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Autore: Lost In Donbass    23/09/2018    2 recensioni
Denis è arrogante, spaccone e attaccabrighe, ma in realtà cerca solo qualcuno da amare. E che lo ami a sua volta.
Valentina è depressa e devastata, ma riesce sempre a dipingersi un sorriso sulle labbra. Per ora.
Ylja ha una famiglia distrutta, un fidanzato disturbato e gli occhi più belli di tutta la Russia. Però è tremendamente stanco.
Valerya ha tanti demoni, lo sanno tutti. Nessuno però ha mai tentato di esorcizzarla.
Aleksandra sembra essere la ragazza perfetta, anche se nasconde un segreto che non la farebbe più sembrare tale.
Kuzma tira le fila e li tiene tutti uniti, è quello che li salva. Eppure sa che non farà una bella fine.
Sono arrabbiati e distrutti. Sono orgogliosi e violenti. Amano, odiano, bevono e si sballano.
Sono i ragazzi del Blocco di Ekaterimburg e questa è la loro storia.
Genere: Angst, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
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CAPITOLO SETTE: I RAGAZZI SOFFRONO
I see a pain behind your eyes
I know you feel it everyday
It’s like a light that slowly dies
But it’s better not to say
[As It Is – The Stigma (Boys Don’t Cry)]
 
Un accordo di chitarra. Una strofa mormorata a mezza voce. Un cappuccio calato sul viso. Un paio di manine inanellate che correvano sulle corde. Valentina era abbastanza inconfondibile, arrampicata su una delle grosse scale esterne di uno dei palazzi del Blocco, facendo quello che le riusciva meglio. Suonare qualche acustica dei Tokio Hotel e lasciare che la musica assorbisse tutta la sua tristezza. Guardare il tramonto che tingeva il cemento di rosso fulgido, fare finta di non esistere per qualche attimo, galleggiare nelle sue dimensioni sospese, giocare a rimpiattino col fondo della sua anima tormentata. Tirò giù qualche accordo, sorridendo tra sé e sé. Ogni volta che suonava quella canzone, pensava a Sasha, e inevitabilmente le veniva da sorridere. Era così bello suonare col la bionda seduta ai suoi piedi che muoveva i capelli a ritmo. Era così romantico, e si illudeva di tutti i sogni che ancora la facevano galleggiare e le avevano permesso di non suicidarsi. Sorrise tra sé e sé, continuando a suonare. La chitarra era la sua vita, lo era sempre stata. Non c’era momento nel quale la si vedesse senza il suo fido strumento. Suonava ad ogni ora del giorno, componeva canzoncine, strimpellava e sognava ad occhi aperti, per fuggire da un mondo che odiava. Quante serate d’estate avevano passato sui tetti dei magazzini abbandonati, con falò dentro i barili, vodka scadente e la chitarra di Valya a tener loro compagnia, con ritmi allegri e frizzanti. Quante notti invernali invece si erano lasciati cullare da tristi ninnananne, nel Covo, con le luci soffuse e la dolce voce di Ylja ad accompagnarla nel canto. Sì, la chitarra era un elemento irrinunciabile per la Banda del Blocco, almeno quanto le casse che si portavano sempre dietro o i pacchetti di sigarette schiacciati nelle tasche dei jeans. Valentina suonava, e gli altri ondeggiavano a ritmo, un ritmo tutto loro, che si erano costruiti negli anni e che continuava a mutare, come le onde del mare che nessuno di loro aveva mai visto. Valya avrebbe tanto voluto vedere l’oceano. Lo sognava la notte, desiderava di poter toccare con mano quell’immensità, suonare su spiagge infinite, lasciare che fossero le onde a dettarle nuovi ritmi e nuove canzoni da poter cantare sotto le stelle. O sotto la spuma che bagnava la risacca. Si chiedeva di che colore fosse davvero il mare. Se di un azzurro gelido e pungente come gli occhi di Kuzma, o di un pallido verde acqua sagace e affascinante come gli occhi di Ylja. O magari di un blu cupo e devastato come i suoi. O come quelli di Aleksandra, verde smeraldino allegro e spensierato. Suonò qualche accordo malinconico, mordendosi l’anellino all’angolo del labbro, quando con la coda dell’occhio vide che qualcuno si era seduto accanto a lei. Si voltò, e incrociò lo sguardo di Kuzma. Sorrise.
