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Autore: RadCLiff_    01/10/2018    4 recensioni
Quando la società è divisa per caste genetiche, solo i migliori possono arrivare a realizzare i propri sogni.
In un mondo dove solo i migliori tra i migliori potevano vivere, dove ogni rapporto era basato sulla genetica di appartenenza, lei non avrebbe rinunciato al suo sogno. Nonostante la sua classe genetica fosse la più infima, Clarke voleva arrivare disperatamente alla fonte della sua luce, alle stelle.
Sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa, anche a morire.
Clexa Slow Burn
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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V



Clarke si sedette alla finestra con lo sguardo rivolto verso l’esterno mentre teneva in mano una tazza di tè fumante. Incrociò le gambe e il suo sguardo si perse fuori.
La finestra dava sul solito fiume in lontananza e, oltre gli alberi coperti di bianco, il cielo era di un curioso blu zaffiro, tipico di quelle fredde giornate invernali. Non nevicava più da un paio di giorni e le strade si erano riempite di fanghiglia ma il panorama che si vedeva dalla finestra di quella casa isolata era rimasta ancora candidamente immacolata.
Immersa nel silenzio del momento, Clarke sembrava talmente in pace con sé stessa e il mondo, che risultava difficile non invidiarla.
Davanti al biancore della vista, in un angolino della sua mente si ricordava di cosa vedeva prima, era ancora vivido il ricordo del muro che vedeva da fuori la sua finestra del suo piccolo appartamento. Il panorama era una distesa di mattoni, luogo adibito a ufficio, ma se saliva in piedi su una sedia poteva scorgere il fuoco del tramonto ogni giorno, oltre le barriere di cemento. Non era qualcosa che faceva spesso ma solo quando aveva bisogno di prendere qualcosa dai pensili e ogni tanto capitava di scorgere la vista di un tramonto che bruciava all’orizzonte. Era molto bello anche il cielo quando mancava il sole, in realtà, era tutto molto bello in confronto a un muro di mattoni.
Aveva scelto quella casa perché le serviva un posto vicino al luogo dove lavorava, senza spendere troppo. Scelta di dubbio gusto, sicuramente sua madre non sarebbe stata d’accordo. Ricordava sua madre come una donna apprensiva, dalla forte volontà che cercava di combattere per ciò che era giusto secondo i propri valori, forse tendente ad essere troppo impositiva verso gli altri nelle sue scelte. Non era stata una santa ma non si poteva nemmeno dire che non ci avesse provato ad essere una brava madre, ha resistito fino a dove ha potuto a differenza del padre che ha resistito fino alla fine. Le cose sono andate come sono andate ma ormai non aveva più importanza. Era tutto acqua passata. I morti non c’erano più ma i vivi bramavano la vita.  
Tutti i suoi sacrifici erano stati votati al momento in cui avrebbe incontrato quel tale McCourt che diede un capovolgimento totale alla sua intera esistenza.

«È questo il tuo hobby quando non lavori?» Konstantin era dietro di lei, gli scarponi innevati, aveva lasciato tracce bagnate dall’entrata fino a lì.«Avevo appena pulito il pavimento, sai?» sbuffò la ragazza mentre lo guardò «Mi chiedevo quando mi avresti degnata di una visita. Ho persino sentito la mancanza del tuo brontolare per tutto il tempo in cui sei mancato» rispose Clarke prontamente.

L’uomo la guardava con il suo solito sguardo inespressivo, forse non aveva senso dell’humor pensò la ragazza.

«Lo sai bene che dopo il tuo inserimento, i nostri contatti sarebbero stati limitati, visite prettamente di controllo o emergenza.»
«E questo è un controllo o un’emergenza?» chiese divertita.
«Nessuno dei due.»
«Ah! Lo sapevo che mi volevi bene – sorrise mentre un dito lo puntò prontamente.»

