La figlia dei demoni
C’era
una volta, tanto tempo fa e in un regno molto lontano, un piccolo principe
biondo, dall’aspetto paffuto e gli occhi azzurro cielo.
Nonostante il suo apparire angelico si trattava di un bambino viziato,
incontentabile e prepotente: nulla destava il suo interesse come canzonare,
oltraggiare e aggredire le persone che riteneva inferiori.
Il re e la regina cercavano di accontentarlo in tutto, la balia tentava in ogni modo di imporsi, ma i loro sforzi erano
inutili e il castello continuava a essere disturbato dalle sue urla e dai suoi
capricci.
I suoi genitori si rivolsero agli educatori e questi si riunirono, si
consultarono, scartabellarono i loro tomi sull’argomento e gettarono la colpa
di tutto sul senso di solitudine che doveva, a parer loro, affliggere il
bambino.
Il re e la regina rinunciarono dunque a un modello di istruzione privata a
favore di una scuola frequentata da suoi coetanei, con i quali, si auspicavano,
avrebbe stretto dei legami; purtroppo le cose presero una piega diversa e il
piccolo principe si trasformò in un piccolo bullo che vessava di continuo gli
altri bambini.
Preoccupati per questo suo atteggiamento il re e la regina lo ritirarono dalla
scuola e di nuovo chiesero consiglio agli educatori: questi si riunirono, si
consultarono, scartabellarono i loro tomi sull’argomento e giunsero alla
conclusione, sbagliata, che il nobil pargolo avesse
bisogno di più affetto.
Suo padre iniziò allora a sottrarre tempo agli impegni reali per curarsi della
sua educazione e sua madre divenne sua compagna di giochi. Ma le lune si
susseguirono e il caratteraccio del principe non accennò a cambiare.
Affranti, i due genitori ricorsero per la terza volta all’aiuto degli
educatori, i quali si riunirono, si consultarono, scartabellarono i loro tomi
sull’argomento e il loro verdetto fu che a quel bambino servisse una maggior disciplina.
Il re e la regina, certi di far bene, avanzarono con decisione qualche “no!” ai
suoi capricci, lo misero qualche volta in punizione. Così, però, instillarono
il lui il risentimento, sentimento negativo che iniziò a riversare con crudeltà
sui servi sfortunati che avevano a che fare con lui.
La balia, sfinita, si licenziò.
Il re la pregò di restare, di desistere dal suo intento, le promise ricchezze e
un titolo nobiliare, la minacciò di inseguirla dovunque sarebbe andata, e, a
ogni modo, dove mai sarebbe andata? Ma lei continuò imperterrita a fare il suo
piccolo bagaglio, perché “anche vivere sotto un ponte è sicuramente meglio che
stare a fianco di quel piccolo mostro”.
Non fu l’unica a preferire la strada alla situazione che si era creata nel
castello e, dopo qualche anno, i servi rimasti non erano più che una ventina,
un’inezia considerate le dimensioni del regno e della città capitale.
Tra
di loro c’era una piccola spazzacamini di nome Aoife.
Era questa un’orfanella dalla corporatura minuta e dagli arruffati capelli
rossi che le erano valsi l’abbandono da parte dei genitori, il poco simpatico
nomignolo di “figlia dei demoni” e il lavoro di spazzacamino, perché la
fuliggine era universalmente riconosciuta come un elemento che si confaceva a
una figlia di un demone.
Con un po’ di fortuna, poi, un bel giorno sarebbe accidentalmente precipitata tra
le fiamme a cui apparteneva, o almeno questo era ciò che si auspicavano i più. Non
per cattiveria, si intende, ma per spirito di sopravvivenza: per scoprire il
motivo di questo infausto augurio il lettore dovrà fare un ulteriore sforzo e
tornare ancora indietro di molti più anni, quando il lussureggiante regno non
era affatto abitato da uomini, ma da creature dotate di poteri magici, chiamate
Ninfe, che conducevano la propria esistenza con estrema tranquillità.
Questa
idilliaca situazione perdurò finché i demoni, esseri malvagi che si divertivano
a spargere il caos, istigarono gli uomini contro le Ninfe, facendo loro credere
che fossero pericolose e convincendoli che la terra in cui esse vivevano
appartenesse in realtà a loro. Privi di poteri magici, ma dotati di un grande
numero, di un soddisfacente intelletto, e di una naturale ripugnanza per
qualsiasi tipo di scrupolo, gli uomini, convinti di essere stati derubati,
riuscirono ad avere la meglio sulle Ninfe e le segregarono al di fuori dei
confini delle città, nei boschi selvaggi e nelle lande desolate; la Ninfa
Suprema, a cui tutte le Ninfe facevano riferimento, nel tentativo di far
rinsavire gli umani manipolati dai demoni, provò a scontrarsi direttamente
contro questi ultimi. Il risultato di questa impresa spavalda fu solo di essere
esiliata e maledetta: né lei, né le altre Ninfe, avrebbero potuto mettere più piede
in una città umana.
La maledizione, tuttavia, non era eterna: poiché ai demoni la pace proprio non
piaceva e prevedevano che in un futuro forse non troppo lontano l’equilibrio si
sarebbe nuovamente ribaltato, separarono la Ninfa Suprema dalla sua anima,
custodendo quest’ultima in un talismano verde smeraldo, che per lei avrebbe
rappresentato la speranza: qualora il talismano fosse riuscito a entrare, per
mano di un umano, nella Sala del Trono del re, allora il sigillo demoniaco si
sarebbe spezzato e le Ninfe avrebbero riacquistato la capacità di entrare nelle
città degli uomini.