-Ehi, Kuzja. Cosa ci fai qui?
-Non lo so, Valya.- rispose lui, con quel suo sorriso così adulto e triste – Forse volevo solamente sentirti suonare.
La ragazza rise un pochino, e cominciò a suonare un’acustica di una vecchia canzone dei Tokio Hotel, lasciando che l’amico muovesse la testa a ritmo, lo sguardo perso sul tramonto di sangue che bagnava Ekaterimburg. C’era qualcosa, lo sapevano entrambi. C’era sempre qualcosa, quando Valya intonava quella canzone e quando Kuzma abbassava gli occhi in quel modo. Aspettavano solamente il momento giusto per iniziare a parlarne. Non seppero nemmeno quando tempo se ne stettero in silenzio, uno accanto all’altra, finché non fu lui a prendere la parola
-Valya … come stai?
Lei interruppe la canzone di colpo, lasciando che l’ultima nota risuonasse stonata nel silenzio che era appena calato. Lo sapeva che prima o poi sarebbero arrivati a parlare di quel giorno maledetto, avevano lasciato decantare le cose per troppo tempo senza mai farne parola. Molte volte lei avrebbe voluto intavolare il discorso, ma sempre una fitta al cuore l’aveva fermata. Voleva scappare, dimenticare quella notte, ma sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. Non si può fuggire da sé stessi. E non si può fuggire dai sensi di colpa che si acuivano ogni giorno di più.
-Sto bene.- mormorò, concentrando lo sguardo sui lacci delle Vans.
-Davvero, Valya. Come stai?
I loro occhi, un paio piccoli e celesti e un paio grandi e blu notte, si incontrarono e vi si leggevano dentro gli stessi sentimenti. Timore, vergogna, fatica. Rabbia, forse.
Lei prese un profondo respiro, e lasciò cadere la testa sulla spalla dell’amico
-Non faccio altro che pensarci. Non … oh, Kuzja, non lo so. Forse non avrei dovuto farlo. Forse avrei dovuto lasciare tutto come stava.
-Ne abbiamo già parlato.- Kuzma le prese il viso tra le mani – Non c’era molto altro da fare. Sarebbe stato solo un azzardo.
-Dici?- Valentina buttò giù un accordo a caso, sentendo gli occhi di nuovo umidi – Eppure … lo sogno sempre! Ogni notte, sogno una vita diversa e …
Si bloccò prima di scoppiare in singhiozzi e Kuzma la strinse forte a sé, lasciando che lei affondasse il viso rotondo e pallido nella sua felpa.
-Ne uscirai, Valyoch’ka, te lo prometto. È passato solo un anno, ma sono sicuro che supererai anche questa. Hai me, hai noi. Hai la Banda dalla tua.
-E se Sasha lo venisse a sapere?- Valya alzò lo sguardo sull’amico – Si infurierebbe!
-Sasha non lo saprà. E se mai lo scoprirà, sono sicuro che ti perdonerà. Anche se … avresti dovuto dirlo a Denis.
-Dirlo a Denis?! No!- strillò lei, allontanandosi quasi di scatto da lui.
-Avrebbe avuto diritto di saperlo.- si limitò a commentare Kuzma, stringendosi nelle spalle. – Era una cosa che lo coinvolgeva direttamente.
Valentina sembrò sgonfiarsi, e si aggrappò alla chitarra come fosse il suo ultimo scoglio, il suo ultimo appiglio per non venire travolta dalla tempesta
-Hai ragione, ma chissà come l’avrebbe presa. È imprevedibile. Magari avrebbe voluto che …
-Non lo sappiamo, ed è inutile piangerci sopra. Però ti prego, Valya, non lasciare che questo ti uccida. Io sono qui per te, ti sono stato accanto un anno fa e ti starò accanto anche adesso.- continuò Kuzma, prendendola per mano – Hai fatto quello che hai fatto, non so se sia stato giusto o sbagliato, ma non puoi lasciarti torturare dal passato. Abbiamo un presente da vivere, un inferno da sbaragliare, un futuro da progettare. Lascia dormire i tuoi demoni almeno per un po’.
