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Autore: MaryMatrix    08/10/2018    5 recensioni
Aoife è una povera spazzacamino che viene continuamente vessata dal piccolo, altezzoso e viziato principe.
I giorni si susseguono uno dopo l'altro e Aoife ormai ha fatto l'abitudine a comportarsi come se fosse invisibile. Finché una notte, per volere del re, si ritroverà nel bel mezzo del Bosco Tetro insieme all'odiato principe e tra fate, ninfe e insidie le cose cambieranno.
Una favola dove non ci sono buoni e cattivi e dove le cose non sono come sembrano. O forse sì.
[Storia partecipante al contest "Racconti al profumo di frutta” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP.]
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La figlia dei demoni

C’era una volta, tanto tempo fa e in un regno molto lontano, un piccolo principe biondo, dall’aspetto paffuto e gli occhi azzurro cielo.           
Nonostante il suo apparire angelico si trattava di un bambino viziato, incontentabile e prepotente: nulla destava il suo interesse come canzonare, oltraggiare e aggredire le persone che riteneva inferiori.           
Il re e la regina cercavano di accontentarlo in tutto, la balia tentava in ogni  modo di imporsi, ma i loro sforzi erano inutili e il castello continuava a essere disturbato dalle sue urla e dai suoi capricci.     
I suoi genitori si rivolsero agli educatori e questi si riunirono, si consultarono, scartabellarono i loro tomi sull’argomento e gettarono la colpa di tutto sul senso di solitudine che doveva, a parer loro, affliggere il bambino.         
Il re e la regina rinunciarono dunque a un modello di istruzione privata a favore di una scuola frequentata da suoi coetanei, con i quali, si auspicavano, avrebbe stretto dei legami; purtroppo le cose presero una piega diversa e il piccolo principe si trasformò in un piccolo bullo che vessava di continuo gli altri bambini.          
Preoccupati per questo suo atteggiamento il re e la regina lo ritirarono dalla scuola e di nuovo chiesero consiglio agli educatori: questi si riunirono, si consultarono, scartabellarono i loro tomi sull’argomento e giunsero alla conclusione, sbagliata, che il nobil pargolo avesse bisogno di più affetto.        
Suo padre iniziò allora a sottrarre tempo agli impegni reali per curarsi della sua educazione e sua madre divenne sua compagna di giochi. Ma le lune si susseguirono e il caratteraccio del principe non accennò a cambiare.     
Affranti, i due genitori ricorsero per la terza volta all’aiuto degli educatori, i quali si riunirono, si consultarono, scartabellarono i loro tomi sull’argomento e il loro verdetto fu che a quel bambino servisse una maggior disciplina.     
Il re e la regina, certi di far bene, avanzarono con decisione qualche “no!” ai suoi capricci, lo misero qualche volta in punizione. Così, però, instillarono il lui il risentimento, sentimento negativo che iniziò a riversare con crudeltà sui servi sfortunati che avevano a che fare con lui.     
La balia, sfinita, si licenziò.          
Il re la pregò di restare, di desistere dal suo intento, le promise ricchezze e un titolo nobiliare, la minacciò di inseguirla dovunque sarebbe andata, e, a ogni modo, dove mai sarebbe andata? Ma lei continuò imperterrita a fare il suo piccolo bagaglio, perché “anche vivere sotto un ponte è sicuramente meglio che stare a fianco di quel piccolo mostro”.      
Non fu l’unica a preferire la strada alla situazione che si era creata nel castello e, dopo qualche anno, i servi rimasti non erano più che una ventina, un’inezia considerate le dimensioni del regno e della città capitale.        