La leggenda veniva tramandata di generazione in generazione perché nessuno si
dimenticasse che chiunque si aggirasse con fare sospetto per le strade, avesse
qualcosa di diverso o si dilettasse troppo con le erbe del bosco finisse per
direttissima bruciato su un rogo, con l’accusa di essere stato corrotto delle
Ninfe nemiche; inoltre solo pochi eletti avevano accesso alla sala del trono e
venivano accuratamente perquisiti prima di mettervi dentro anche un solo
alluce.
Sfortunatamente (o fortunatamente, a seconda dei punti di vista) Aoife si teneva sempre ben lontana dalla Sala del Trono e
non capiva proprio nulla di erbe. Le avevano teso qualche tranello, nel dubbio
che fingesse, ma l’unica cosa che la spazzacamino aveva dimostrato era di non
sapere nemmeno distinguere le erbe velenose da quelle commestibili: dopo
essersi quasi avvelenata e aver scampato la morte per miracolo, anche le
malelingue più indefesse furono costrette a riconoscere che etichettarla come
strega fosse del tutto insensato.
Ma poiché le esigenze del quieto vivere e dell’ordine interno esigevano che
tutti avessero un’etichetta e tutti quei suoi capelli rossi erano davvero
inusuali, i consiglieri trovarono la soluzione alla strana comparsa di Aoife in un’altra leggenda, plausibile derivazione della prima,
secondo cui i demoni avrebbero lasciato nel mondo alcuni dei loro figli affinché
continuassero a sconvolgere l’ordine delle cose. Di fatto, aveva mai preso in
castagna Aoife intenta a sconvolgere un qualsiasi
tipo di ordine e dunque, in mancanza di prove che confermassero quelle loro
dicerie, si erano rassegnati a tollerare la presenza della spazzacamino.
Le persone di quel regno erano infatti malfidate, malelingue e ipocrite, ma non
troppo ingiuste e mai avrebbero condannato a morte un innocente senza prove
concrete: il re era irremovibile su questo aspetto, perché credeva che la
giustizia fosse il pernio per vivere in un mondo migliore e detestava la
superficialità con cui alcuni suoi colleghi di altri regni mandavano a morire
persone innocenti.
Aoife, in fin dei conti, era stata fortunata a
capitare in un posto dove, anche se la guardavano storto, generalmente non
tentavano di ammazzarla.
Generalmente
perché, nella totale indifferenza degli altri, riceveva mille soprusi dal
principe, il quale l’aveva eletta a suo bersaglio preferito: quante volte,
mentre si trovava in equilibrio precario a ripulire una canna fumaria, il
principe accendeva il fuoco e lei era costretta ad arrampicarsi in fretta per
non finire soffocata dai fumi o, peggio, arsa viva? Inoltre, tormentarla lo
metteva di così buon umore da lasciare in pace il resto della corte, che quindi
si guardava bene dal distrarlo da quel perverso divertimento.
All’inizio Aoife aveva denunciato la violenza, ma era
stata zittita e additata di irriconoscenza, perché una figlia dei demoni era
addirittura indegna di vivere.
Nonostante ciò, la fanciulla non osava abbandonare quella che considerava
“casa”: chi altri le avrebbe offerto un lavoro? Almeno lì aveva un poco da
mangiare e un posto dove dormire, anche se si trattava delle umide, sporche e
muffose cantine, vicino alla prigioni. Niente ninna nanne per Aoife, ma urla di dolore a cullare il suo sonno.
Imparò ben presto a tacere, a non dare confidenza e a svolgere il suo lavoro
cercando di passare il più inosservata possibile, raccogliendo i capelli e
coprendoli con un velo nero.
Finché un freddo pomeriggio di marzo, quando il gelo si placa, le piogge
inumidiscono l’ambiente e i boccioli di rosa iniziano a comparire nei giardini,
qualcosa non andò per il verso giusto: Aoife era
impegnata ad accendere i camini necessari a far riscaldare il salone in vista
della cena e si accorse che il principe era scivolato furtivamente alle sue
spalle solo quando percepì che qualcosa di molto rovente era venuto a contatto
con la sua gamba.
-
AH! – Aoife lanciò un breve urlo di dolore accasciandosi sul
pavimento.
Il
principe la sovrastò brandendo un bollente attizzatoio.
-
Mi annoio. – spiegò con
un tono cattivo. – Voglio giocare all’eroe che uccide il pericoloso demone! -.
Aoife spalancò gli occhi,
inorridita e certa che lui avrebbe portato a compimento quel suo piano malvagio.
Quando la colpì sul braccio, mantenendo
il contatto con la sua pelle più a lungo, gridò nuovamente come una
forsennata nella vana speranza che qualcuno la udisse e provasse pietà.
-
Chissà se i tuoi occhi
resistono al fuoco più della tua pelle. -.
Il
principe si fece sempre più vicino con l’aria già trionfante. Ma…
-
Adesso basta! – tuonò
una voce.
Quella
del re.
Aoife non aveva osato sperare in un aiuto così
inaspettato e, infatti, quell’intervento non era per lei.
-
Figlio, questo è troppo!
– proseguì il re con voce severa, senza degnare la spazzacamino di uno sguardo.
– Il barone Dhuin mi ha appena riferito che hai di
nuovo sbeffeggiato suo figlio e… che cosa sta
succedendo qui? – solo allora sembrò notarla. – In piedi, figlia dei demoni,
stai imbrattando il pavimento di sangue e fuliggine! -.
La
giovane si sentì umiliata e insultata da quelle parole. Si domandò come il re
potesse ignorare ciò che stava succedendo e si concesse qualche altro momento a
terra, considerando che il sovrano fosse troppo occupato a redarguire l’odioso
principe per preoccuparsi seriamente della sguattera e del tappeto.