Kontantin la guardò interdetto, un leggero sorriso quasi apparve sul suo volto prima di essere stroncato. Si ricompose immediatamente. La vitalità di quella ragazza sarebbe stata contagiosa se non fosse per la sua posizione, difatti come per Clarke che doveva limitare i rapporti con il mondo esterno anche a lui erano state date precise istruzioni sul mantenere una certa distanza con Clarke, e quest’ultima lo sapeva perfettamente.
Dei lunghi passi annullarono lo spazio tra l’uomo e la scrivania posizionata nel centro della stanza, tirò da sotto il cappotto una cartella bianca, accuratamente chiusa e lo lasciò cadere sulla superficie.

«Documenti per te. Certificati di nascita, diplomi accademici, registri eccetera… Se ti serve un documento è qua dentro.»

L’attenzione di Clarke era fissa sulla cartella, le si avvicinò e lo aprì senza esitazione. Ne tirò fuori una pila di fogli e iniziò a scorrerli tra le mani. Ognuno con una propria dicitura, proprio come aveva detto l’uomo, però un particolare non trascurabile le saltò subito all’occhio.

«Non è la mia foto.»
«Sono i documenti originali di Sam. Le foto sono le sue, ma quella più recente risale a parecchi anni fa quindi possono benissimo essere le tue, non se ne accorgerà nessuno.»

I documenti originali di Sam. Clarke osservò i documenti con maggiore attenzione, per la prima volta poteva vedere il viso di questa ragazza. Poteva osservare molte fasi dell’età di Sam in base alle foto allegate ai vari documenti, dalla più piccola che accompagnava i documenti di nascita fino a quella più recente che raffigurava una giovane ragazza dai capelli biondi, come i suoi, e occhi azzurri. Uno sguardo vivo e allegro, un dolce sorriso che si piegava agli angoli della bocca. Una foto perfettamente attinente a un documento ma non troppo seria. Il pollice di Clarke tocco dolcemente l’angolo del documento che allegava la foto di Sam. Aveva ragione Konstantin, erano molto simili anche se non del tutto, un occhio più vigile poteva riconoscere subito le differenze ma dalla sua parte aveva il fattore tempo.
Il tempo cambiava le persone. Purtroppo, o per fortuna, il tempo strugge ogni cosa, fonde la memoria, i ricordi e i sentimenti, il tempo cambia anche i tempi stessi e stravolge le persone, le loro funzioni e le loro responsabilità tralasciate nel tempo ormai remoto e non per ultimo, il tempo cambiava l’esteriorità delle persone.

«In questa foto siamo quasi identiche però» Clarke alzò il documento girandolo verso l’uomo.

Lo sguardo di Konstantin si soffermò sulla piccola miniatura nell’angolino del documento per un lungo momento, aveva un non so che di stancamente nostalgico nei suoi occhi, come se stesse ricordando qualcosa o forse stava solo cogliendo l’effettiva somiglianza tra le due ragazze.

«I suoi occhi sono di un azzurro più bello.»

«Diventi sempre più simpatico man mano che passa il tempo.»

L’uomo si scrollò leggermente le spalle «Come il vino d’altronde.»

Clarke non poté che ridere. Se Konstantin era un vino non poteva che essere acido acetico. Tagliente nel suo insieme.

«Alla gente non importa come appari in una stupida foto, tutto quello che le serve è scritto nella tua genetica, però per mantenere le apparenze si dice che conta anche il resto.»

«Ma perché mi porti solo ora queste cose? E se mi fossero serviti prima?»

«Se ti fossero serviti mi sarei occupato io di tutto quanto.»

Una cosa che non era cambiato affatto nonostante il tempo passato, erano le risposte evasive di Konstantin. Clarke aveva provato più volte durante il periodo passato insieme a fare domande all’uomo e sull’uomo ma quest’ultimo non si sbilanciava mai più di tanto. La lasciava sempre brancolare nel buio senza darle indizi, ma Clarke sapeva che non gliela raccontava giusta. Le domande erano tante ma le risposte tardavano ad arrivare, e lei non era una persona che lasciava le cose in sospeso.

«Come è morta?» ancora la foto tra le mani.

«È morta e basta, ti basta sapere questo.»