Tra di loro c’era una piccola spazzacamini di nome Aoife.     
Era questa un’orfanella dalla corporatura minuta e dagli arruffati capelli rossi che le erano valsi l’abbandono da parte dei genitori, il poco simpatico nomignolo di “figlia dei demoni” e il lavoro di spazzacamino, perché la fuliggine era universalmente riconosciuta come un elemento che si confaceva a una figlia di un demone.        
Con un po’ di fortuna, poi, un bel giorno sarebbe accidentalmente precipitata tra le fiamme a cui apparteneva, o almeno questo era ciò che si auspicavano i più. Non per cattiveria, si intende, ma per spirito di sopravvivenza: per scoprire il motivo di questo infausto augurio il lettore dovrà fare un ulteriore sforzo e tornare ancora indietro di molti più anni, quando il lussureggiante regno non era affatto abitato da uomini, ma da creature dotate di poteri magici, chiamate Ninfe, che conducevano la propria esistenza con estrema tranquillità.

Questa idilliaca situazione perdurò finché i demoni, esseri malvagi che si divertivano a spargere il caos, istigarono gli uomini contro le Ninfe, facendo loro credere che fossero pericolose e convincendoli che la terra in cui esse vivevano appartenesse in realtà a loro. Privi di poteri magici, ma dotati di un grande numero, di un soddisfacente intelletto, e di una naturale ripugnanza per qualsiasi tipo di scrupolo, gli uomini, convinti di essere stati derubati, riuscirono ad avere la meglio sulle Ninfe e le segregarono al di fuori dei confini delle città, nei boschi selvaggi e nelle lande desolate; la Ninfa Suprema, a cui tutte le Ninfe facevano riferimento, nel tentativo di far rinsavire gli umani manipolati dai demoni, provò a scontrarsi direttamente contro questi ultimi. Il risultato di questa impresa spavalda fu solo di essere esiliata e maledetta: né lei, né le altre Ninfe, avrebbero potuto mettere più piede in una città umana.      
La maledizione, tuttavia, non era eterna: poiché ai demoni la pace proprio non piaceva e prevedevano che in un futuro forse non troppo lontano l’equilibrio si sarebbe nuovamente ribaltato, separarono la Ninfa Suprema dalla sua anima, custodendo quest’ultima in un talismano verde smeraldo, che per lei avrebbe rappresentato la speranza: qualora il talismano fosse riuscito a entrare, per mano di un umano, nella Sala del Trono del re, allora il sigillo demoniaco si sarebbe spezzato e le Ninfe avrebbero riacquistato la capacità di entrare nelle città degli uomini.  

La leggenda veniva tramandata di generazione in generazione perché nessuno si dimenticasse che chiunque si aggirasse con fare sospetto per le strade, avesse qualcosa di diverso o si dilettasse troppo con le erbe del bosco finisse per direttissima bruciato su un rogo, con l’accusa di essere stato corrotto delle Ninfe nemiche; inoltre solo pochi eletti avevano accesso alla sala del trono e venivano accuratamente perquisiti prima di mettervi dentro anche un solo alluce.           
Sfortunatamente (o fortunatamente, a seconda dei punti di vista) Aoife si teneva sempre ben lontana dalla Sala del Trono e non capiva proprio nulla di erbe. Le avevano teso qualche tranello, nel dubbio che fingesse, ma l’unica cosa che la spazzacamino aveva dimostrato era di non sapere nemmeno distinguere le erbe velenose da quelle commestibili: dopo essersi quasi avvelenata e aver scampato la morte per miracolo, anche le malelingue più indefesse furono costrette a riconoscere che etichettarla come strega fosse del tutto insensato.  
Ma poiché le esigenze del quieto vivere e dell’ordine interno esigevano che tutti avessero un’etichetta e tutti quei suoi capelli rossi erano davvero inusuali, i consiglieri trovarono la soluzione alla strana comparsa di Aoife in un’altra leggenda, plausibile derivazione della prima, secondo cui i demoni avrebbero lasciato nel mondo alcuni dei loro figli affinché continuassero a sconvolgere l’ordine delle cose. Di fatto, aveva mai preso in castagna Aoife intenta a sconvolgere un qualsiasi tipo di ordine e dunque, in mancanza di prove che confermassero quelle loro dicerie, si erano rassegnati a tollerare la presenza della spazzacamino.                  
Le persone di quel regno erano infatti malfidate, malelingue e ipocrite, ma non troppo ingiuste e mai avrebbero condannato a morte un innocente senza prove concrete: il re era irremovibile su questo aspetto, perché credeva che la giustizia fosse il pernio per vivere in un mondo migliore e detestava la superficialità con cui alcuni suoi colleghi di altri regni mandavano a morire persone innocenti.         
Aoife, in fin dei conti, era stata fortunata a capitare in un posto dove, anche se la guardavano storto, generalmente non tentavano di ammazzarla.