-
Non ti avevamo forse
detto che non avremmo tollerato altri affronti ai tuoi nobili coetanei? Che ne
avresti pagato le conseguenze? Trascorrerai la notte nel Bosco Tetro e non
importa se sei mio figlio, non ci saranno guardie a proteggere la tua
incolumità! -.
A
quelle parole il principe diventò paonazzo e iniziò a urlare le sue lamentele.
-
Non è giusto! NON È
GIUSTO, IO SONO IL PRINCIPE E LUI SOLO UNO STUPIDO! NON È GIUSTO, NON VOGLIO,
NON È GIUSTO! – accompagnò quella tiritera con pugni e calci per terra, si
aggrappò alle vesti del genitore, pianse e si dimenò come se fosse stato
posseduto.
Il re
perse la pazienza e chiamò le guardie reali perché lo portassero nel bosco,
lontano il più possibile dalle sue orecchie.
Nel
frattempo Aoife aveva approfittato di tutta quella
baraonda per dileguarsi senza dare nell’occhio. Avanzò per i corridoi e impiegò
molto più tempo del solito a raggiungere il suo giaciglio. Non aveva acqua, né
bende. Chiederle a qualcuno era fuori discussione, non le avrebbero mai
sprecate per lei: l’unica scelta che le si prospettava era quella di rubarle o
sarebbero stati guai.
Ancora una volta, però, il destino sembrò avere progetti diversi per lei e le
si pararono davanti due sagome dall’aria minacciosa, le guardie del re.
-
Dobbiamo portarti via. –
le annunciò una di loro, con aria grave. – Non hai acceso tutti i camini del
salone e i signori patiscono il freddo. -.
Aoife non provò a ribellarsi,
non tentò di far notare che, in quelle condizioni, non avrebbe potuto portare a
termine il suo compito, e di certo non si sognò di dire che il re era
perfettamente a conoscenza del motivo del suo “errore” di quella sera: opporsi
non sarebbe servito a niente, se non a perdere tempo ed energie.
Cercò di alzarsi e, impiegando troppo tempo, una delle guardie l’afferrò
malamente per una spalla e la costrinse a stare in piedi; la condussero via con
la forza e lei si fece trascinare in silenzio.
Continuarono a camminare, varcarono le soglie del castello e poi quelle delle
mura, fino ad arrivare al principio del Bosco Tetro.
-
Resterai qui dentro. – sentenziò
una delle guardie. – Con il principe. – si premurò di specificare.
Di
nuovo la ragazzina non replicò e lasciò che le guardie l’abbandonassero a se
stessa.
Lanciò poi un’occhiata incerta al folto del bosco e si domandò se fosse davvero
pieno di Ninfe come si narrava. Di certo il nome affibbiato a quell’insieme di
alberi gli rendeva giustizia, perché il Bosco Tetro era, effettivamente, tetro,
con quelle ombre spaventose, i rumori inquietanti, le fitte fronde e gli
arbusti che potevano celare qualsiasi pericolo.
Non riuscì però ad avvistare il pericolo numero uno, il principe, da nessuna
parte e pensò che lo stolto si fosse inoltrato nel folto, mentre lei ritenne
più saggio restare sul limitare. Stava giusto cercando un riparo, magari un
anfratto tra qualche robusta radice, quando udì delle grida tremendamente
fastidiose che frantumarono la quiete notturna e fecero scappare gli animali:
diversi uccelli si levarono in volo e persino un paio di scoiattoli vicino al
suo albero corsero via. Aoife tentò di ignorare il
principe, ma, dopo qualche minuto, la sua pazienza raggiunse il limite:
sentendosi investita della missione di ripristinare la pace del bosco si alzò
in piedi con aria battagliera e afferrò un bastone che l’avrebbe aiutata a
procedere.
Trovare
l’arrogante principe non fu affatto arduo e quando lui la scorse poco ci mancò
che le si scagliasse addosso. Aoife, tuttavia, non
vacillò davanti a lui: si trovavano in un ambiente sconosciuto, ostile e,
soprattutto, viziato com’era, il principe non avrebbe avuto la minima speranza
di sopravvivere senza il suo aiuto.
-
Fossi in te terrei la
bocca la chiusa. – gli suggerì, con calma. – O rischierai di attirare qualche
fiera. -.
-
Illusa. – ribatté lui. –
Credi davvero che mi abbiano lasciato nel bosco senza protezione? Che cosa ne
può sapere una stupida come te? Sarà di certo pieno di guardie tutt’intorno. -.
Aoife lo guardò non troppo
convinta.
-
Non c’è nessuno. – lo
informò con calma. – Non ho scorto alcuna guardia mentre venivo qui. Ho fatto
molta attenzione. -.
-
Loro sono addestrate,
cosa credi? Non si fanno mica sorprendere da te. -.
La spazzacamino
si limitò a scuotere la testa in segno di diniego e rassegnazione: avrebbero
potuto trascorrere tutta la notte a discuterne ma non sarebbe servito a niente.
Optò dunque per cambiare argomento.
-
Ho trovato un anfratto
sicuro sul limitare del bosco, potremmo passare la notte lì. – propose.
Ma
lui la ignorò del tutto.
-
Ho fame. – si lagnò
invece. - Non ho cenato ed è tutta colpa tua! -.
-
Colpa mia? -.
-
Proprio così! È colpa
tua se mio padre mi ha trovato così facilmente, tua e delle tue urla. -.
La
spazzacamino non trovò parole per ribattere a una tale insensatezza.
-
Vai a trovare da
mangiare! – ordinò lui.
-
Ma riesco a malapena a
camminare. –.
Il
principe raccolse allora da terra un enorme ramo che aveva l’aria di far
davvero male.