«Sì, ma vorrei sapere come è accaduto e ­-» prima che potesse finire di ribattere una voce le parlò sopra.

«Non sono affari che ti riguardano» disse imperativo Konstantin mentre l’azzurro delle sue iridi iniziarono a incendiarsi. Il tono si era alterato all’improvviso, forse un po' troppo per essere semplice fastidio da parte dell’insistenza della bionda «Tu pensa a quello che devi fare, del resto mi occuperò io.»

«Ora la sua vita è la mia, non pensi che abbia il diritto di sapere?»

«No. Tu hai pagato per la sua identità, la sua vita non ti apparterrà mai» scandii le ultime parole più duramente di tutte le altre, come a ricordarle che nonostante tutto lei rimaneva sempre Clarke, la ragazza dei bassi fondi che cercava disperatamente di entrare nel mondo dei validi, con ogni mezzo a sua disposizione.

Clarke assorbì il colpo in silenzio, si portò la tazza alla bocca e prese un sorso, pensierosa. Quelle parole la ferirono più di quanto avrebbe creduto potessero fare. Toccare certe corde con Konstantin era sempre stato difficile, soprattutto riguardo l’identità di Sam, ma era la prima volta che l’uomo reagiva così astiosamente alle sue domande.

«Era tua sorella?» Più che una domanda era un’affermazione per come aveva pronunciato la sentenza «Avete gli stessi occhi.»

Konstantin si trovò in un primo momento spiazzato, non sapeva cosa dire lì per lì, ma non cercò di negare. Rimase solo in silenzio mentre sbatteva furiosamente le palpebre. Clarke sapeva di avere ragione, aveva colto nel segno, lo si poteva leggere chiaramente sul viso dell’uomo davanti a lei.

«Avevo pensato a molte cose ma quando ho visto i suoi occhi ho finalmente capito. Mi dispiace per la tua perdita.»

«È viva» lo disse con rabbia, quasi a convincere sé stesso più che la ragazza a cui rivolgeva quelle parole «lei è viva, e tu non sarai mai lontanamente solo simile a lei.»

Clarke non voleva prendere il posto di Sam, non l’avrebbe mai voluto se non fosse stata la fatalità del destino a metterla davanti a quella scelta sofferta. Konstantin nascose il suo tumultuoso stato d'animo dietro un'espressione impassibile. Il suo sguardo gli voleva lanciare addosso altre accuse e lei le avrebbe accettate nel silenzio. Non poteva capire sino in fondo il dolore di Konstantin ma non poteva biasimare il dolore di un fratello per la propria sorella, avrebbe accettato tutto l’astio che avrebbe riversato su di lei, a lei che aveva rubato l’identità di Sam. Ora che ci faceva caso, l’uomo non l’aveva mai chiamata Sam da quando si conoscevano, forse non l’aveva mai chiamata affatto. Quelle tre lettere le riservava per qualcun’altra, per la sua legittima proprietaria.

«È in coma, non lo sa nessuno» interruppe il silenzio «Non avrei mai permesso niente di tutto questo» gesticolò con le mani «se non fosse stato per salvarla. Non avrei mai permesso ad agenzie senza scrupoli di prendersi l’identità di Sam se- Le cure erano troppo costose e solo questo avrebbe potuto salvarle la vita.»

L’uomo si coprì gli occhi con la mano. Il suo labbro inferiore tremò e il respiro si era fatto più veloce.

«Mi dispiace» sussurrò Clarke cautamente.

«Dispiace a me, era il mio orgoglio. Poteva fare tanto, era nata per fare tanto e invece…» lasciò la frase sospesa nell’aria.

Molte domande iniziarono ad affiorare nella mente di Clarke, avrebbe voluto chiedere di più di Sam. Avrebbe voluto chiedere quale fosse il ruolo di Konstantin. Avrebbe voluto chiedere quali cambiamenti comportasse per lei, in caso Sam si risvegliasse dal coma.
Ma tra tutte le cose che poteva chiedere sentiva che non poteva. Qualunque cosa avesse voluto dire, avrebbe solo fatto più male alla ferita ancora aperta di Konstantin. Non sapeva cosa dire o fare per alleviare il momento, alla fine appoggiò semplicemente la mano sul braccio dell’uomo e lo strinse, mettendo a tacere, momentaneamente, tutte le domande che le riempivano la mente.
 