Generalmente perché, nella totale indifferenza degli altri, riceveva mille soprusi dal principe, il quale l’aveva eletta a suo bersaglio preferito: quante volte, mentre si trovava in equilibrio precario a ripulire una canna fumaria, il principe accendeva il fuoco e lei era costretta ad arrampicarsi in fretta per non finire soffocata dai fumi o, peggio, arsa viva? Inoltre, tormentarla lo metteva di così buon umore da lasciare in pace il resto della corte, che quindi si guardava bene dal distrarlo da quel perverso divertimento.           
All’inizio Aoife aveva denunciato la violenza, ma era stata zittita e additata di irriconoscenza, perché una figlia dei demoni era addirittura indegna di vivere.      
Nonostante ciò, la fanciulla non osava abbandonare quella che considerava “casa”: chi altri le avrebbe offerto un lavoro? Almeno lì aveva un poco da mangiare e un posto dove dormire, anche se si trattava delle umide, sporche e muffose cantine, vicino alla prigioni. Niente ninna nanne per Aoife, ma urla di dolore a cullare il suo sonno.           
Imparò ben presto a tacere, a non dare confidenza e a svolgere il suo lavoro cercando di passare il più inosservata possibile, raccogliendo i capelli e coprendoli con un velo nero.    
Finché un freddo pomeriggio di marzo, quando il gelo si placa, le piogge inumidiscono l’ambiente e i boccioli di rosa iniziano a comparire nei giardini, qualcosa non andò per il verso giusto: Aoife era impegnata ad accendere i camini necessari a far riscaldare il salone in vista della cena e si accorse che il principe era scivolato furtivamente alle sue spalle solo quando percepì che qualcosa di molto rovente era venuto a contatto con la sua gamba.

-         AH! – Aoife lanciò un breve urlo di dolore accasciandosi sul pavimento.

Il principe la sovrastò brandendo un bollente attizzatoio.

-         Mi annoio. – spiegò con un tono cattivo. – Voglio giocare all’eroe che uccide il pericoloso demone! -.

Aoife spalancò gli occhi, inorridita e certa che lui avrebbe portato a compimento quel suo piano malvagio.   
Quando la colpì sul braccio, mantenendo  il contatto con la sua pelle più a lungo, gridò nuovamente come una forsennata nella vana speranza che qualcuno la udisse e provasse pietà.       

-         Chissà se i tuoi occhi resistono al fuoco più della tua pelle. -.

Il principe si fece sempre più vicino con l’aria già trionfante. Ma…

-         Adesso basta! – tuonò una voce.

Quella del re.           
Aoife non aveva osato sperare in un aiuto così inaspettato e, infatti, quell’intervento non era per lei.

-         Figlio, questo è troppo! – proseguì il re con voce severa, senza degnare la spazzacamino di uno sguardo. – Il barone Dhuin mi ha appena riferito che hai di nuovo sbeffeggiato suo figlio e… che cosa sta succedendo qui? – solo allora sembrò notarla. – In piedi, figlia dei demoni, stai imbrattando il pavimento di sangue e fuliggine! -.