-
Vai o ti picchio con
questo, figlia dei demoni. – la minacciò con calma. – Non ti aiuterà nessuno.
-.
Aoife si ritrasse spaventata,
come un animale maltrattato si ritrae quando vede il bastone. Chinò la testa,
in segno di remissività.
-
Va bene. – acconsentì. –
Vado. -.
Almeno
si sarebbe tenuta un po’ a distanza dal principe e si sarebbe di nuovo fatta
avvolgere dalla pace della foresta.
Nel suo procedere scorgeva ombre sinistre e udiva inquietanti scricchiolii:
cercava di ignorarli e di focalizzare la propria attenzione sulle piante che
aveva intorno per capire se fossero commestibili. Si teneva ben lontana da
tutte quelle che non conosceva e, poco prima di perdere la speranza, scorse
delle colorate fragoline di bosco spuntare da un cespuglio: non erano molte, ma
erano grosse e facevano venire l’acquolina in bocca solo a guardarle.
Aoife allungò velocemente la mano per afferrarne
qualcuna, ma si bloccò all’improvviso.
“Le
fragole sono davvero poche” pensò. “Se ne porto al principe anche solo una in
meno ricomincerà a urlare e di nuovo disturberà tutto. Meglio la fame.”
Iniziò
la raccolta con delicatezza, con meticolosità, attenta a non sprecare nemmeno
un frutto mentre infilava le fragole una per una nelle tasche sgualcite del suo
vestito logoro. Fu uno sforzo inutile perché all’improvviso si sentì buttare
per terra: le fragole si schiacciarono, andando irrimediabilmente perdute. Aoife, paralizzata per lo spavento, si voltò molto
lentamente, per scoprire che il suo aggressore non era altri che il principe
stesso.
-
È questo ciò che volevi
dare al tuo principe? Qualche misera fragola? -.
Si
chinò e l’afferrò per il colletto, scrollandola e ripetendole che avrebbe solo
dovuto vergognarsi. Non contento, le strappò via il mantello.
-
Ho freddo! Alzati e
sbrigati a prendere qualcosa di decente per cena. -.
Aoife, però, non aveva
davvero più la forza di alzarsi. Si sforzò di procedere in ginocchio,
allontanandosi quel tanto che bastava da lui per non farsi più vedere e si
abbandonò al terreno. Il fresco odore della terra la colpì, ma non abbastanza
da solleticare i suoi sensi. Era stanca, era priva di forze e si concesse di
chiudere gli occhi.
Si ripeté che era un bel posto per chiudere gli occhi, lontano dalle dicerie,
dalle superstizioni, dal giudizio impietoso delle persone. In un certo senso
quel bosco era simile a lei: con una brutta fama, evitato da tutti, ma,
apparentemente, innocuo. Accarezzò l’erba con le mani, come per trovare un
conforto. Si rannicchiò su se stessa per proteggersi dal fresco e dall’umido. Le
palpebre erano pesanti e comprese che si stava addormentando davvero: decise di
non combattere il sonno. Si rannicchiò ancora di più ma, proprio quando stava
per cedere, una strana luce chiara apparve dal nulla e una voce gentile che
veniva dal bosco la chiamava.
-
Aoife… Aoife! -.
La
spazzacamino riuscì ad alzare appena la testa quel tanto che bastava per
osservare la luce.
-
Che cosa sei? – domandò.
– Sei forse un demone? -.
La
voce eruppe in una risata cristallina.
-
No, Aoife.
Io sono una fata. -.
La
luce iniziò a mutare, assumendo le sembianze di una donna meravigliosa,
longilinea, alta, con lunghi capelli biondi sciolti in morbide onde che le
incorniciavano il volto e il suo vestito era fatto di foglie.
-
Sono la Protettrice
delle piante del Bosco: la mia magia opera il bene e protegge queste terre
dalle azioni nefaste delle Ninfe. -.
-
Siete bellissima... –
commentò Aoife istintivamente. – Ma siete anche
reale? Sono morta? -.
La
creatura eterea le sorrise.
-
No, Aoife.
Non sei morta e io sono reale. Così reale che anche l’incantesimo che ti farò
lo sarà. -.
A un
suo semplice schiocco di dita rispose prontamente un vortice di lucciole che
iniziò a ruotare intorno alla spazzacamino: la fuliggine volò via, lo sporco fu
scrostato, le ferite risanate e, infine, si ritrovò avvolta in un pesante
vestito rosa, nuovo, dalle maniche decorate con fili d’oro.
Aoife non sapeva che cosa dire e si prostrò in un
fiume di ringraziamenti che non finiva più. Non aveva mai posseduto un vestito
così bello e così caldo nella sua esistenza umana.
L’entusiasmo, tuttavia, scemò rapidamente appena la realtà tornò con prepotenza
nei suoi pensieri.
-
Vi ringrazio molto per
la vostra premura. – ripeté per l’ennesima volta. – Ma se mi vedessero con
questo abito mi accuserebbero di averlo rubato e se si accorgessero che le mie
ferite sono sparite mi ucciderebbero: avrebbero la conferma che sono la figlia
dei demoni. -.
Fece
un passo indietro.
-
Non posso accettare. –
la razionalità aveva vinto sulla gioia.
La Fata,
tuttavia, le sorrise.
-
Il vestito di cui ti ho
fatto dono oggi è fatato, Aoife. – iniziò la fata. –
Il rosa allontana i pensieri cupi e la sua energia ti impedirà di addormentarti
nel bosco e di cedere. Ogni volta che sarai sul punto di non farcela, invoca il
vestito e questo ti ridarà la forza. -.
Aoife annuì, estremamente
riconoscente.
