Dal capitolo precedente:
"Nel
panico più totale, [Ben] si diresse verso il muro bianco e
lo prese a
pugni, con violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava
lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del
corridoio: Aida lo stava
osservando."
DUE GIORNI DOPO - GIORNO 20.
«Come
fai a dirmi che non mi devo
preoccupare, Chris? Come fai?».
Il medico sospirò, sedendosi accanto al ragazzo nel
corridoio di fronte alla
stanza di Semir.
Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirne le lenti, con
calma, cercando un
pretesto per non dover fissare il suo interlocutore negli occhi.
«Ben, non ti ho detto questo. Capisco che tu sia preoccupato,
ma non...».
«Non sai che cosa fare, non è
così?» lo interruppe l’ispettore, con
rabbia.
«Ben... ascoltami.» cominciò Schneider
«La medicina non è una scienza esatta.
Questo ce lo dobbiamo ricordare, tutti, sempre. Non so
perché Andrea sia ancora
viva perché avrei giurato che il suo cuore avrebbe smesso di
battere il giorno
stesso in cui è arrivata. E non so perché Semir
non si sia ancora svegliato,
perché invece credevo che lui lo avrebbe fatto dopo
l’intervento, o almeno dopo
la crisi convulsiva di due giorni fa. Ma non è accaduto.
L’ematoma è stato
drenato completamente, per cui l’unica cosa che possiamo fare
è aspettare... lo
capisci, Ben?».
Il poliziotto scosse il capo, appoggiandosi allo schienale della sedia
e
mutando tono. La rabbia lascò velocemente spazio alla paura.
«Sei stato tu a dirmi che più tempo impiega a
svegliarsi più c’è il rischio di
danni permanenti...».
«Certo, Ben, ed è così. Io e te abbiamo
fatto un patto, ho giurato di dirti
sempre le cose così come stanno, ricordi? Sempre. E lo sto
facendo. Ma tu devi
sperare, Ben, perché se pensi che si verificheranno sempre
le possibilità
peggiori che io ti mostro, allora finirai per stare male anche tu,
credimi.».
Ben annuì leggermente.
«Ma il fatto che Andrea non sia ancora... voglio dire... che
sia ancora viva,
non lascia qualche speranza in più?».
Il medico alzò le spalle, rimettendo i sottili occhiali sul
naso dopo essersi
passato una mano sui grandi occhi chiari.
«Non credo. Nonostante siano passati quattro giorni, continuo
a credere che sia
solo questione di tempo, non noto alcun cambiamento nelle sue
condizioni.».
«Va bene...» mormorò
l’ispettore, a voce a mala pena udibile.
«Ben, devi essere forte.» disse Schneider,
alzandosi e posando al ragazzo una
mano sulla spalla.
«Se non si sveglieranno... la mamma di Andrea sarà
distrutta e Aida... chi si
prenderà cura di Aida?».
«Aida è la figlia del tuo collega?».
Ben annuì e Chris sorrise appena.
«L’ho vista nei corridoi, sai? È una
bella bambina. Se la caverà.».
«Non è giusto...».
«Non è giusto, no.» replicò
il medico «Ma il mondo non è mai giusto, Ben.
Però
noi dobbiamo saper resistere. Esiste sempre una soluzione,
c’è sempre un modo
per andare avanti, anche quando proprio non sembra possibile. Io lo so,
credimi.».
Quindi, stringendo le spalle nel suo camice bianco, si
allontanò dal ragazzo, a
passo veloce, per andare a occuparsi di altri pazienti.
Ben si alzò a sua volta, girando su se stesso e cominciando
poi a camminare,
senza una meta, per quei bianchi corridoi.
Non era sicuro di aver capito ancora bene come fosse suddiviso il
reparto.
Svoltò a sinistra e poi ancora a sinistra, sempre fissando
le piastrelle bianche
sul pavimento, fino a quando qualcosa
dentro di sé gli intimò di fermarsi.
Notò di trovarsi esattamente davanti alla porta di una
stanza, con le tendine
tirate giù a coprire i vetri e il numero 201 inciso vicino
all’entrata.