La giovane si sentì umiliata e insultata da quelle parole. Si domandò come il re potesse ignorare ciò che stava succedendo e si concesse qualche altro momento a terra, considerando che il sovrano fosse troppo occupato a redarguire l’odioso principe per preoccuparsi seriamente della sguattera e del tappeto.

-         Non ti avevamo forse detto che non avremmo tollerato altri affronti ai tuoi nobili coetanei? Che ne avresti pagato le conseguenze? Trascorrerai la notte nel Bosco Tetro e non importa se sei mio figlio, non ci saranno guardie a proteggere la tua incolumità! -.

A quelle parole il principe diventò paonazzo e iniziò a urlare le sue lamentele.

-         Non è giusto! NON È GIUSTO, IO SONO IL PRINCIPE E LUI SOLO UNO STUPIDO! NON È GIUSTO, NON VOGLIO, NON È GIUSTO! – accompagnò quella tiritera con pugni e calci per terra, si aggrappò alle vesti del genitore, pianse e si dimenò come se fosse stato posseduto.

Il re perse la pazienza e chiamò le guardie reali perché lo portassero nel bosco, lontano il più possibile dalle sue orecchie.

Nel frattempo Aoife aveva approfittato di tutta quella baraonda per dileguarsi senza dare nell’occhio. Avanzò per i corridoi e impiegò molto più tempo del solito a raggiungere il suo giaciglio. Non aveva acqua, né bende. Chiederle a qualcuno era fuori discussione, non le avrebbero mai sprecate per lei: l’unica scelta che le si prospettava era quella di rubarle o sarebbero stati guai.             
Ancora una volta, però, il destino sembrò avere progetti diversi per lei e le si pararono davanti due sagome dall’aria minacciosa, le guardie del re.

-         Dobbiamo portarti via. – le annunciò una di loro, con aria grave. – Non hai acceso tutti i camini del salone e i signori patiscono il freddo. -.

Aoife non provò a ribellarsi, non tentò di far notare che, in quelle condizioni, non avrebbe potuto portare a termine il suo compito, e di certo non si sognò di dire che il re era perfettamente a conoscenza del motivo del suo “errore” di quella sera: opporsi non sarebbe servito a niente, se non a perdere tempo ed energie.      
Cercò di alzarsi e, impiegando troppo tempo, una delle guardie l’afferrò malamente per una spalla e la costrinse a stare in piedi; la condussero via con la forza e lei si fece trascinare in silenzio.          
Continuarono a camminare, varcarono le soglie del castello e poi quelle delle mura, fino ad arrivare al principio del Bosco Tetro.

-         Resterai qui dentro. – sentenziò una delle guardie. – Con il principe. – si premurò di specificare.

Di nuovo la ragazzina non replicò e lasciò che le guardie l’abbandonassero a se stessa.       
Lanciò poi un’occhiata incerta al folto del bosco e si domandò se fosse davvero pieno di Ninfe come si narrava. Di certo il nome affibbiato a quell’insieme di alberi gli rendeva giustizia, perché il Bosco Tetro era, effettivamente, tetro, con quelle ombre spaventose, i rumori inquietanti, le fitte fronde e gli arbusti che potevano celare qualsiasi pericolo.        Non riuscì però ad avvistare il pericolo numero uno, il principe, da nessuna parte e pensò che lo stolto si fosse inoltrato nel folto, mentre lei ritenne più saggio restare sul limitare. Stava giusto cercando un riparo, magari un anfratto tra qualche robusta radice, quando udì delle grida tremendamente fastidiose che frantumarono la quiete notturna e fecero scappare gli animali: diversi uccelli si levarono in volo e persino un paio di scoiattoli vicino al suo albero corsero via. Aoife tentò di ignorare il principe, ma, dopo qualche minuto, la sua pazienza raggiunse il limite: sentendosi investita della missione di ripristinare la pace del bosco si alzò in piedi con aria battagliera e afferrò un bastone che l’avrebbe aiutata a procedere.  