-
Siete gentile, fata. –
abbassò la testa. – Non dovreste sprecare il vostro tempo con me. Perché mi
state salvando? -.
-
Perché il tuo animo è
buono, Aoife. Buono, ma triste. – la Fata le si
avvicinò e le sollevò il mento per far sì di guardarla negli occhi. – Il bosco
accoglierà sempre le persone buone e ci sarà sempre posto per te. -.
Infine
fece apparire dal nulla una cesta di vimini traboccante di frutta, pane e
dolci: fragole e ciliegie, vellutate pesche cotogne e succose susine claudie,
mele fresche, una crostata che straboccava di marmellata che sembrava fatta
apposta per impiastricciarci le dita e schiacciatine all’olio ben unte e
salate.
La
spazzacamino le rivolse un’occhiata stupefatta, perché non aveva mai avuto
tanto cibo a disposizione e non avrebbe saputo cosa assaggiare per primo.
-
Grazie… -.
La
fata annuì e con un ultimo sorriso si dissolse nel vento, lasciandola sola.
Aoife impiegò qualche istante
per riprendersi da quell’incontro surreale, poi si ricordò di dover raggiungere
il principe. Non dovette faticare molto, perché quest’ultimo l’aveva nuovamente
seguita e si era nascosto tra i cespugli al’apparire della Fata; quello che era
successo dopo lo aveva reso verde d’invidia: perché la Fata aveva fatto dei
doni alla sudicia figlia dei demoni e non si era invece mostrata a lui, figlio
del re?
La gelosia lo divorava, fissò Aoife con odio e quando
la vide addentare una schiacciata, prima che lei potesse rimettersi in marcia
per cercarlo e sfamarlo, lui balzò fuori dalle frasche e iniziò a tirarle dei
sassi.
-
MALEDETTA! – le gridò. –
Osi rubare il cibo per il tuo principe! -.
Aoife tossì per il boccone
andatole di traverso e cercò di ripararsi alla bell’è meglio. I suoi tentativi
non servirono a nulla e non poté opporsi quando il principe la prese per mano e
iniziò a strattonarla in giro per il bosco.
Lei puntò i piedi, cercò di dimenarsi, forte della nuova energia conferitole
dal vestito, ma l’altro era più deciso, più arrabbiato e più prestante.
-
Adesso ti porterò a
palazzo e la pagherai! -.
L’afferrò
con violenza per il braccio ma, appena la sua pelle venne a contatto col
vestito magico, si scottò.
La sua ira, a quel punto, accrebbe ancora di più e incurante di danneggiare
anche se stesso il principe con degli strattoni le lacerò le maniche.
-
Hai corrotto col fuoco dei
demoni anche il dono della Fata! – l’accusò. – Sei proprio la feccia
dell’umanità! -.
Aoife rimase così priva della
protezione del vestito.
-
Stai mentendo! – urlò
lei.
-
Quindi sarei un
bugiardo? -.
Le
tirò un sonoro ceffone e lei iniziò a piangere.
-
Portalo a tuo padre
allora! Che sia il re a vedere il vestito e a giudicare! – sputò con rabbia. –
Vedrai che darà ragione a me e tu verrai punito per avermi trattata così,
ingiustamente! -.
A
quelle parole il principe perse quel poco di lume della ragione che gli era
rimasto e la colpì in testa con una pietra più grande delle altre.
Da svenuta riuscì a trasportarla meglio per il bosco e ad arrivare in poco
tempo davanti alle mura del castello. Stava disobbedendo a suo padre, ma non
gli importava: quella viscida dai capelli rossi gli era stata preferita dalla Fata,
aveva osato mangiare senza aspettarlo, aveva conferito poteri maligni all’abito,
aveva osato insinuare che lui mentisse e che il re l’avrebbe difesa e per tutte
quelle sciocchezze meritava una punizione esemplare. Erano stati fin troppo
clementi con quella piccola ingrata e avrebbero dovuto farle ciò che di solito
si faceva negli altri regni: metterla al rogo.
Iniziò
a richiamare l’attenzione delle guardie, intimando loro di farlo entrare perché
portava con sé una prigioniera pericolosa.
Se si fosse trattato di qualcun altro probabilmente i soldati lo avrebbero
gettato in galera senza tanti complimenti per schiamazzi notturni, ma siccome
era il principe, dopo qualche attimo di incertezza dovuto ai precedenti ordini
del re, ritennero più saggio farlo entrare: non solo perché sarebbe stato
difficile difendersi, in un secondo momento, dall’accusa di aver lasciato al
buio, solo, fuori dalle mura, il principe ereditario in compagnia di una
“prigioniera pericolosa”, ma anche e soprattutto perché il loro istinto
suggeriva che il ragazzo sarebbe andato avanti a urlare per tutta la notte
qualora non gli avessero obbedito.
Il
principe fece il suo ingresso nel castello come animato da una furia, entrò
nella Sala del Trono senza tante cerimonie, poiché la Sala non era proibita per
lui, strappò il vestito di dosso ad Aoife e attese
che il padre e i consiglieri lo raggiungessero con urgenza.
Quando
Aoife riprese i sensi dovette sbattere le palpebre un
paio di volte prima di capire di trovarsi al cospetto del re, del principe e di
tutti i consiglieri. Sobbalzò, ma appena si mosse si trovò bloccata da pesanti
catene che le impedivano ogni movimento. Inoltre notò con orrore che qualcuno
doveva averla spogliata, perché al centro della stanza giaceva il suo
bell’abito rosa, mentre lei indossava nuovamente i suoi soliti stracci.
Si
guardò intorno spaesata e impaurita, cercando di capire che cosa stesse
succedendo, ma l’unica risposta che ebbe furono gli sguardi gelidi delle
persone intorno a lei.