Fissò quella maniglia per qualche attimo, si
guardò intorno e vi posò sopra la
mano.
Sentiva che sarebbe dovuto entrare, e non ne comprendeva la ragione.
Tuttavia, seguendo l’istinto, abbassò la maniglia.
«Maggie,
secondo te perché la
nonna non vuole farmi andare dalla mamma?».
La vocina sottile di Aida risvegliò la psicologa dai suoi
pensieri.
Si trovavano entrambe al bar dell’ospedale, la signora
Schäfer le aveva chiesto
di tenerle la bambina per un po’, mentre lei andava dalla
figlia. Margaret
aveva accettato volentieri, anche perché Ben era impegnato a
parlare con il
dottor Schneider, e aveva offerto ad Aida una grande colazione.
«Perché vuole che tu la veda quando
starà meglio, tesoro.» le spiegò, con
sincerità.
«Ma quando starà meglio?».
«Non lo so, piccola. Ma non arrabbiarti con la nonna, lei si
preoccupa per
te.».
«Sì ma io vorrei vedere la mamma.»
replicò la bambina, con tono sconsolato «E
anche papà. Mi avete detto che dormono, ma non capisco
proprio perché non posso
vederli.».
Maggie sospirò, piano.
Effettivamente lei avrebbe fatto entrare la bambina in entrambe le
stanze.
Certo, magari si sarebbe spaventata inizialmente nel vedere entrambi i
genitori
incoscienti e circondati da tubi e macchinari, ma forse in parte
l’avrebbe
confortata poter stare un po’ con loro.
Ovviamente, però, la decisione non stava a lei.
«Sono passati quattro giorni, non ho più visto
nessuno.» continuò Aida.
Poi addentò il muffin al cioccolato che aveva di fronte,
sporcandosi tutto il
viso, e Margaret si mise a ridere.
Le offrì un fazzoletto e, osservandola mentre si puliva alla
bell’è meglio, non
poté fare a meno di pensare a che cosa sarebbe successo se
fosse rimasta sola.
«Maggie, ma tu sei una scrittrice?»
domandò a un tratto la bambina.
«Mi piacerebbe esserlo... scrivo, ogni tanto. Ora sto
scrivendo un libro.».
Gli occhi di Aida si illuminarono.
«Davvero? E di che cosa parla? Posso leggerlo?».
La ragazza fece una smorfia indecisa. Non le avrebbe detto di che cosa
trattava
ciò che stava scrivendo, non in quel momento.
«È una sorpresa, tesoro. Quando lo avrò
finito te lo dirò!».
«Va bene.» rispose soddisfatta la bambina,
addentando di nuovo il suo dolce.
Nonostante tutto, si ritrovò a pensare Margaret, lei se la
sarebbe cavata.
Nell’ufficio
c’era un silenzio
assordante.
Kim sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia, ma
cambiando posizione
subito dopo.
Intrecciò le mani sulla scrivania, assorta.
Non era abituata a quella calma, e vedere al di fuori del proprio
ufficio i
colleghi che si aggiravano tristemente per i corridoi o lavoravano
silenziosamente al computer le dava quasi fastidio.
Jager non metteva piede in commissariato da quattro giorni.
Gerkhan, forse, non vi avrebbe più fatto ritorno.
E a lei già mancava quella coppia che la faceva arrabbiare,
gridare e
preoccupare, ma che poi costituiva la vera anima dell’intero
commissariato.
Si era affezionata ai suoi ispettori fin dall’inizio,
nonostante non l’avesse
praticamente mai dato a vedere, ma ora che nessuno dei due era presente
si
rendeva ancora più conto di quanto si fosse legata a loro.
Erano diventati una squadra.
Il pensiero che non la sarebbero più stata la infastidiva.
E la consapevolezza di non poter fare niente per cambiare la
situazione, la
turbava ancora di più.
Si chiese, in silenzio, se quell’orrenda storia iniziata
più di due settimane
prima avrebbe mai avuto fine.