Valentina represse un singhiozzo, stringendosi istintivamente all’amico, e lasciando che la stringesse a sé, reprimendo un pianto che ormai la sconquassava ogni dannata notte. Aveva ragione Kuzma, come al solito. Doveva andare avanti, sopprimere quei ricordi devastanti, farsene una ragione. Oramai era successo, e il segreto si era cementificato nei loro cuori, li stava portando a fondo con lui. Ma come faceva a passare sopra a una cosa del genere? Come poteva dimenticare il terrore di quella notte tempestosa?
-Kuzja … io non so se ce la faccio.- sussurrò, sentendo il trucco pesante colarle sul viso – Non so se ci riesco.
-Ce la farai.- rispose lui, accarezzandole i lunghi capelli – Magari non oggi, non domani e forse nemmeno tra un anno, ma prima o poi lo supererai. Hai me, Valyoch’ka, non sei sola a trascinarti dietro questo segreto.
Valentina soffocò un singhiozzo, stringendo Kuzma ancora più forte, come tacito ringraziamento. Ma dove lo trovava un amico così?  Sentiva qualche lacrima scorrere, anche se un pallido sorriso si faceva strada sul suo viso. Se lo diceva Kuzma, allora si fidava, sarebbe passata anche sopra a quello, in qualche modo avrebbe fatto in modo di convivere con quell’incidente che le aveva sconvolto l’esistenza. Poteva farcela. Doveva farcela. Era la dannatissima Valentina Tolokonnikova, la ragazzaccia del Blocco, con la sua chitarra e il suo sarcasmo agghiacciante. Anche se dentro stava cadendo a pezzi, rimaneva quello straccio di coraggio dettato dalla musica che le urlava di non mollare, di passare oltre a quel brutto incidente. Avrebbe ascoltato quella voce ancora una volta, avrebbe stretto i denti e avrebbe combattuto. Ancora.
Rimasero per un tempo indefinito abbracciati sulle scale, illuminati dagli ultimi raggi di sole, e fu uno strano movimento nel cortile sotto di loro che li distrasse dal loro silenzio doloroso e sofferto. C’era una figura conosciuta che stava correndo lungo il viale che costeggiava quel blocco di caseggiati. I due ragazzi si guardarono e poi si affacciarono alla balaustra
-Ma, sbaglio o quello è Ylja?- chiese Valya, scostandosi il ciuffo emo dal viso.
-Non sbagli.- mormorò Kuzma, assottigliando gli occhi – Ma dove starà andando così di corsa?
I due continuarono a seguire la piccola figura camminare spedita, fino ad incontrarsi con un uomo minuto, con i capelli lunghi e quello che pareva un cappellino da baseball calcato in testa.
-E quello chi diavolo è?- sibilò Valya, alzandosi sulle punte dei piedi.
-Boh, magari è un suo parente.
-E tu limoni con i tuoi parenti?
Guardarono con crescente curiosità Ylja e l’uomo baciarsi tranquillamente, e poi avviarsi per mano fuori dal complesso edilizio.
-Vuoi vedere che Den avesse ragione?- sussurrò Kuzma, più a sé stesso che altro.
-Ragione di cosa?- chiese Valya, facendo tanto d’occhi.
-Che Ylja avesse un fidanzato ma che non ce lo volesse dire. Forza, Valya, seguiamoli.
Valentina e Kuzma si scambiarono un’occhiata, e poi si precipitarono di corsa giù dalle scale, la chitarra che sbatteva rumorosamente sulla schiena di lei e finalmente un fatto che potesse far loro dimenticare un po’ i loro drammi personali.
 
Ylja aveva pianto. Viktor se ne accorse non appena lo vide, il viso ancora arrossato e il verde pallido degli occhi violato dalle lacrime. Non disse nulla, si limitò a stringerselo forte al petto, lasciando che il ragazzo gli seppellisse il viso nel collo, inumidendoglielo con grosse lacrime. Se glielo avessero chiesto, Ylja non avrebbe saputo ricordare tempi nei quali fosse stato felice e allegro. Gli sembrava fosse passata un’eternità da quando le cose in casa sua erano andate a rotoli. Un’eternità da quando il suo patrigno, quelle rare volte che tornava, lo prendeva a pugni dalla mattina alla sera. Un’eternità da quando sua madre aveva cominciato a maltrattarlo. Un’eternità da quando casa sua puzzava di alcol da far vomitare. Un’eternità da quando vivere era diventato sempre più difficile.