-
Che cosa…
che cosa ho fatto? – domandò.
Il re
iniziò allora a sciorinare le “colpe” di cui si era macchiata, non ultima
quella insensata di essere tornata dal bosco prima dell’alba. Lo sapevano tutti
che era stato il principe a tornare e a condurla lì, ma Aoife
intuì che farlo notare avrebbe solo peggiorato la già infelice situazione.
A stupirla, tuttavia, non fu tanto quell’accusa, quanto le calunnie che il
principe si era inventato solo per metterla nei guai ed eliminarla una volta
per tutte.
-
Mio figlio, il principe,
ti ha visto danzare insieme ai tuoi parenti demoni in mezzo alla radura. –
cominciò, severamente. – Hai osato bruciarlo, con i tuoi malefici poteri, e poi
hai osato rubargli il cibo che la Fata Protettrice dei Boschi gli aveva donato.
Non solo, ma tu, con i tuoi loschi compagni, hai aggredito la Fata e lanciato
un maleficio sul suo vestito! -.
-
Non è vero! – proclamò
con disperazione la propria innocenza. – Non è vero, sono bugie. -.
-
Ora osi anche dare del
bugiardo a mio figlio, spazzacamino? – il re scattò in piedi.
Aoife continuò a scuotere la
testa, negando quelle accuse.
-
Sono innocente. Sono
innocente. – ripeteva incessantemente.
Ma sapeva
che i pregiudizi nei suoi confronti erano troppo radicati, che la sentenza era
già stata emessa e che il tempo era giunto infine di liberarsi della figlia dei
demoni.
-
Tu sarai…
-.
Il re
non ebbe il tempo di terminare la frase con la quale l’avrebbe condannata
perché un’abbagliante luce inondò la sala del trono dalle bifore che si
affacciavano sui cortili interni.
-
Non siate frettoloso, o
re. – disse quella che sia Aoife che il principe riconobbero
come la voce della Fata.
Infatti,
un istante dopo, un turbinio di foglie lasciò il posto all’elegante figura
della creatura magica che si era frapposta tra il re e la spazzacamino.
Tutti
i presenti ammutolirono: avevano creduto senza battere ciglio alla storia di
una fata, poiché abituati a credere senza vedere all’esistenza di creature
magiche, ma non avevano considerato il fatto che lei potesse entrare nel
castello. La sua bellezza era splendente, i suoi modi erano garbati e il suo
sorriso era enigmatico.
Istintivamente arretrarono tutti di un passo.
-
È così che conducete i
vostri processi, o re? – lo incalzò con aria velatamente accusatoria.
-
Io… io… - balbettò quello,
improvvisamente incerto.
-
Non le avete nemmeno
dato l’occasione di difendersi. Non avete prove concrete che i fatti si siano
svolti come il vostro sgradevolissimo figlio ha riportato. – proseguì la Fata.
– Ed è meglio lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente, non
credete? -.
Il re
fremeva di rabbia: non voleva schierarsi apertamente contro una fata del bosco,
ma detestava che si criticasse il suo operato e soprattutto che lo si accusasse
di mettere in dubbio quelle stesse regole che tanto orgogliosamente era solito
rispettare. Optò dunque per una risposta diplomatica.
-
È la figlia dei demoni.
Siamo stati fin troppo caritatevoli con lei. – si giustificò.
-
La figlia dei demoni… - la Fata si girò a guardare Aoife.
– La condannereste a morte solo per questo? Per una diceria? Quali prove avete che lo sia? -.
-
Ha i capelli rossi! –
rispose prontamente un consigliere, onorato di andare in aiuto al re.
-
Interessante. – commentò
la Fata. – Qualcosa di un po’ meno… stupido? -.
Nessuno
osò fiatare, nemmeno il figlio del re che ora fissava la Fata con risentimento
pur non osando sbraitarle contro. Ella, infine, iniziò a camminare per la sala,
anche se sembrava che piuttosto fluttuasse nell’aria.
-
Nessuno sa fornirmi una
risposta? – li esortò.
-
Le questioni del regno
non sono affar vostro! – intervenne allora un altro consigliere dalla corta
ispida barba, con risentimento. – Il re è l’autorità assoluta e se lui ritiene
una persona colpevole, allora è così. -.
-
Ma lei è una fata. –
replicò il re, sospirando. – Le fate operano sempre per il bene. – giudicò,
appellandosi alla saggezza popolare. – Così è sempre stato. -.
La Fata
lo fissò divertita, lasciando riecheggiare una risata cristallina.
-
Voi, consiglieri, siete
molto fedeli e, credetemi, trascorrete la vostra intera esistenza a esserlo.
Voi, Vostra Altezza, vi dimostrate ancora una volta vittima dei pregiudizi… ma di quelli sbagliati. -.
Accadde
tutto in un solo istante.
La Fata
si ingigantì fino a distruggere il tetto e i camini presero fuoco
improvvisamente, mentre Aoife, con uno strano
sorriso, fece sciogliere le catene che la tenevano imprigionata, guardando con
sfida l’odiato principe, che aveva iniziato a tremare per la paura.
-
Com’è possibile che una
persona che continuate a seviziare sia così servizievole, eh? – tuonò ella con
una voce terrificante, che sembrava provenire dalle viscere della terra. –
Perché vuole ingannarvi, ecco perché! E se non fosse stati tanto accecati dalla
storia della figlia dei demoni vi sareste accorti che Aoife
è una Fata, nostra alleata! Per anni abbiamo atteso la nostra vendetta, per
anni abbiamo tramato alle vostre spalle per riuscire a rientrare all’interno
delle mura! E ora che ci siamo riuscite vivrete in questo regno decadente,
patirete la fame e la sete, fino a spegnervi e nessuno di coloro che vi
appartiene potrà mai uscire! -.