Trovare l’arrogante principe non fu affatto arduo e quando lui la scorse poco ci mancò che le si scagliasse addosso. Aoife, tuttavia, non vacillò davanti a lui: si trovavano in un ambiente sconosciuto, ostile e, soprattutto, viziato com’era, il principe non avrebbe avuto la minima speranza di sopravvivere senza il suo aiuto.

-         Fossi in te terrei la bocca la chiusa. – gli suggerì, con calma. – O rischierai di attirare qualche fiera. -.

-         Illusa. – ribatté lui. – Credi davvero che mi abbiano lasciato nel bosco senza protezione? Che cosa ne può sapere una stupida come te? Sarà di certo pieno di guardie tutt’intorno. -.

Aoife lo guardò non troppo convinta.

-         Non c’è nessuno. – lo informò con calma. – Non ho scorto alcuna guardia mentre venivo qui. Ho fatto molta attenzione. -.

-         Loro sono addestrate, cosa credi? Non si fanno mica sorprendere da te. -.

La spazzacamino si limitò a scuotere la testa in segno di diniego e rassegnazione: avrebbero potuto trascorrere tutta la notte a discuterne ma non sarebbe servito a niente. Optò dunque per cambiare argomento.

-         Ho trovato un anfratto sicuro sul limitare del bosco, potremmo passare la notte lì. – propose.

Ma lui la ignorò del tutto.

-         Ho fame. – si lagnò invece. - Non ho cenato ed è tutta colpa tua! -.

-         Colpa mia? -.

-         Proprio così! È colpa tua se mio padre mi ha trovato così facilmente, tua e delle tue urla. -.

La spazzacamino non trovò parole per ribattere a una tale insensatezza.

-         Vai a trovare da mangiare! – ordinò lui.

-         Ma riesco a malapena a camminare. –.

Il principe raccolse allora da terra un enorme ramo che aveva l’aria di far davvero male.

-         Vai o ti picchio con questo, figlia dei demoni. – la minacciò con calma. – Non ti aiuterà nessuno. -.

Aoife si ritrasse spaventata, come un animale maltrattato si ritrae quando vede il bastone. Chinò la testa, in segno di remissività.        

-         Va bene. – acconsentì. – Vado. -.

Almeno si sarebbe tenuta un po’ a distanza dal principe e si sarebbe di nuovo fatta avvolgere dalla pace della foresta.
Nel suo procedere scorgeva ombre sinistre e udiva inquietanti scricchiolii: cercava di ignorarli e di focalizzare la propria attenzione sulle piante che aveva intorno per capire se fossero commestibili. Si teneva ben lontana da tutte quelle che non conosceva e, poco prima di perdere la speranza, scorse delle colorate fragoline di bosco spuntare da un cespuglio: non erano molte, ma erano grosse e facevano venire l’acquolina in bocca solo a guardarle.     
Aoife allungò velocemente la mano per afferrarne qualcuna, ma si bloccò all’improvviso.

“Le fragole sono davvero poche” pensò. “Se ne porto al principe anche solo una in meno ricomincerà a urlare e di nuovo disturberà tutto. Meglio la fame.”

Iniziò la raccolta con delicatezza, con meticolosità, attenta a non sprecare nemmeno un frutto mentre infilava le fragole una per una nelle tasche sgualcite del suo vestito logoro. Fu uno sforzo inutile perché all’improvviso si sentì buttare per terra: le fragole si schiacciarono, andando irrimediabilmente perdute. Aoife, paralizzata per lo spavento, si voltò molto lentamente, per scoprire che il suo aggressore non era altri che il principe stesso.

-         È questo ciò che volevi dare al tuo principe? Qualche misera fragola? -.

Si chinò e l’afferrò per il colletto, scrollandola e ripetendole che avrebbe solo dovuto vergognarsi. Non contento, le strappò via il mantello.