                                                                                                                                       

 





Allungò le gambe e braccia e sbadigliò mentre il guinzaglio tirava. Al parco c’era poca gente per via del freddo, il cielo si era fatto violaceo e c’era un po' di nebbiolina che aveva un certo fascino, sarebbe stato bello catturare quel momento con una foto.
Il parco era lontano dalla sua abitazione, molto vicino alla sede dell’AMI, difatti aveva scoperto l’esistenza di quel parco in una delle tante volte che andava al lavoro. Clarke ci tornava ogni volta che poteva per scappare dalla solitudine senza dover per forza andare in un posto troppo frequentato o semplicemente quando voleva cambiare aria, inoltre era un luogo ideale per portare a spasso un animale.
Si sedette su una panchina, davanti a sé vedeva una sconfinata distesa di terreno erboso con alberi tutt’intorno e qualche coraggioso che aveva deciso di praticare jogging nonostante il freddo pungente. Si vedeva anche una coppia di anziani passeggiare sul sentiero.
L’aria fresca e frizzante invernale le penetrava prepotentemente nei polmoni donando al suo corpo una vigorosa sferzata d’energia. Una nuvola di respiro uscì dalla bocca di Clarke. Stava lì e osservava il cane giocherellare intorno a lei felice. Aveva discusso a lungo con Konstantin per tenersi il cucciolo la notte che lo trovò, alla fine era rimasto con lei fino a crescere e diventare un bel cagnolone.
Le piaceva molto quel parco. L’erba era sempre curata, le siepi potate e le panchine tirate a lucido. In primavera gli animali popolavano quei terreni, perlopiù scoiattoli, correvano da un ’albero all’altro destreggiandosi tra i vari rami. Il laghetto in mezzo al parco si riempiva di file di paparelle e talvolta di intravedeva anche qualche cigno che si lasciava trasportare dalla brezza sullo specchio d’acqua. Sorrise a ricordare quelle scene, le trasmettevano una pace dei sensi.
Clarke iniziava a dirigersi verso l’uscita, era persa nei suoi pensieri. Quel momento di pace stava svanendo man mano che usciva dal verde di quel posto, tutto quello che era accaduto con Konstantin stava riaffiorando alla sua mente e non poteva fare a meno di ricordare gli occhi dell’uomo. I passi si facevano sempre più veloci mentre il  guinzaglio iniziava a tirare in direzione di un grande obelisco, e prima che potesse accorgersene, si ritrovò con il suo amico peloso nella grande piazza dell’AMI.

«Non sapevo avessimo gli stessi interessi, avresti dovuto dirmelo prima» disse sorpresa Clarke mentre incrociava le braccia, come se fosse offesa verso l’animale, «poteva essere un ottimo argomento di discussione per legare all’inizio.»

Il cielo stava cambiando in fretta. Cupi brontolii scesero dalle nuvole, tuonando tra i palazzi della città. I colori stavano mutando a grande velocità. I lampi di moltiplicavano e come erano iniziati i tuoni anche timide goccioline iniziarono a scendere senza sosta.

«È l’ora di tornare a casa» annunciò Clarke.

Le goccioline si trasformarono presto in una violenta ondata d’acquazzone, così forte che Clarke non poté che rifugiarsi sotto uno dei tanti porticati di uno dei palazzi del complesso d’edifici. Nonostante il cappotto che indossava, l’umidità iniziava a penetrare nei suoi vestiti e un brivido le percorse la schiena. Si era messa braccia conserte mentre aspettava che la violenza di quell’acqua si placasse.

«Sam…»

Una voce dietro di lei aveva richiamato la sua attenzione, ma ancora prima di girarsi aveva già riconosciuto a chi appartenesse la voce.

«Lexa» uscì una voce più sorpresa di quanto avrebbe voluto «Che ci fai qui?» sbottò senza pensarci.

