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Autore: BakemonoMori    26/09/2018    1 recensioni
Alessandra Mancini, Alex, una giovane ragazza di 14 anni, viene cacciata di casa e rinchiusa nel luogo che diverrà il suo incubo, la comunità chiamata "la Quercia".
Lì conoscerà persone di ogni sorta, vivendo esperienze e scoprendo segreti che mai avrebbe creduto di conoscere.
Genere: Avventura, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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04 Febbraio, Sabato

Vidi l’alba, e la ricordo bene, una fresca, limpida alba, l’inizio della fine.

Non so che ore fossero – non avendo avuto un orologio – ma so che il sole era appena finito di sorgere.
Qualcuno bussò alla porta così forte da farmi trasalire, ma neanche il tempo di dire avanti, che già era
scappato via. Corsi ad aprire e a sporgermi nel tentativo di beccarlo correre, ma nulla, aveva già voltato
l’angolo.

Mi buttai addosso una t-shirt nera, larga che quasi mi toccava le ginocchia e un paio di pantaloncini corti;
entrambi i capi erano parte del vestiario ricevuto il primo giorno. Varcai la soglia e – barcollando – raggiunsi
la sala da pranzo.

Con la modica cifra di zero ore, zero minuti e zero secondi di sonno, ero più paragonabile ad uno zombie, o
peggio ancora, ad uno studente in sede d’esami, eppure feci colazione fingendo di nulla, tentando di avere
interazioni sociali – ma fortunatamente non ne sono mai stata brava, perciò, nonostante non ci riuscii
miseramente, nessuno ci prestò particolare attenzione – e di non addormentarmi appena seduta.

Come immagino che sia ormai diventato prevedibile, fallii. Crollai in avanti appoggiata sul tavolo e con la
testa sulle braccia, sperando di non russare e cercando anche solo di riposare cinque minuti.

Tanto per cambiare, venni svegliata da urla; alcune eccitate, altre deluse, alcune arrabbiate. Per un po’ non
alzai neppure la testa, fu un tonfo sordo sul tavolo a destarmi dal mio stato comatoso.

Davanti ai miei occhi – poco abituati alla luce – si ergeva una sfuocata torre pendente, che capii poco dopo
essere dei libri, scolastici per di più. Non solo, qualche istante dopo, venni informata che quelli non erano
manuali qualsiasi, bensì i libri che da lì a due giorni avrei usato… a scuola!

Oddio, nemmeno sapevo che mese fosse – nonostante fossi lì dentro da solo pochi giorni – ma mi misero al
corrente che quello stesso lunedì avrei ripreso il primo superiore, ma in una scuola diversa, più vicina a
questa comunità – come se avessi avuto idea di dove mi trovassi.

Alla fine poco male, in quei tre o quattro mesi non è che mi fossi affezionata a qualcuno. Eppure un pochino
mi dispiaque.

Comunque sia, la prima cosa che feci fu impanicare internamente, cercando di non farlo notare, ma non
sono mai stata un granché a mascherare ciò che provo, perciò non posso garantirne che ne ebbi successo.
Subito dopo il panico irruì l’accettazione e la rassegnazione.

Non potrà essere così male, in fondo, una scuola vale l’altra, fino a che l’ansia non decise di
farsi sentire.

E se invece fosse così male? Qui non conosco nessuno. Ma alla fine decisi di chiudermi per le mie,
ignorando tutto e attendendo il giorno fatidico.

Buttai le stoviglie nel lavello, tornai a tavola, presi i libri dandogli appena che un’occhiata e me ne andai in
camera. Li gettai sul comodino e mi stesi sul letto, facendo così tanto rumore da svegliare Benedetta.

Chiusi gli occhi per riposare un attimo, ma eccola all’attacco.
«Che disastro questa stanza. Dobbiamo sistemare!»
«Si, si, arrivo…»
«Dai su, muoviti, è inguardabile così»

Biascicava, aveva gli occhi e la bocca impastati, camminava storta dal sonno ma nulla, lei avrebbe pulito,
costringendo anche me. Cercai di ribellarmi, volevo solo riposarmi un attimo, ma ancora una volta le sue
urla stridule ebbero la meglio. Non si prese nemmeno la briga di vestirsi, rimase nel suo intimo roseo – che
almeno le dava un po’ di colore al carnato cadaverico.

Sistemammo e spazzammo, dopodiché si mise addosso un top attillato e un paio di culotte nere, mi guardò
scocciata, mi ordinò di passare lo straccio e finalmente se ne andò. Fu allora che vidi fu allora che notai che,
sulle sue spalle e lungo la sua schiena, era sparsa di cicatrici, fine ed allungate, ma poco visibili a causa del
pallore della sua pelle.