-         Ho freddo! Alzati e sbrigati a prendere qualcosa di decente per cena. -.

Aoife, però, non aveva davvero più la forza di alzarsi. Si sforzò di procedere in ginocchio, allontanandosi quel tanto che bastava da lui per non farsi più vedere e si abbandonò al terreno. Il fresco odore della terra la colpì, ma non abbastanza da solleticare i suoi sensi. Era stanca, era priva di forze e si concesse di chiudere gli occhi. 
Si ripeté che era un bel posto per chiudere gli occhi, lontano dalle dicerie, dalle superstizioni, dal giudizio impietoso delle persone. In un certo senso quel bosco era simile a lei: con una brutta fama, evitato da tutti, ma, apparentemente, innocuo. Accarezzò l’erba con le mani, come per trovare un conforto. Si rannicchiò su se stessa per proteggersi dal fresco e dall’umido. Le palpebre erano pesanti e comprese che si stava addormentando davvero: decise di non combattere il sonno. Si rannicchiò ancora di più ma, proprio quando stava per cedere, una strana luce chiara apparve dal nulla e una voce gentile che veniva dal bosco la chiamava.

-         Aoife… Aoife! -.

La spazzacamino riuscì ad alzare appena la testa quel tanto che bastava per osservare la luce.

-         Che cosa sei? – domandò. – Sei forse un demone? -.

La voce eruppe in una risata cristallina.

-         No, Aoife. Io sono una fata. -.

La luce iniziò a mutare, assumendo le sembianze di una donna meravigliosa, longilinea, alta, con lunghi capelli biondi sciolti in morbide onde che le incorniciavano il volto e il suo vestito era fatto di foglie.

-         Sono la Protettrice delle piante del Bosco: la mia magia opera il bene e protegge queste terre dalle azioni nefaste delle Ninfe. -.

-         Siete bellissima... – commentò Aoife istintivamente. – Ma siete anche reale? Sono morta? -.

La creatura eterea le sorrise.

-         No, Aoife. Non sei morta e io sono reale. Così reale che anche l’incantesimo che ti farò lo sarà. -.

A un suo semplice schiocco di dita rispose prontamente un vortice di lucciole che iniziò a ruotare intorno alla spazzacamino: la fuliggine volò via, lo sporco fu scrostato, le ferite risanate e, infine, si ritrovò avvolta in un pesante vestito rosa, nuovo, dalle maniche decorate con fili d’oro.       
Aoife non sapeva che cosa dire e si prostrò in un fiume di ringraziamenti che non finiva più. Non aveva mai posseduto un vestito così bello e così caldo nella sua esistenza umana.        
L’entusiasmo, tuttavia, scemò rapidamente appena la realtà tornò con prepotenza nei suoi pensieri.

-         Vi ringrazio molto per la vostra premura. – ripeté per l’ennesima volta. – Ma se mi vedessero con questo abito mi accuserebbero di averlo rubato e se si accorgessero che le mie ferite sono sparite mi ucciderebbero: avrebbero la conferma che sono la figlia dei demoni. -.

Fece un passo indietro.

-         Non posso accettare. – la razionalità aveva vinto sulla gioia.

La Fata, tuttavia, le sorrise.

-         Il vestito di cui ti ho fatto dono oggi è fatato, Aoife. – iniziò la fata. – Il rosa allontana i pensieri cupi e la sua energia ti impedirà di addormentarti nel bosco e di cedere. Ogni volta che sarai sul punto di non farcela, invoca il vestito e questo ti ridarà la forza. -.

Aoife annuì, estremamente riconoscente.

-         Siete gentile, fata. – abbassò la testa. – Non dovreste sprecare il vostro tempo con me. Perché mi state salvando? -.

-         Perché il tuo animo è buono, Aoife. Buono, ma triste. – la Fata le si avvicinò e le sollevò il mento per far sì di guardarla negli occhi. – Il bosco accoglierà sempre le persone buone e ci sarà sempre posto per te. -.