Sul viso di Lexa si leggeva più sorpresa di quanto non ci fosse sul viso di Clarke, solo in un secondo momento la bionda si rese conto ti aver appena dato del tu al suo capo. Presa del momento si era dimenticata degli appellativi.

«Oddio, mi scusi. Le ho appena dato del tu e le ho chiesto che ci facesse nel luogo dove lavora. Mi ha spaventata e -»

«Scusami se ti ho spaventata.»

Lexa la interruppe prima che potesse finire, l’aveva rassicurata  dato del tu di rimando, aveva acconsentito tacitamente all’abbandono della formalità tra di loro. La pioggia aumentava e tamburellava senza sosta su qualunque superficie incontrasse, era un velo perenne che faceva da sottofondo alla conversazione insieme al lieve fruscio del vento.

«Che ci fai qui Sam? Non hai la giornata libera?» chiese con l’ombrello in mano, ancora vestita con gli abiti da ufficio che si intravedevano dal cappotto pesante.

«Sì, ma cosa posso dire, mi è mancato il lavoro.»

«Mi chiedo cosa fai quando hai le ferie prolungate allora.»

Un abbaiare attirò l’attenzione di entrambe le figure sotto il porticato.

«Okay non è vero. Il mio cane era più interessato di me a venire qui, io volevo solo morire sul divano davanti a una tazza di tè» ammise imbarazzata mentre si spostava una ciocca di capelli bagnaticci dietro l’orecchio.

«Questo suona molto più allettante.»

C'era un leggera tensione nell'aria, lo sguardo delle due donne si cercavano a vicenda con una nota di palpabile imbarazzo. Nessuna delle due sapeva cosa dire ma non era sfuggito a Lexa il fatto che la ragazza davanti a lei fosse bagnata e infreddolita, probabilmente colta alla sprovvista dal brutto tempo improvviso.

«Dove abiti?»

Clarke venne colta alla sprovvista dalla domanda, «Perdonami?»

«Immagino che non staresti qua se avessi avuto la possibilità di tornare a casa, ti do un passaggio, tanto sto tornando anche io.»

«Ti ringrazio Lexa, ma non c’è bisogno che ti disturbi, tra poco il tempo si calmerà e io e questo giovanotto torneremo a casa; nel frattempo posso anche aspettare dentro, basta che mostro il tesserino alle guardie.»

«E ti porti il tesserino quando vai a passeggio con il tuo cane?» alzò un sopracciglio.

«Mi aiuta a sentirmi più vicina al lavoro quando sono a riposo?» era più una domanda che una risposta.

«Sicuramente sei più brava nel tuo lavoro che a dire bugie» Clarke arrossì, «So che gira voce che sono una gran stronza ma non lascerei mai una mia dipendente qui fuori, se ti ammalassi incideresti negativamente sull’efficienza del nostro reparto.»

Quella donna sapeva bene come farsi amare e odiare in un ciclo infinito; ti sorprendeva con gesti carini ma poi ti sbatteva la porta in faccia.
Lexa si avvicinò senza aspettare ulteriormente, fu inevitabile avvicinarsi oltremodo per cercare di ripararsi sotto lo stesso ombrello, erano così vicine che potevano sentire il calore l’una dell’altra. Insieme all’odore della pioggia e dell’asfalto bagnato, Clarke sentiva chiaramente un altro profumo giungere alle sue narici, era l’odore di Lexa. Un sapore fresco e inebriante, le ricordava il muschio dei boschi.
Cercava concentrarsi sulla pioggia che scendeva a catinelle invece che lasciarsi distrarre dalla vicinanza della donna accanto a lei, che la avvolgeva completamente senza nemmeno toccarla. Dal canto suo, Lexa invece, non sembrava minimamente in soggezione o a disagio da quella vicinanza inconsueta causata dal caso, anche se alla bionda parve di intravedere un leggero rossore affiorare sul suo viso. Ma non era sicura, il tempo si era fatto estremamente brutto nel frattempo e il cielo si era rabbuiato di un colore assai cupo con l’avvicinarsi della sera, e questo aveva contribuito a nascondere bene il viso di Lexa ai suoi occhi.