Quando
Ben fu entrato nella
stanza, il suo cuore ebbe un sussulto e sentì
improvvisamente la necessità di
scappare e correre il più lontano possibile.
A pochi metri da lui, disteso nel letto, a occhi chiusi,
c’era Frederich
Keller.
Dopo essere rimasto sulla soglia per qualche secondo interminabile
senza
sapersi decidere su cosa fare, inspiegabilmente l’ispettore
si richiuse la
porta alle spalle e si avvicinò al letto.
Si diresse lentamente e senza fare rumore verso la sedia che vi era
sistemata
accanto e vi si sedette, piano, effettuando ogni movimento in modo
quasi
impercettibile.
Frederich Keller.
Quando lo aveva visto per la prima volta, mentre i soccorritori lo
estraevano
dalle macerie, quattro giorni prima, aveva provato il forte impulso di
gettarsi
su di lui e di strangolarlo.
Ora, invece, seduto accanto al suo corpo disteso, era talmente confuso
da non
riuscire a provare niente di definito nei suoi confronti.
Rimase lì seduto per qualche minuto, ma non lo
guardò.
Guardava per terra e pensava, pensava che quell’uomo era la
causa di tutto. E
che ora si trovava in ospedale, anche lui. Pensò che magari
stava male, anche
lui.
Però il suo letto non era attorniato da tutti i tubi che
circondavano quello di
Semir e questo dettaglio lo fece innervosire, almeno in un primo
momento.
Quando
sollevò la testa, deciso
ad andarsene, notò che due occhi grigi lo stavano
osservando: Keller era
vigile.
Ben lo guardò per un secondo lunghissimo, senza muovere un
muscolo, fino a che
lui non si decise a parlare.
«Ispettore Jager, giusto?».
La sua voce era leggermente roca e il suo tono bassissimo, ma non
sembrava
avere gradi difficoltà a parlare.
L’ispettore non rispose a quella domanda così
ovvia, né fece alcun cenno di assenso.
«Sa, lei... lei è la prima visita che
ricevo.» continuò Keller, sempre a bassa
voce.
«Si meraviglia?» fu la secca, veloce risposta di
Ben.
L’uomo disteso scosse il capo, non senza fatica
«No... ma mi meraviglia che...
che lei sia qui.».
Il poliziotto si morse il labbro. Meravigliava anche lui.
«Che cosa vuole, Jager? Uccidermi? Potrebbe... potrebbe
farlo... non opporrei
resistenza.».
«Non sono tutti come lei, Keller. Non tutti sono alla ricerca
di vendetta.».
L’uomo annuì lentamente, e nei suoi occhi
sembrò passare un’ombra scura.
Ben corrucciò leggermente la fronte, domandandosi che cosa
stesse succedendo.
Domandandosi come mai, nonostante si rivolgesse a lui in modo
aggressivo, non
riuscisse a provare esclusivamente odio per quell’uomo.
Non riusciva a spiegarselo. Aveva immaginato più volte, in
quei quattro giorni,
di averlo tra le mani. Lo aveva maledetto, si era anche augurato che
fosse
morto dopo essere arrivato in ospedale.
Eppure, ora, seduto accanto a quel corpo quasi immobile, non riusciva a
odiarlo.
«“Prima di cominciare una vendetta, preparati a
scavare due tombe.”» sussurrò
Keller, tra sé e sé.
«Che cosa ha detto, Keller?».
«È un proverbio, Jager... me lo ha ripetuto
Gerkhan mentre... mentre era mio
prigioniero... ma lui non aveva capito...».
«Che cosa non aveva capito?» domandò
Ben, visibilmente infastidito.
«Che noi sopravviviamo.».
L’uomo pronunciò quelle parole con calma,
scandendo ogni lettera, dotando
quella frase di un certo grado di gravità.
«È questo che voleva testare, Keller? Voleva
vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e
uscì dalla stanza, senza
voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata.
N.d.A.
Chi
non muore si rivede e Keller a quanto pare è vivo e
vegeto... che possa
riservare sorprese?
A
presto,
Sophie