Aveva
lanciato la sua maledizione: le Ninfe avevano atteso tanto per rientrare nel
loro territorio che aspettare qualche altro anno mentre i loro nemici venivano
fiaccati da stenti non sarebbe stato un grande sacrificio.
La Ninfa scomparve in un fulmine, lasciando che la sua risata riecheggiasse
ancora per qualche istante per le mura.
Il re
e i consiglieri rimasero pietrificati e Aoife si
diresse in tutta tranquillità verso il vestito rosa, mentre i suoi passi
echeggiavano nel silenzio tombale delle pietre, e come lo raccolse questo andò
completamente in cenere, rivelando un talismano rotondo di un verde
scintillante.
-
La speranza di
rientrare. – commentò. – Il talismano. Grazie principe, per averlo portato
nella Sala del Trono. – gli rivolse un sorriso cattivo.
Il
sovrano sembrava spaesato: gli sembrava tutto un brutto sogno.
-
Ma… tu… - faticava anche a mettere
due parole in fila.
-
Una Fata dei Boschi, sì.
– spiegò la fanciulla. – Era giunto per me il tempo di liberare i boschi dalla
presenza delle Ninfe. Mi sono finta umana e debole, per infiltrarmi tra di voi
e capire chi fosse il più allocco da poter cadere in un inganno per riportare
qui il talismano. – i suoi occhi si posarono sulla figura del principe. –
Trovarlo è stato facile. -.
Solo
allora il re comprese chi avesse davvero avuto davanti. Non una fata, come
aveva creduto giudicandola dall’aspetto, ma la Ninfa Suprema e Aoife non era la chiacchierata figlia dei demoni ma una
Fata che aveva liberato le Ninfe.
Ninfe, che, essendosi spezzato l’incantesimo protettivo, stavano scorazzando
per il regno generando il caos, riappropriandosi di ciò che un tempo era loro.
-
Avreste ricevuto un po’
di pietà se fossi stata trattata meglio. - disse Aoife,
con una soddisfazione che non le apparteneva. – Ma siete stati crudeli e
arroganti e gli errori, prima o poi, si pagano. – si rivolse in particolare al
principe. – Viziato e cattivo senza giustificazione, piccolo bullo arrogante, ora
avrai il castigo che meriti per i tuoi comportamenti inqualificabili. -.
Il
principe digrignò i denti e l’istinto di Aoife le
suggerì che stesse per rimettersi a urlare, quindi tese una mano veloce verso
di lui e lanciò un terribile incantesimo.
-
Tu che trovavi sempre un
motivo di lamentela e non ti accontentavi di nulla d’ora in poi sorriderai e
basta, e la tua voce sarà un ragliare, come l’asino che sei, né riuscirai più a
urlare. -.
Le
labbra del principe si sollevarono in un grottesco sorriso forzato.
-
Ti dorranno i muscoli
facciali ogni singolo istante della tua vita e ogni volta che oserai
piagnucolare o tentare di urlare o fare del male scoppierai in fragorose risate
che rimbomberanno nella tua testa come se questa dovesse esplodere. È questa la
mia maledizione e così sia. -.
Concluse
il suo maleficio e riportò la mano contro i fianchi.
-
Torno infine dalle mie
sorelle. Quanto a voi, vostra altezza… - si esibì in
una finta reverenza. - … spero che viviate a lungo. -.
E
quasi come se fosse stata una vera figlia del demoni, Aoife
scomparve tra le fiamme del camino.
Trascorsero
gli anni e le condizioni del regno precipitarono nella miseria.
Le persone morivano di fame, di freddo e di malattie ed erano indifese, perché impossibilitate
a uscire dalle mura per chiedere aiuto; d’altronde, i rari passanti che
capitavano in quelle terre vedevano solo una città abbandonata da cui tenersi
alla larga.
Il re
si spense nel suo letto per stenti e il comando passò al suo crudele e
incontentabile figlio che era quasi diventato pazzo a causa delle risate;
tuttavia persino quel maleficio non era riuscito a modificare la sua natura e
il principe continuò a lamentarsi perché i pasti non erano abbondanti, perché
il castello era sporco, perché le estati erano troppo calde e gli inverni
troppo gelidi. Giunse infine il giorno in cui morì, soffocato dalle sue stesse
irrefrenabili risa.
Allora,
solo allora, la Ninfa Suprema decise di far ritorno nella città e di far
cessare quella condanna di contrappasso, graziando i superstiti con una rapida
e indolore morte. Con le sue Ninfe ripulì le strade dalla polvere e dai
cadaveri putrefatti e riportò la capitale all’oasi incontaminata che era prima
che gli umani la conquistassero, un luogo incantato in cui le creature magiche
avrebbero potuto vivere felici e contente.
-
Guarda, Aoife. – la Ninfa Suprema le mostrò con orgoglio ciò che
avevano creato. – Il lieto fine è grazie a te e al modo in cui hai saputo
recitare la tua parte, fingendoti indifesa anche quando eri sola ma ritenevi di
essere seguita e spiata. -.
Aoife sorrise con modestia.
-
Ho fatto solo il mio
dovere. – si schernì.
-
Hai fatto molto di più.
Questo nuovo equilibrio è destinato a durare per sempre. – sorrise la Ninfa
Suprema, raggiante.
Il sorriso
di Aoife, invece, divenne un ghigno sinistro.
“Ti
sbagli” pensò. “È solo finché noi lo vorremo”.
Il principe era da solo, commiserando la
sua condizione, seduto su un comodo pouf nelle sue stanze private. Sobbalzò
quando udì dei passi.