«Avvicinati altrimenti non riuscirai a ripararti» disse la voce interrompendo il flusso di pensiero di Clarke.

Iniziarono a camminare in silenzio, dirette verso l’auto della donna, Clarke cercava di concentrarsi sulla strada mentre aveva in una mano il guinzaglio, nell’altro l’ombrello.
Tentava di focalizzarsi su qualsiasi altra cosa altrimenti sarebbe stata portata via dal profumo di Lexa. Le loro mani erano molto vicine, tra un passo e l’altro sentiva le loro mani urtarsi.
Sotto quella pioggia incessante il tempo sembrava essersi dilatato, il cuore di Clarke batteva forte, forse per la corsa e l’essere fradicia, forse per la vicinanza e il calore di Lexa, o forse per entrambe. Sapeva solo che avrebbe voluto che quel tempo durasse di più, avrebbe voluto che il tragitto fosse stato il più lungo possibile cosicché avrebbero potuto semplicemente camminare insieme sotto il silenzio battente di quel cielo bagnato.
Si racconta che in epoca feudale giapponese, gli uomini e le donne che erano in intimità non dovevano mostrarsi vicini in pubblico, né tantomeno potevano tenersi per mano o a braccetto. Una delle rare occasioni in cui era lecito tutto ciò erano le giornate di pioggia, quando due persone potevano mostrarsi insieme riparandosi sotto l’intimità dello stesso ombrello; La conseguenza fu che quando un uomo regalava a una donna un ombrello, le stava dichiarando implicitamente il suo amore.1
Senza un motivo preciso, Clarke si sentiva un po' così, l’intimità del momento era forte quanto labile, un gesto tanto semplice quanto profondo, un istante intrinsecamente personale che solitamente non si condivide con nessun altro se non per necessità ultima ma Lexa l’aveva fatto. Tra le parole non dette le aveva dato il permesso di oltrepassare quel suo piccolo spazio privato.
Con la coda dell’occhio aveva continuato a guardare più e più volte il profilo della donna accanto a lei, un brivido le percorse la schiena, stava iniziando a bagnarsi troppo per pioggia e il freddo diventava sempre più pungente. Probabilmente.
L’auto non era parcheggiata troppo lontana e in poco tempo arrivarono al veicolo. Entrarono in auto a gran velocità e finalmente poterono tirare un sospiro di sollievo per il riparo asciutto.

«Che corsa» affermò Lexa spostandosi un ciuffo completamente bagnato dal viso.  

«Mi spiace, se non avessi dovuto dividere l’ombrello con me non ti saresti bagnata dalla testa fino ai piedi.»

«Sam smettila di scusarti o ti butto fuori, porto a casa solo lui» guardò nello specchietto retrovisore che dava i sedili posteriori «come si chiama a proposito?»

Clarke ci pensò un momento. Aveva sempre chiamato l’animale con appellativi come bello o cucciolo, quel cane appariva e scompariva in continuazione, come era apparso nella sua vita spesso spariva nei boschi per giorni se non settimane e infine tornava alla porta di Clarke. Era come un gatto, tornava ogni tanto ma preferiva stare fuori a bighellonare o a fare chissà cosa. Era un gatto nel corpo di un cane.

«Si chiama Mao.»

«Mao?» un velo di perplessità si distese sul viso di Lexa. Forse la bionda la stava semplicemente prendendo in giro, «Sei più comunista tu che chiami il tuo cane Mao o il tuo cane che si fa chiamare Mao?» non poté fare a meno di sorridere.2

«Entrambi magari» ridacchiò, «Questo cane è praticamente un gatto che abbaia, da piccola mi insegnarono che Mao significava gatto in qualche lingua che ora mi sfugge, così ho deciso di chiamarlo in questo modo.»

«È cinese.»

«No, è una tipica razza del nostro territorio. Ne vedo molti in giro quando vado al parco.»