Infine fece apparire dal nulla una cesta di vimini traboccante di frutta, pane e dolci: fragole e ciliegie, vellutate pesche cotogne e succose susine claudie, mele fresche, una crostata che straboccava di marmellata che sembrava fatta apposta per impiastricciarci le dita e schiacciatine all’olio ben unte e salate.

La spazzacamino le rivolse un’occhiata stupefatta, perché non aveva mai avuto tanto cibo a disposizione e non avrebbe saputo cosa assaggiare per primo.

-         Grazie… -.

La fata annuì e con un ultimo sorriso si dissolse nel vento, lasciandola sola.

Aoife impiegò qualche istante per riprendersi da quell’incontro surreale, poi si ricordò di dover raggiungere il principe. Non dovette faticare molto, perché quest’ultimo l’aveva nuovamente seguita e si era nascosto tra i cespugli al’apparire della Fata; quello che era successo dopo lo aveva reso verde d’invidia: perché la Fata aveva fatto dei doni alla sudicia figlia dei demoni e non si era invece mostrata a lui, figlio del re?      
La gelosia lo divorava, fissò Aoife con odio e quando la vide addentare una schiacciata, prima che lei potesse rimettersi in marcia per cercarlo e sfamarlo, lui balzò fuori dalle frasche e iniziò a tirarle dei sassi.

-         MALEDETTA! – le gridò. – Osi rubare il cibo per il tuo principe! -.

Aoife tossì per il boccone andatole di traverso e cercò di ripararsi alla bell’è meglio. I suoi tentativi non servirono a nulla e non poté opporsi quando il principe la prese per mano e iniziò a strattonarla in giro per il bosco.        
Lei puntò i piedi, cercò di dimenarsi, forte della nuova energia conferitole dal vestito, ma l’altro era più deciso, più arrabbiato e più prestante.

-         Adesso ti porterò a palazzo e la pagherai! -.

L’afferrò con violenza per il braccio ma, appena la sua pelle venne a contatto col vestito magico, si scottò.     
La sua ira, a quel punto, accrebbe ancora di più e incurante di danneggiare anche se stesso il principe con degli strattoni le lacerò le maniche.

-         Hai corrotto col fuoco dei demoni anche il dono della Fata! – l’accusò. – Sei proprio la feccia dell’umanità! -.

Aoife rimase così priva della protezione del vestito.

-         Stai mentendo! – urlò lei.

-         Quindi sarei un bugiardo? -.

Le tirò un sonoro ceffone e lei iniziò a piangere.

-         Portalo a tuo padre allora! Che sia il re a vedere il vestito e a giudicare! – sputò con rabbia. – Vedrai che darà ragione a me e tu verrai punito per avermi trattata così, ingiustamente! -.

A quelle parole il principe perse quel poco di lume della ragione che gli era rimasto e la colpì in testa con una pietra più grande delle altre.            
Da svenuta riuscì a trasportarla meglio per il bosco e ad arrivare in poco tempo davanti alle mura del castello. Stava disobbedendo a suo padre, ma non gli importava: quella viscida dai capelli rossi gli era stata preferita dalla Fata, aveva osato mangiare senza aspettarlo, aveva conferito poteri maligni all’abito, aveva osato insinuare che lui mentisse e che il re l’avrebbe difesa e per tutte quelle sciocchezze meritava una punizione esemplare. Erano stati fin troppo clementi con quella piccola ingrata e avrebbero dovuto farle ciò che di solito si faceva negli altri regni: metterla al rogo.

