e lo trovò impegnato ai fornelli.

-Tra poco sarà pronto – gli disse senza voltarsi – se vuoi puoi sederti, o puoi andare in sala a vedere la televisione.

L’asiatico pensava ancora che quel ragazzo avesse qualche rotella fuori posto, perché chi mai, sano di mente, si poterebbe a casa il primo sconosciuto trovato in un vicolo di dubbia fama? In fondo poteva anche essere un pazzo, un maniaco o un assassino. Ma, con il lavoro che faceva, quello era un rischio che correva sempre. Eppure con gli altri sapeva sempre cosa aspettarsi, questo ragazzo invece non sapeva come approcciarlo.

-Ascolta – iniziò a dire per attirare l’attenzione del padrone di casa, che infatti si girò verso di lui. – Come ti ho detto io non ho soldi, quindi non posso ripagarti per l’ospitalità.

-Ti ho già detto che non lo faccio per avere qualcosa in cambio.

L’asiatico lo interruppe alzando una mano e poi lo fissò con intensità disarmante.

-Non ho soldi – disse ancora – ma ho il mio corpo – aggiunse in un chiaro invito.

Il momento in cui il significato di quelle parole arrivò ad Alec fu quasi comico, la sua bocca si aprì in un gesto involontario e poi si richiuse con uno scatto, il rossore sulla sua faccia si estese fino alle orecchie e gli occhi si spalancarono all’inverosimile.

-Ma cosa? – iniziò a dire sconvolto. – No, certo che no. Io non sono quel genere di persona – spiegò imbarazzato per quella proposta, mulinando il mestolo in aria.

Lo sguardo che ricevette dall’asiatico fu insondabile, lo stava osservando come si osserva uno strano animale esotico, ma al contempo era uno sguardo carico di ammirazione.

-Posso aiutarti con la cena, allora? – chiese con voce tremula.

- Sì, penso di sì – acconsentì.

- Io mi chiamo Magnus – disse mentre disponeva i piatti in tavola.

- E’ un nome particolare.

- Non è il mio vero nome. Quello vero è indonesiano ed impronunciabile, per questo ho deciso di inventarne uno di fantasia.

In realtà, quello non era l’unico vero motivo, ma non gli sembrava il caso di dire la verità a quel ragazzo tanto per bene.

- Vieni dall’Indonesia?

- In realtà, vengo da un orfanotrofio in una zona decadente di San Francisco – ammise con un sorriso – mi hanno abbandonato appena nato, in una culla, insieme ad una lettera su cui c’era scritto il mio nome. Perché dovrei tenermi il nome che ha scelto per me chi non mi ha voluto?

- Magari chi ti ha abbandonato lo ha fatto per necessità, forse non poteva fare altrimenti, forse pensava che tu avresti avuto una vita migliore.

Magnus alzò gli occhi in quelli dell’altro, stupito. Era la prima volta che raccontava quella storia ad un estraneo e non si aspettava una risposta del genere.

- Non l’avevo mai vista da questo punto di vista – concesse, guardingo.

- E’ tutta una questione di prospettive – disse Alec, portando le pietanze in tavola. – Da quanto non mangi? – domandò poi, di fronte alla scena dell’altro che si abbuffava letteralmente.

- L’ultimo pasto decente risale a parecchio tempo fa – ammise onestamente, senza risentimento nella voce.

Ad Alec si strinse il cuore, sua madre avrebbe dovuto investire in operazioni utili per i poveri americani e non in feste per i ricchi americani.

- Quanti anni hai?

- Ne compio venti tra pochi mesi – rispose, con la bocca piena di pollo.

Aveva solo un anno più di lui e chissà quali sofferenze aveva dovuto affrontare, pensò colpito.

-Tu cosa fai nella vita?

- Studio giurisprudenza alla Berkeley.

- Wow, è una delle università americane più prestigiose – esclamò ammirato. – Vuoi diventare un avvocato?

- Sì, credo di sì.

- In che senso credi?

