Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    24/09/2018    2 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"Nel panico più totale, [Ben] si diresse verso il muro bianco e lo prese a pugni, con violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del corridoio: Aida lo stava osservando."

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DUE GIORNI DOPO - GIORNO 20.

«Come fai a dirmi che non mi devo preoccupare, Chris? Come fai?».
Il medico sospirò, sedendosi accanto al ragazzo nel corridoio di fronte alla stanza di Semir.
Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirne le lenti, con calma, cercando un pretesto per non dover fissare il suo interlocutore negli occhi.
«Ben, non ti ho detto questo. Capisco che tu sia preoccupato, ma non...».
«Non sai che cosa fare, non è così?» lo interruppe l’ispettore, con rabbia.
«Ben... ascoltami.» cominciò Schneider «La medicina non è una scienza esatta. Questo ce lo dobbiamo ricordare, tutti, sempre. Non so perché Andrea sia ancora viva perché avrei giurato che il suo cuore avrebbe smesso di battere il giorno stesso in cui è arrivata. E non so perché Semir non si sia ancora svegliato, perché invece credevo che lui lo avrebbe fatto dopo l’intervento, o almeno dopo la crisi convulsiva di due giorni fa. Ma non è accaduto. L’ematoma è stato drenato completamente, per cui l’unica cosa che possiamo fare è aspettare... lo capisci, Ben?».
Il poliziotto scosse il capo, appoggiandosi allo schienale della sedia e mutando tono. La rabbia lascò velocemente spazio alla paura.
«Sei stato tu a dirmi che più tempo impiega a svegliarsi più c’è il rischio di danni permanenti...».
«Certo, Ben, ed è così. Io e te abbiamo fatto un patto, ho giurato di dirti sempre le cose così come stanno, ricordi? Sempre. E lo sto facendo. Ma tu devi sperare, Ben, perché se pensi che si verificheranno sempre le possibilità peggiori che io ti mostro, allora finirai per stare male anche tu, credimi.».
Ben annuì leggermente.
«Ma il fatto che Andrea non sia ancora... voglio dire... che sia ancora viva, non lascia qualche speranza in più?».
Il medico alzò le spalle, rimettendo i sottili occhiali sul naso dopo essersi passato una mano sui grandi occhi chiari.
«Non credo. Nonostante siano passati quattro giorni, continuo a credere che sia solo questione di tempo, non noto alcun cambiamento nelle sue condizioni.».
«Va bene...» mormorò l’ispettore, a voce a mala pena udibile.
«Ben, devi essere forte.» disse Schneider, alzandosi e posando al ragazzo una mano sulla spalla.
«Se non si sveglieranno... la mamma di Andrea sarà distrutta e Aida... chi si prenderà cura di Aida?».
«Aida è la figlia del tuo collega?».
Ben annuì e Chris sorrise appena.
«L’ho vista nei corridoi, sai? È una bella bambina. Se la caverà.».
«Non è giusto...».
«Non è giusto, no.» replicò il medico «Ma il mondo non è mai giusto, Ben. Però noi dobbiamo saper resistere. Esiste sempre una soluzione, c’è sempre un modo per andare avanti, anche quando proprio non sembra possibile. Io lo so, credimi.».
Quindi, stringendo le spalle nel suo camice bianco, si allontanò dal ragazzo, a passo veloce, per andare a occuparsi di altri pazienti.


Ben si alzò a sua volta, girando su se stesso e cominciando poi a camminare, senza una meta, per quei bianchi corridoi.
Non era sicuro di aver capito ancora bene come fosse suddiviso il reparto. Svoltò a sinistra e poi ancora a sinistra, sempre fissando le piastrelle bianche sul pavimento, fino a quando qualcosa dentro di sé gli intimò di fermarsi.
Notò di trovarsi esattamente davanti alla porta di una stanza, con le tendine tirate giù a coprire i vetri e il numero 201 inciso vicino all’entrata.
Fissò quella maniglia per qualche attimo, si guardò intorno e vi posò sopra la mano.
Sentiva che sarebbe dovuto entrare, e non ne comprendeva la ragione.
Tuttavia, seguendo l’istinto, abbassò la maniglia.