Anche quel giorno, il suo patrigno era entrato in camera sua, ubriaco, e gli aveva spento la musica di colpo, rovinando irrimediabilmente il cd al quale il ragazzo teneva da morire. Certo, avrebbe dovuto esserci abituato. Avrebbe dovuto starsene zitto, raccogliere i resti del povero cd e andarsene a procurare un altro. Avrebbe dovuto fare finta di niente, come al solito, ma per qualche strano motivo quel giorno aveva reagito. Uno strillo, un tentativo mal riuscito di tirare uno schiaffo a quell’uomo unticcio che li aveva rovinati, uno  scatto di nervi isterico, e si era ritrovato agonizzante sul pavimento, lo stomaco attorcigliato e gli occhi pieni di lacrime. Un calcio, un pugno, il solito “frocio di merda”, uno sputo e Ylja era rimasto lì, malamente accasciato sul pavimento della sua stanza, in mano i resti del cd di Yulia Savicheva che tanto adorava, il pianto che gli violava il viso. Odiava non riuscire a ribellarsi, odiava essere così dannatamente debole. Aveva provato a scappare di casa, una volta, a trasferirsi a stare nel Covo, ma alla fine era tornato indietro e ogni volta che ci pensava, avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Era debole, e non poteva fare a meno di esserlo. Aveva bisogno di qualcuno, sempre, non riusciva a stare solo. Aspettava di poter finalmente finire la scuola per andare all’Università e potersi ricostruire da capo una vita, lasciarsi alle spalle una famiglia maledetta che gli aveva rovinato l’adolescenza. Non aveva mai trovato un abbraccio, delle coccole, un complimento: solo insulti, odio, alcol e botte. Scappava dalla Banda per farsi consolare, per sentirsi amato, si aggrappava a qualunque cosa ma non poteva dimenticare nemmeno per un secondo l’incubo che si perpetrava ogni giorno tra le mura mal intonacate di quell’appartamento del Blocco. Stava così male, e non sapeva come uscirne. Era un incubo, un incubo che non finiva mai.
-Yljusha, amore, cos’è successo?
La dolce voce di Viktor gli fece quasi illuminare gli occhi. Non sapeva cosa avrebbe fatto se non avesse trovato quell’uomo. Bastava un suo sguardo, un suo sorriso, una sua parola, e un pezzetto del cuore del giovane si scaldava. Si rattoppava. Smetteva di sanguinare.
-Vik … possiamo andare via?- sussurrò, asciugandosi gli occhi con la manica. – Non mi importa dove, da qualche parte.
Viktor sospirò, accarezzando i capelli corvini di Ylja e se lo strinse ancora forte al petto, massaggiandogli delicatamente la schiena.
-Andiamo a casa, piccolo. Andiamo a casa, e mi racconti tutto.
Ylja tirò su col naso e annuì, stritolando la mano abbronzata di Viktor. Aveva un modo così dolce di trattarlo, affettuoso ma mai falso. In quei grandi occhi scuri c’era una solitudine che a Ylja ricordava tanto la sua: forse anche Vik, da ragazzo, era stato solo come lui lo era adesso, e magari era lo stesso motivo per il quale lo capiva meglio di qualunque altro. Avevano entrambi gli occhi grandi e solitari, e a Ylja piaceva pensare che si erano incontrati e innamorati proprio grazie ai loro occhi simili. Stessa malinconia, stessa tristezza, stesso coraggio.
-Posso stare un pochino a casa con te?- chiese, mordendosi il labbro inferiore.
-Puoi restare quanto vuoi, Yljusha. È l’ora di mettere un freno a tutto ciò.- ribatté Viktor, stringendogli forte la mano e guidandolo verso l’uscita dal blocco edilizio.
Camminarono per un po’ in silenzio, mano nella mano, e Ylja si rese conto di star continuando a piangere solamente quando Viktor si fermò e gli asciugò il viso con il pollice. Lo guardava con tanta tristezza che quasi il ragazzo si sentì stringere il cuore,
-Ylja, tesoro, stammi a sentire: ce la farai. Lo so che stai soffrendo, ma non lasciare che questo ti urti.