Feci come Sua Maestà desiderò, non riuscivo a sopportare la sua voce agli ultrasuoni, così dovetti
uscire. Mi diressi in salotto per buttarmi sul divano, ma era occupato, non potei sedermi a tavola perché
stavano apparecchiando, e l’ultima soluzione che mi rimase fu appoggiarmi su di un mobile, accasciandomi
su me stessa, rialzandomi poi con un inenarrabile mal di schiena.

Il pranzo fu una semplice piattata di bocconotti con sugo e pancetta per primo, e ali di pollo per secondo.
Non ebbi di che lamentarmi del cibo, ma Federico non c’era. Stava male, era a letto, io lo sapevo, me lo sentivo.

Me ne fregai delle urla degli aguzzini, presi le stoviglie , le misi a lavare e me ne andai prima che gli altri
finissero di mangiare. Mi scagliai contro la porta della sua stanza e la aprii violentemente.

Rimasi paralizzata, e tra stupore, confusione e paura, anche lui si pietrificò.

Eravamo in piedi uno di fronte all’altro, fulminati. Aveva le maniche della felpa leggera che indossava alzate
sulle braccia nude. Osservava le ferite che ricoprivano l’avambraccio sinistro – quasi contemplandolo –
prima che entrassi io.

Ero senza parole.
«Posso spiegare…» mi implorò.
«Cosa sta succedendo? Fermati ora, sei impazzito?»
«Non è come credi, davvero!»

Mi si avvicinò, trascinandosi giù la manica e nascondendo il braccio. Muovendosi la felpa slacciata si aprì,
incorniciando il suo atletico busto nudo. Cercò di fermarmi, ma io indietreggiai e gli sbattei la porta in
faccia. Non sapendo che fare mi chiusi in camera, presi il libro che avevo gettato l’altro giorno e lessi.

Entrò in camera, quasi sfondando la porta. Disse di volermi parlare ma io non volli; tutte quelle cose
assieme mi avevano confusa e spaventata. Volevo semplicemente rimanere sola.

Il battibecco continuò a lungo, fino a che non me ne stancai totalmente.
«Piantala, non ti voglio più parlare, lasciami in pace!»
«Ti prego, smettila di urlare, prima che mi rimettano in punizione.»

Gli salirono le lacrime agli occhi, ed il peso della situazione fece piangere anche me.

Sentimmo dei passi pesanti lungo il corridoio, Federico tremava, così chiuso in sé che credetti che a breve
sarebbe imploso. Passarono i due energumeni e ci squadrarono ben benino, ma dopo aver appurato che la
situazione era tranquilla, se ne andarono, senza però perderci di vista.

Mi abbracciò senza preavviso , ma ero confusa e preoccupata, perciò, nonostante avessi evitato di farlo
mettere in punizione, lo spinsi via. La situazione non era cambiata per me.

Provò ancora a convincermi che il problema era diverso da come pensassi, che non era colpa sua. Cercò
anche di parlarmi per un po’, ma una volta capito che non avevo intenzione di contrattare se ne andò.
Sentii dei singhiozzi, so che mi comportai come una persona orribile, ma non riuscii a fare altro.

L’ora di cena arrivò rapidamente. Toccai a malapena il cibo, ma nessuno fece domande, a nessuno
importava seriamente. Era tornata la ragazza di cui Enrico mi aveva molto parlato: Irene. Ne ricordai il
nome solo grazie alle infinite volte che venne chiamata a destra e a manca dagli amici per “darle il
bentornato”.

Lei mi guardò storto per tutta la cena, forse per inquadrarmi, forse per giudicarmi, non potevo saperlo. Non
mi importò. Di tutti i problemi, quello era sicuramente il meno importante.

Così tornai in camera a testa bassa, mi buttai a letto nel buio della sera e chiusi gli occhi.

Molti fattori, oltre ai dubbi ed ai pensieri, mi impedirono di dormire quella notte; le urla, la gente che
entrava e usciva dalla stanza – nonostante i vari richiami degli aguzzini – ma soprattutto… Benedetta.

Entrò in camera e strillò, pianse e fece gracchiare la sua fastidiosamente acuta voce. Non ne seppi mai il
motivo e non ne fui mai veramente interessata, mi bastò essere riuscita a sopportarla.

E fu abbastanza per rendermi fiera di me.

   
 
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