- Nel senso che la mia famiglia ha uno studio legale da generazioni, mio padre è senatore e mia madre ha intrapreso la carriera politica qualche anno fa. E’ quello che ci si aspetta che io faccia: carriera forense e politica.

- Ma a te piace?

Alec posò la forchetta sul piatto e fissò la sua attenzione sul ragazzo di fronte. Nessuno mai gli aveva chiesto una cosa del genere. Nessuno mai era riuscito a scorgere l’incertezza dietro la sua filastrocca imparata a memoria sulla carriera forense che l’aspettava.

-A volte bisogna fare anche cose che non ci piacciono.

- Credimi, nessuno meglio di me lo sa – rispose tranquillamente Magnus, portandosi una generosa forchettata di patate alla bocca. – Ma penso che uno come te possa scegliere di essere felice.

- Non penso nemmeno di sapere cosa significhi questa parola.

L’asiatico gli sorrise conciliante. – Significa desiderare ciò che si ha. Apprezzare le piccole cose, i piccoli gesti. Lasciare fuori le ansie, le paure e vivere con speranza ogni giorno.

-Tu sei felice?

Magnus quasi rise. – Quando nella vita si fanno determinate cose o si assiste a determinate altre, è difficile credere ancora nella felicità. I ricordi del passato torneranno sempre a tormentarti.

-Specie di notte – concluse per lui Alec.

- Specie di notte – ripeté l’asiatico.

Quando anche l’ultima portata fu servita, il padrone di casa si alzò e si apprestò verso il frigorifero.

-Vuoi un dolce?

Gli occhi di Magnus si spalancarono di entusiasmo ed annuì energico e, di nuovo, il cuore di Alec si strinse. Chissà se aveva mai avuto soldi da spendere per un dolce. Quando si hanno pochi soldi certo non si spendono per il gelato.

-Ho dei budini al cioccolato e del gelato alla vaniglia, cosa vuoi?

L’asiatico inclinò la testa di lato, come se stesse valutando una decisione di vitale importanza. – Non saprei. Quale è più buono?

- Penso che potremo mangiarli entrambi, prima il budino e poi il gelato. Magari possiamo vedere qualcosa in televisione nel frattempo.

La serata era volata via rapida, mentre fuori imperversava la bufera di neve, e Magnus, per la prima volta in tutta la sua vita, si sentiva al sicuro.

La mattina successiva arrivò in fretta, Alec si svegliò presto, guardò fuori la finestra e scoprì che la nevicata era ormai finita e la coltre bianca ricopriva tutto intorno. Andò in cucina, mise a bollire il caffè e poi si accinse ad andare a bussare alla porta del suo ospite. Non ottenendo risposa decise di entrare e sul letto vuoto, perfettamente rifatto, sopra i vestiti che gli aveva prestato la sera prima, c’era ad attenderlo un biglietto.
 
 
Grazie, sei un ragazzo dal cuore d’oro.
ps puoi stare tranquillo, non ho rubato nulla, tranne una mela ed un’arancia dal porta frutta in cucina.
pps non andare più in vicoli malfamati e non ospitare più sconosciuti a casa, potrebbe essere pericoloso.
 
Magnus
 
 
 
 Quando Ragnor rientrò nel piccolo monolocale fatiscente, Magnus era sdraiato sul letto, con un’espressione ebete in viso.

- Perché quella faccia felice? Hai vinto alla lotteria? – domandò il coinquilino.

-Meglio – sorrise tra sé, con lo sguardo perso.

- Cosa c’è di meglio?

- Mi sono innamorato – ammise candidamente.

- Di un cliente? – indagò con un velo di apprensione l’amico, prendendo posto sulla poltrona piena di muffa e con lo schienale divelto, di fronte al letto
dell’altro.

- Ma no, certo che no! – esclamò indignato. – Quelli mi fanno schifo.

- Hai sempre detto che tutto il genere maschile ti faceva schifo.

- Sì, ma poi ho conosciuto lui – mormorò tremulo, le palpebre che si abbassavano lievi a celare dolci ricordi di un paio di occhi blu.

- Hai intenzione di raccontarmi o devo cavarti le parole di bocca?