«Maggie, secondo te perché la nonna non vuole farmi andare dalla mamma?».
La vocina sottile di Aida risvegliò la psicologa dai suoi pensieri.
Si trovavano entrambe al bar dell’ospedale, la signora Schäfer le aveva chiesto di tenerle la bambina per un po’, mentre lei andava dalla figlia. Margaret aveva accettato volentieri, anche perché Ben era impegnato a parlare con il dottor Schneider, e aveva offerto ad Aida una grande colazione.
«Perché vuole che tu la veda quando starà meglio, tesoro.» le spiegò, con sincerità.
«Ma quando starà meglio?».
«Non lo so, piccola. Ma non arrabbiarti con la nonna, lei si preoccupa per te.».
«Sì ma io vorrei vedere la mamma.» replicò la bambina, con tono sconsolato «E anche papà. Mi avete detto che dormono, ma non capisco proprio perché non posso vederli.».
Maggie sospirò, piano.
Effettivamente lei avrebbe fatto entrare la bambina in entrambe le stanze. Certo, magari si sarebbe spaventata inizialmente nel vedere entrambi i genitori incoscienti e circondati da tubi e macchinari, ma forse in parte l’avrebbe confortata poter stare un po’ con loro.
Ovviamente, però, la decisione non stava a lei.
«Sono passati quattro giorni, non ho più visto nessuno.» continuò Aida.
Poi addentò il muffin al cioccolato che aveva di fronte, sporcandosi tutto il viso, e Margaret si mise a ridere.
Le offrì un fazzoletto e, osservandola mentre si puliva alla bell’è meglio, non poté fare a meno di pensare a che cosa sarebbe successo se fosse rimasta sola.
«Maggie, ma tu sei una scrittrice?» domandò a un tratto la bambina.
«Mi piacerebbe esserlo... scrivo, ogni tanto. Ora sto scrivendo un libro.».
Gli occhi di Aida si illuminarono.
«Davvero? E di che cosa parla? Posso leggerlo?».
La ragazza fece una smorfia indecisa. Non le avrebbe detto di che cosa trattava ciò che stava scrivendo, non in quel momento.
«È una sorpresa, tesoro. Quando lo avrò finito te lo dirò!».
«Va bene.» rispose soddisfatta la bambina, addentando di nuovo il suo dolce.
Nonostante tutto, si ritrovò a pensare Margaret, lei se la sarebbe cavata.


Nell’ufficio c’era un silenzio assordante.
Kim sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia, ma cambiando posizione subito dopo.
Intrecciò le mani sulla scrivania, assorta.
Non era abituata a quella calma, e vedere al di fuori del proprio ufficio i colleghi che si aggiravano tristemente per i corridoi o lavoravano silenziosamente al computer le dava quasi fastidio.
Jager non metteva piede in commissariato da quattro giorni.
Gerkhan, forse, non vi avrebbe più fatto ritorno.
E a lei già mancava quella coppia che la faceva arrabbiare, gridare e preoccupare, ma che poi costituiva la vera anima dell’intero commissariato.
Si era affezionata ai suoi ispettori fin dall’inizio, nonostante non l’avesse praticamente mai dato a vedere, ma ora che nessuno dei due era presente si rendeva ancora più conto di quanto si fosse legata a loro.
Erano diventati una squadra.
Il pensiero che non la sarebbero più stata la infastidiva.
E la consapevolezza di non poter fare niente per cambiare la situazione, la turbava ancora di più.
Si chiese, in silenzio, se quell’orrenda storia iniziata più di due settimane prima avrebbe mai avuto fine.