Viktor gli accarezzò il viso, e a Ylja venne di nuovo da piangere. Avrebbe voluto scappare con Vik fino alla fine della Siberia, lasciarsi alle spalle una città che odiava e una famiglia che non poteva più vedere, rifarsi una vita altrove. Magari andare in Europa, chissà. Sposarsi, e ricostruirsi una storia per seppellire quella vera. Ma contemporaneamente non avrebbe mai voluto abbandonare la Banda. Erano la sua casa, i suoi amici e Ylja sapeva che non poteva lasciarseli alle spalle. La Banda era formata da tutti e sei, un meccanismo delicatissimo che non poteva funzionare se un pezzo era difettoso. Lui non voleva sicuramente essere il primo a incrinare il congegno ad orologeria che erano, eppure non poteva fare a meno di pensare che avrebbe dato qualunque cosa per poter partire. Vedere il mare. Mosca. Sentire altre lingue. Avviarsi verso nuovi lidi. Era così insofferente della sua vita da chiedersi a volte perché fosse ancora vivo. Forse era un codardo, in fondo. O forse era troppo innamorato e attaccato alla speranza per poter pensare di finire il proprio corso. Ylja sperava, sperava da quando era venuto al mondo e non aveva mai smesso. Credeva con tutto sé stesso che sarebbe cambiato qualcosa, e quando gli sembrava di perdere la speranza, trovava sempre un appiglio per non lasciarsi andare. Non c’era volta che il ragazzo si fosse arreso, e ogni giorno si convinceva che forse sì, avrebbe potuto farcela. Da quando era arrivato Viktor, poi, Ylja aveva ritrovato gli ultimi brandelli di coraggio ai quali affidarsi. Credeva così disperatamente da farsi male – però, però era ancora in piedi. E questo voleva pur dire qualcosa.
-Guardami, tesoro: ti porterò via da qui.- Vik gli aveva preso le mani tra le sue, e lo fissava, una vaga luce maniacale a illuminargli gli occhi scuri – Non importa come, ma ti giuro che ti salverò. Devi solo fidarti di me, va bene?
Ylja tirò su col naso e annuì, stringendosi di nuovo al petto dell’uomo e lasciando che lui gli baciasse i capelli e lo abbracciasse come nemmeno sua madre aveva mai fatto.
-Grazie Vik … non so cosa farei senza di te.
-Non dirlo, amore.- Vik gli mise un dito sulle labbra e gli sorrise – Stai facendo tutto da solo, sei forte più di quanto immagini. Io posso essere la tua spalla, e questo sarà per sempre. Ma sei tu quello che sta affrontando le cose in maniera più matura di quanto tu possa immaginare.
Ylja arrossì, e sorrise tra le lacrime. Si chiese come facesse Viktor a dire sempre la cosa che lui più voleva sentirsi dire. Come aveva fatto a trovarsi un uomo così perfetto e così amorevole proprio non l’avrebbe mai capito. Si sporse a baciarlo e quando le loro labbra si incontrarono, il ragazzo avrebbe di nuovo voluto piangere, ma questa volta dalla felicità. Per un attimo, anche i lividi sul corpo smisero di fargli male.
-Andiamo a casa, adesso.- concluse Viktor, passandogli una mano attorno alla vita. – E lascia che sia io a gestire la situazione.
Ylja si accorse immediatamente che la luce nelle pupille dell’uomo era qualcosa della quale probabilmente avrebbe dovuto avere paura. C’era del sadismo e della ferocia che mai gli aveva visto addosso. Deglutì
-Ehm, Vik, però …
-Ti ho detto che aggiusterò la situazione, Ylja.- anche la voce di Viktor era un sibilo che poco aveva di rassicurante – Sei mio, e nessuno può permettersi di rovinare le mie cose.
Il ragazzo annuì, mordendosi il labbro inferiore. Sapeva che Viktor era strano, e sapeva altrettanto bene che forse era troppo, ma non gli importava. Aveva deciso di dedicarsi a lui anima e corpo, e anche se era di una possessività che rasentava la follia ed era di una ferocia pericolosa, non avrebbe smesso di stare al suo fianco. Poteva spaventarsi, e quello accadeva spesso, ma aveva deciso che sarebbe stato suo fino a che le cose fossero andate avanti. Viktor voleva il suo benessere. Ne era più che convinto.
-Ti amo tanto, Vik.- sussurrò, ingoiando l’ultima lacrima. – Ti amo tanto.
  
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