- Ero reduce di una prestazione un po’ violenta, un tizio che mi aveva pagato molto bene, ma che mi ha lasciato un polso completamente livido e vari dolori ovunque – iniziò a dire con voce schifata. - Quando se ne è andato ero in lacrime e non avevo la forza di muovermi. Mi sono accasciato sugli scalini di un portone ed ho pensato di chiudere un po’ gli occhi. Qualche ora dopo è arrivato lui – a quel punto del racconto la sua voce cambiò totalmente, assumendo una sfumatura adorante – alto, moro, occhi blu e che occhi, Ragnor, dovresti vederli, sono spettacolari. Ha iniziato a parlare a raffica e a dire cose come allerta meteo, gala di beneficienza e qualcosa sul redimersi dai peccati, onestamente non l’ho ascoltato molto, ero troppo concentrato sul timbro della sua voce, così virile, così profondo e poi quelle labbra che si muovevano nervose mentre parlava…divine – esalò un sospiro con gli occhi sfarfallanti. – Inizialmente credevo fosse un pazzo, perché davvero chi si addentrerebbe in un vicolo malfamato a parlare di cose assurde con uno sconosciuto accasciato su degli scalini? Comunque era decisamente un bel matto e quindi mi stava bene.

Ragnor scosse la testa con un mezzo sorriso. – Credo che quello più matto sia tu.

- Comunque – riprese la storia – poco dopo ho iniziato a mettere a fuoco i dettagli. Era vestito abbastanza male, ma al polso aveva un Rolex autentico e parlava decisamente bene, seppur di argomenti insensati, ma aveva un modo di parlare e di muoversi raffinato. Era di alta società e così iniziai a pensare che forse era un matto dell’alta società. Sono rimasto tutto il tempo a fissarlo senza aprire bocca mentre lui continuava gli sproloqui sui cambiamenti climatici e sulle feste di sua madre. Poi ad un certo punto mi ha detto di alzarmi e di seguirlo. E, credimi, quando si è girato ed ho visto il suo sedere, lo avrei seguito ovunque. Dopo tre anni di clienti vecchi, grassi, brutti, calvi e puzzolenti, finalmente era arrivato il mio ragazzo ideale. Certo, matto come un cavallo, ma bello come il sole.

- Quanti anni aveva? – lo interruppe l’amico, sinceramente avvinto dal racconto.

- Diciannove – rispose veloce per riprendere il racconto. – Dicevo, matto ma bello e sicuramente non vedevo l’ora di farlo con lui, anche se ero decisamente ancora dolorante non mi sarei tirato indietro per niente al mondo. E, invece,…lui aveva altri piani – sorrise tra sé, scuotendo la testa, gli occhi ora liquidi.

- Che vuoi dire?

- Che lui voleva aiutarmi e non pagarmi per andarci a letto. Ieri sera c’era allerta meteo, era pericoloso rimanere in strada e sua madre gestisce tipo un’associazione per i poveri, quindi è sensibile all’argomento. Ha pensato che io fossi un senza tetto e mi ha invitato a casa sua.

- E’ pazzo davvero – decretò Ragnor – avresti potuto essere un maniaco o un assassino e magari ucciderlo! Non si porta gente sconosciuta a casa.

- Vero, ma senti la parte migliore. Dopo essere saliti sulla sua Porche ed essere arrivati alla sua villetta, gli ho detto che volevo ripagarlo per la gentilezza e gli ho detto che non avevo soldi, ma avevo il mio corpo e lui mi ha guardato con quei bellissimi occhioni blu spalancati per l’imbarazzo. Era incredulo e mezzo sconvolto e mi ha detto che non lo faceva per avere qualcosa in cambio. In un primo momento mi sono arrabbiato per quella risposta.

- Perché?

- Beh, mi sono arrabbiato per due motivi: primo perché volevo davvero andarci a letto e secondo perché se lui avesse accettato di usare il mio corpo allora sarebbe stato uguale a tutti gli altri e per me sarebbe stato semplice averci a che fare: avrei potuto odiare anche lui, e invece no. Lui aveva detto che non avrebbe approfittato di me e qualcosa mi si è incrinato dentro.