«No, intendo che il nome deriva dal cinese.»

Clarke si sorprese nell’apprendere che Lexa aveva persino nozioni di lingue estere.

«Vi fanno uscire proprio perfetti» l’affermazione scivolò dalla sua bocca ancor prima che ne formulasse il pensiero.

«Cosa intendi?» aggrottò la fronte mentre iniziavano a muoversi in mezzo a file di macchine con i fari accesi.

«Beh… Sono tanti i meriti che si dicono di te ma la conoscenza delle lingue esotiche non l’avevano mai citata» salvataggio in calcio d’angolo, «Come mai conosci il cinese?» cambiò subito argomento.

«Alcuni progetti passati hanno richiesto la conoscenza della lingua per poter collaborare meglio con i paesi partecipanti, tra questi c’era la Cina.»

«Dicono sia una lingua difficile.»

«Ti dicono tante cose a quanto pare, dovresti provare a smettere di ascoltare e verificare di persona, non credi?»

«Probabilmente hai ragione.»

«Probabilmente.»

L’atmosfera si era fatta molto più rilassante e tranquilla, sembravano così lontani i giorni in ufficio quando si ignoravano a vicenda. Erano come vecchie amiche che si erano ritrovate a parlare. Il viaggio procedette senza intoppi, tra una conversazione e l’altra, Mao mugugnava qualcosa ogni tanto.
L’auto si fermò.

«Siamo arrivate. Dovresti pensare a prenderti una casa più in città sai?» disse Lexa osservando fuori dal finestrino.

«Ci penso spesso ma poi mi ricordo che odio la città» rispose Clarke, «Preferisco stare in mezzo al verde», verde proprio come il colore di quegli occhi che la stavano fissando sotto la poca luce che illuminavano i loro visi.

«Ti capisco, a volte anche io preferirei abitare in mezzo al nulla, con solo silenzio e verde tutt’intorno, ma poi mi ricordo che odio alzarmi presto e ho bisogno di un lavoro.»

«Ti ringrazio davvero per stasera, non sarebbe stato così semplice tornare a casa se non ci fossi stata tu» disse Clarke mentre scendeva dall’auto e faceva uscire Mao, che corse via non appena la porta si aprì, «E prima che te ne accorga tu stessa, mi vorrei scusare per come troverai i sedili posteriori, sono desolata.»

Lexa si girò verso i sedili posteriori un po' preoccupata di quell’anticipazione ma non notò niente di strano se non delle zampate qua e là, lavabili con un panno bagnato. Tirò un sospiro di sollievo.

«Pensavo molto peggio per come l’avevi detto. Comunque, non ti preoccupare, non mi è costato nulla ma puoi iniziare a scusarti lasciandomi usare il tuo bagno, mi vorrei dare tanto una veloce ripulita» disse Lexa mentre si teneva una ciocca di capelli ancora bagnati tra le lunghe dita affusolate. Nonostante il viaggio in auto, erano ancora entrambe bagnate fradice.

«Ma certo, è il minimo che possa fare» iniziarono a dirigersi verso il portone d’entrata mentre Clarke faceva strada in mezzo al vialetto umidiccio, «Se non è fuori luogo, vorrei ringraziarti invitandoti a bere qualcosa insieme. Offro io. Ti ho fatto allungare la strada per tornare a casa, bagnare e sporcare l’auto, mi spiace davvero per il disagio» disse Clarke, speranzosa quasi che l’interlocutrice accettasse, non sapeva il motivo ma avrebbe voluto tanto rivedere Lexa ancora, oltre le mura lavorative. Era bello passare il tempo con lei, anche i momenti di silenzio avevano un loro fascino se erano insieme, voleva essere ancora in mezzo al suo verde.

La proposta lasciò sorpresa Lexa, non sapendo bene cosa rispondere alla bionda, tentennò quasi, scuotendo la testa inizialmente. Non era appropriato che accettasse un’offerta del genere, pensava già alle voci che si sarebbero sparse se qualcuno le avesse viste, ma l’insistenza di Clarke fu così forte che alla fine dovette accettare il suo ringraziamento.
La serratura si aprì non appena la chiave fu girata. Clarke avanzò nel buio ma ancor prima che potesse accendere la luce sentì la presenza di qualcuno.