Quando Ben fu entrato nella stanza, il suo cuore ebbe un sussulto e sentì improvvisamente la necessità di scappare e correre il più lontano possibile.
A pochi metri da lui, disteso nel letto, a occhi chiusi, c’era Frederich Keller.
Dopo essere rimasto sulla soglia per qualche secondo interminabile senza sapersi decidere su cosa fare, inspiegabilmente l’ispettore si richiuse la porta alle spalle e si avvicinò al letto.
Si diresse lentamente e senza fare rumore verso la sedia che vi era sistemata accanto e vi si sedette, piano, effettuando ogni movimento in modo quasi impercettibile.
Frederich Keller.
Quando lo aveva visto per la prima volta, mentre i soccorritori lo estraevano dalle macerie, quattro giorni prima, aveva provato il forte impulso di gettarsi su di lui e di strangolarlo.
Ora, invece, seduto accanto al suo corpo disteso, era talmente confuso da non riuscire a provare niente di definito nei suoi confronti.
Rimase lì seduto per qualche minuto, ma non lo guardò.
Guardava per terra e pensava, pensava che quell’uomo era la causa di tutto. E che ora si trovava in ospedale, anche lui. Pensò che magari stava male, anche lui.
Però il suo letto non era attorniato da tutti i tubi che circondavano quello di Semir e questo dettaglio lo fece innervosire, almeno in un primo momento.

Quando sollevò la testa, deciso ad andarsene, notò che due occhi grigi lo stavano osservando: Keller era vigile.
Ben lo guardò per un secondo lunghissimo, senza muovere un muscolo, fino a che lui non si decise a parlare.
«Ispettore Jager, giusto?».
La sua voce era leggermente roca e il suo tono bassissimo, ma non sembrava avere gradi difficoltà a parlare.
L’ispettore non rispose a quella domanda così ovvia, né fece alcun cenno di assenso.
«Sa, lei... lei è la prima visita che ricevo.» continuò Keller, sempre a bassa voce.
«Si meraviglia?» fu la secca, veloce risposta di Ben.
L’uomo disteso scosse il capo, non senza fatica «No... ma mi meraviglia che... che lei sia qui.».
Il poliziotto si morse il labbro. Meravigliava anche lui.
«Che cosa vuole, Jager? Uccidermi? Potrebbe... potrebbe farlo... non opporrei resistenza.».
«Non sono tutti come lei, Keller. Non tutti sono alla ricerca di vendetta.».
L’uomo annuì lentamente, e nei suoi occhi sembrò passare un’ombra scura.
Ben corrucciò leggermente la fronte, domandandosi che cosa stesse succedendo. Domandandosi come mai, nonostante si rivolgesse a lui in modo aggressivo, non riuscisse a provare esclusivamente odio per quell’uomo.
Non riusciva a spiegarselo. Aveva immaginato più volte, in quei quattro giorni, di averlo tra le mani. Lo aveva maledetto, si era anche augurato che fosse morto dopo essere arrivato in ospedale.
Eppure, ora, seduto accanto a quel corpo quasi immobile, non riusciva a odiarlo.
«“Prima di cominciare una vendetta, preparati a scavare due tombe.”» sussurrò Keller, tra sé e sé.
«Che cosa ha detto, Keller?».
«È un proverbio, Jager... me lo ha ripetuto Gerkhan mentre... mentre era mio prigioniero... ma lui non aveva capito...».
«Che cosa non aveva capito?» domandò Ben, visibilmente infastidito.
«Che noi sopravviviamo.».
L’uomo pronunciò quelle parole con calma, scandendo ogni lettera, dotando quella frase di un certo grado di gravità.
«È questo che voleva testare, Keller? Voleva vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanza, senza voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata.

 

N.d.A.
Chi non muore si rivede e Keller a quanto pare è vivo e vegeto... che possa riservare sorprese?
A presto,
Sophie

  
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