- Capisco. Sarebbe stato più semplice da gestire se si fosse rivelato come tutti gli altri.

- Esatto, avrei continuato con la mia vita di disprezzo per il genere umano e invece…ho capito che quel ragazzo era un dono dal cielo ed io non ho potuto fare a meno di invaghirmi di lui.

- E poi? Non è successo nulla?

- No. Stamattina gli ho lasciato un biglietto e me ne sono andato.

- Perché?

- E’ diverso da tutti quelli che ho conosciuto finora – spiegò con aria trasognata. – E’ gentile, educato, ha dei valori, capisci? Ha dei principi e li segue. E poi…è bellissimo – sospirò.

- Appunto, non capisco perché sei fuggito da casa sua.

- Come fai a non capire? – domandò frustrato, tirandosi a sedere, mentre assumeva una smorfia di fastidio per una molla rotta del letto che lo aveva punto. – Lui è perfetto. E’ ricco, colto, intelligente, altruista, buono e bello. Io non sono alla sua altezza. Cavolo, Rag, io vendo il mio corpo per pagare l’affitto e le bollette. Lui ha una Porche e una villa per l’università oltre chissà quanti soldi ed immobili.

- Ma è stato gentile con te – provò l’amico – magari gli piaci.

- Rag, lui non ha capito che mi prostituisco. Se lo avesse saputo mi avrebbe guardato disgustato ed io non avrei avuto più il coraggio di stare nella stessa stanza con lui.

- Non ti ha mai creato imbarazzo il lavoro che fai.

- Non avevo mai conosciuto qualcuno di cui mi importasse il giudizio. Lui mi ha guardo in modo umano, capisci? Come se io fossi una persona e non un relitto umano. Non voglio che quello sguardo cambi in uno di disprezzo e, credimi, uno come lui non potrebbe che rimanere schifato da uno come me.

- Pensi ti abbia accolto in casa solo per beneficenza?

- Non solo – rifletté – è un ragazzo introverso, molto solo. Deve essergli capitata una qualche grande disgrazia e mi ha aiutato con disinteresse, davvero. Ma, al contempo, era come se fosse felice del fatto che io stessi riempiendo i suoi silenzi. Come se avesse in qualche modo bisogno di me, è stata una bella sensazione.

- Ma non lo rivedrai mai più…

- E non sai quanto ne sono felice, quelli come lui devono stare il più alla larga possibile da quelli come me. E’ proprio perché mi piace così tanto che spero sinceramente che le nostre strade non si incrocino più.

Il cuore di Ragnor si strinse un po’ a vedere l’amico che ammetteva con voce mesta e rassegnata la sua condizione e l’impossibilità ad essere felice. Poteva anche sembrare accettare quella situazione, ma Ragnor lo conosceva bene e sapeva che, in realtà, quell’incontro lo aveva sconvolto nel profondo.

- Non sarebbe stato meglio non averlo mai conosciuto, allora?

- No – rispose deciso – mi ha ridato un po’ di speranza nel genere umano e mi ha dato un bel pensiero a cui rivolgermi prima di addormentarmi – sorrise con dolce afflizione. – Se questa fosse una favola allora lui sarebbe il mio principe azzurro, quello che mi salva da tutto e da tutti e mi porta via con sé, ma questa è la vita reale. Nella vita reale i principi non sposano i pezzenti. Ma mi resterà per sempre un bellissimo ricordo.

 

Inizialmente non volevo postarla, però insomma ormai che l’avevo scritta tanto valeva ammorbarvi anche con quest’altra storia. Quindi spero che non mi diciate che avrei fatto meglio a tenerla seppellita in qualche meandro del mio computer. In caso la storia vi faccia schifo ditemelo tranquillamente, così che io decida finalmente di smettere di scrivere e far viaggiare la mente e mi concentri sulla matematica.  
Detto ciò vi mando un caro saluto, velato dal triste pensiero dell’estate che sta finendo.
 
Vostra
NavierStokes

 
   
 
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