«Dove sei stata?»

Clarke ebbe un sussulto comunque.

«Diventi sempre più inquietante, Konstantin. Che diavolo ci fai qui?»

«È tardi, ti aspetto da un bel po'.»

«Lo vedo che mi aspettavi, è casa mia. Potevi accendere la luce mentre lo facevi, avrei pagato io.»

«Sam? È permesso?» disse una voce da fuori la porta mentre dei passi iniziavano ad avanzare in casa.

Gli occhi di Konstantin stavano per uscire dalle orbite.

«Hai portato qualcuno qui???»

«Calmati, andrà via appena avrà usato il bagno, è il mio capo.»

«Regola numero uno di avere un’identità falsa è non farsi scoprire!» disse con gli occhi di fuoco, cercando di tenere la voce più bassa che poteva.

Il viso di Lexa si affacciò alla stanza illuminata dove aveva visto dirigersi Clarke quando era entrata in casa. Vide la ragazza intenta a parlare con un uomo piuttosto robusto, dai folti capelli biondi. Sguardo duro.

«Buonasera.»

«Sera a lei­» rispose l’uomo con la fronte aggrottata accanto alla bionda.

«Lexa, ti presento mio- mio zio. È venuto a trovarmi, a sorpresa, da fuori città.» disse Clarke un po' in difficoltà, «Ah, già il bagno è in fondo a destra. Lo troverai subito.»

Lexa si avviò verso il percorso delle indicazioni di Clarke e scomparve dalla loro vista.

«Signorina, dobbiamo fare un discorsetto noi due» la ammonì arrabbiato.

«Non era programmato, ha fatto tutto lei.»

Konstantin si portò le mani tra i capelli, «Sai perché si chiama nascondiglio? Perché ci si nasconde e nessuno lo deve scoprire. Mi sembra una cosa elementare» disse molto arrabbiato.

«Ti ho detto che non succederà niente, userà il bagno e se ne andrà via come è arrivata.»

«La prossima volta tieni le tue puttanelle lontane da questo posto, hai capito?»

Konstantin le puntava il dito quasi in faccia. Era furioso. Clarke non voleva dire altro per evitare di farlo infuriare ancor di più, o peggio, di farsi sentire da Lexa. Furioso o meno, lei era a due passi da loro e poteva tornare da un momento all’altro. Pochi instanti dopo, difatti, tornò Lexa. Si era data una sistemata veloce e si era ripulita. Incredibile come potesse stare bene anche dopo un acquazzone e camminato in mezzo alla fanghiglia pensò Clarke. Pochi istanti dopo, si stupì di star pensando a una cosa del genere invece che a come sistemare la faccenda.

«Sam, ti ringrazio per la cortesia. Tolgo il disturbo allora, avrai molto cose da raccontarti con tuo- zio» sentiva lo sguardo dell’uomo addosso, «È stato un piacere conoscerla.»

«Altrettanto» rispose velocemente.

«Grazie a te Lexa. Buonanotte.»

La presenza della bruna scomparve in fretta dall’abitazione, pochi minuti dopo il rumore di un motore si udì di sottofondo finché non scomparve anche quello, lasciando così, solo Clarke e Konstantin, soli in quella stanza.


 





Note:

1. Nella cultura giapponese l'Ai ai gasa (相合傘) (letteralmente condividere un ombrello) è il simbolo degli innamorati, equivalente ai cuori trafitti da una freccia in uso nel mondo occidentale. Viene rappresentato come un ombrello stilizzato, sotto al quale possono essere scritti i nomi dei due innamorati.

2. Gioco di parole con riferimento al politico comunista Mao Tse Dong, e l'assonanza del suo nome Mao  (毛) con la parola gatto Mao (猫) in cinese. Nonostante diverso carattere e alterazione di tono, entrambi riconducono allo stesso suono di base. 

  
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