-
Aoife! – esclamò, chiamandola per nome per la
prima volta.
Aveva una voce sgradevole, interrotta da
ragli.
-
Che cosa ci fai qui? -.
-
Hai sofferto abbastanza. – constatò Aoife.
-
Mi toglierai la maledizione? – domandò l’altro speranzoso. –
Devi toglierla, devi toglierla, DEVI… AHAHAHAHAH! -.
Le sue grida furono stroncate da una risata
a crepapelle che lo fecero piegare in due.
-
In un certo senso. – rispose l’altra, guardandolo
disgustata. – Sono qui per raccontarti una storia, che ti farà morire dal ridere… e che magari ti darà anche un po’ di soddisfazione,
perché avevi ragione su di me. -.
Accompagnò quella rivelazione con un
pauroso sorriso sardonico che le fece brillare gli occhi spiritati.
-
Il vestito rosa da solo non sarebbe stato in grado di
scottarti in quel modo. Non sarei stata mai riuscita, come Fata dei Boschi, a
scappare da tutti i tuoi meschini tentativi di uccidermi nel camino. Non mi
sarei mai salvata dall’avvelenamento da erbe e tantomeno avrei potuto dormire
cullata dalle grida dei prigionieri se non avessi provato una gioia selvaggia
nell’udirle. Le bende, poi, quando mi bruciavo, servivano solo a coprire quanto
velocemente si risanassero le ferite. Il mio lavoro…
il mio lavoro non è mai stato quello di spazzacamino. Il mio vero lavoro è
portare il caos. Sempre. -.
Fece una piccola pausa squadrando la
piccola vittima davanti a lei, come se volesse assicurarsi che recepisse ogni
singola sillaba.
-
Mi sono finta umana, ma umana non ero, e poi mi sono finta
Fata, ma Fata non sono. Le fate protettrici non esistono, ma nessuno lo sa.
Sono solo una nostra copertura, perché il bene è una favola che voi umani
adorate, quando invece non è altro che l’altra faccia del male. E io sono il
male e posso cambiare la mia faccia mille volte e anche qualcuna di più, perché
noi siamo maestri nell’arte dell’inganno. -.
Il principe sgranò gli occhi…
-
Tu… tu sei… - stava
per mettersi a gridare, a chiamare aiuto, ma le risate lo colsero impreparato,
violentemente, rapide a trasformarsi in singhiozzi e sussulti.
Aoife annuì, vittoriosa.
-
Io mi annoio e sono la figlia dei demoni che ha ucciso il
pericoloso principe. -.
Note:
La
storia nasce per il concorso “Racconti al Profumo di Frutta” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, con il pacchetto “Fragola”.
Di seguito
qualche nota alla lettura:
1) Non so
di preciso come Aoife (che si pronucia
quasi come “Ifa”) si sia imposta su di me con la sua
volontà.
All’inizio doveva nascere come fiaba su un bambino viziato e una bambina buona:
la storia si sarebbe conclusa col piccolo principe punito dalla fata, perché le
persone irrecuperabili esistono e il bullismo e i pregiudizi, non hanno mai
giustificazione, e Aoife che avrebbe avuto il suo
lieto fine tra le ninfe del Bosco.
Poi però Aoife mi ha sussurrato: “se invece di
diventare una ninfa fossi una Fata che le aiuta a recuperare il regno?” L’idea
mi è piaciuta, e ho pensato che non avrebbe stravolto la morale che i bulli
vadano puniti e i pregiudizi condannati.
Alla fine Aoife
si è imposta ancora di più e mi ha fatto questa domanda: “e se invece li
ingannassi tutti e il pregiudizio fosse fondato?”.
Ho amato l’idea di una fiaba
al contrario, in cui alla fine il lieto fine appartiene alla “cattiva” e non ai
“buoni”. Il principe è ovviamente cattivo, perché l’avevo immaginato odioso fin
dall’inizio e non ho voluto modificarlo: ha, in un certo senso, avuto quello
che si meritava. E ho voluto farlo in quel modo senza alcun motivo che lo abbia
reso in quel modo: è crudele e arrogante perché è la sua natura, non perché
abbia avuto chissà quale trauma o chissà quale storia strappalacrime alle
spalle.
Il “buono”, paradossalmente,
per come la vedo io, è il re: non condanna nessuno senza avere le prove (cosa
che gli si ritorcerà contro: Aoife avrebbe potuto
scegliere qualsiasi altro regno, ma sceglie quello proprio perché sa che il re
non la condannerebbe mai solo per dicerie) e quando sta per sgarrare a questa
regola sono sufficienti poche parole della Ninfa Suprema per farlo rinsavire, è
vicino a suo figlio, almeno all’inizio, pur restando comunque un uomo vittima
dei pregiudizi della sua società.
Il verde è simbolo di invidia,
ma soprattutto di speranza, mentre il rosa è il colore della positività, che
dona energie e allontana i (fasulli) pensieri distruttivi di Aoife (almeno, su Internet ho trovato che può assumere
questo significato).
2) Le
pesche cotogne sono una specialità di pesca diffusa in Toscana: http://www.regione.toscana.it/
La schiacciata all’olio è un’altra specialità toscana, simile ala
focaccia, ma più bassa, più croccante e più unta.
3) "Fata"
è con la maiuscola quando si riferisce proprio alla Fata presente nel racconto,
con la minuscola quando è riferito a una o più fate in generale.
4) La
povertà è intesa sia come quella d'animo del principe, sia quella in cui versa Aoife ma anche quella che, alla fine, condurrà tutti alla
rovina.
Nel complesso
io mi sono divertita a immaginarla e ringrazio Dollarbaby
per questa opportunità J
A
presto!
Mel