Iniziò a richiamare l’attenzione delle guardie, intimando loro di farlo entrare perché portava con sé una prigioniera pericolosa.    
Se si fosse trattato di qualcun altro probabilmente i soldati lo avrebbero gettato in galera senza tanti complimenti per schiamazzi notturni, ma siccome era il principe, dopo qualche attimo di incertezza dovuto ai precedenti ordini del re, ritennero più saggio farlo entrare: non solo perché sarebbe stato difficile difendersi, in un secondo momento, dall’accusa di aver lasciato al buio, solo, fuori dalle mura, il principe ereditario in compagnia di una “prigioniera pericolosa”, ma anche e soprattutto perché il loro istinto suggeriva che il ragazzo sarebbe andato avanti a urlare per tutta la notte qualora non gli avessero obbedito.

Il principe fece il suo ingresso nel castello come animato da una furia, entrò nella Sala del Trono senza tante cerimonie, poiché la Sala non era proibita per lui, strappò il vestito di dosso ad Aoife e attese che il padre e i consiglieri lo raggiungessero con urgenza.

Quando Aoife riprese i sensi dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di capire di trovarsi al cospetto del re, del principe e di tutti i consiglieri. Sobbalzò, ma appena si mosse si trovò bloccata da pesanti catene che le impedivano ogni movimento. Inoltre notò con orrore che qualcuno doveva averla spogliata, perché al centro della stanza giaceva il suo bell’abito rosa, mentre lei indossava nuovamente i suoi soliti stracci.

Si guardò intorno spaesata e impaurita, cercando di capire che cosa stesse succedendo, ma l’unica risposta che ebbe furono gli sguardi gelidi delle persone intorno a lei.

-         Che cosa… che cosa ho fatto? – domandò.

Il re iniziò allora a sciorinare le “colpe” di cui si era macchiata, non ultima quella insensata di essere tornata dal bosco prima dell’alba. Lo sapevano tutti che era stato il principe a tornare e a condurla lì, ma Aoife intuì che farlo notare avrebbe solo peggiorato la già infelice situazione.    
A stupirla, tuttavia, non fu tanto quell’accusa, quanto le calunnie che il principe si era inventato solo per metterla nei guai ed eliminarla una volta per tutte.

-         Mio figlio, il principe, ti ha visto danzare insieme ai tuoi parenti demoni in mezzo alla radura. – cominciò, severamente. – Hai osato bruciarlo, con i tuoi malefici poteri, e poi hai osato rubargli il cibo che la Fata Protettrice dei Boschi gli aveva donato. Non solo, ma tu, con i tuoi loschi compagni, hai aggredito la Fata e lanciato un maleficio sul suo vestito! -.

-         Non è vero! – proclamò con disperazione la propria innocenza. – Non è vero, sono bugie. -.

-         Ora osi anche dare del bugiardo a mio figlio, spazzacamino? – il re scattò in piedi.

Aoife continuò a scuotere la testa, negando quelle accuse.

-         Sono innocente. Sono innocente. – ripeteva incessantemente.

Ma sapeva che i pregiudizi nei suoi confronti erano troppo radicati, che la sentenza era già stata emessa e che il tempo era giunto infine di liberarsi della figlia dei demoni.

-         Tu sarai… -.

Il re non ebbe il tempo di terminare la frase con la quale l’avrebbe condannata perché un’abbagliante luce inondò la sala del trono dalle bifore che si affacciavano sui cortili interni.

-         Non siate frettoloso, o re. – disse quella che sia Aoife che il principe riconobbero come la voce della Fata.

Infatti, un istante dopo, un turbinio di foglie lasciò il posto all’elegante figura della creatura magica che si era frapposta tra il re e la spazzacamino.

Tutti i presenti ammutolirono: avevano creduto senza battere ciglio alla storia di una fata, poiché abituati a credere senza vedere all’esistenza di creature magiche, ma non avevano considerato il fatto che lei potesse entrare nel castello. La sua bellezza era splendente, i suoi modi erano garbati e il suo sorriso era enigmatico.         
Istintivamente arretrarono tutti di un passo.

-         È così che conducete i vostri processi, o re? – lo incalzò con aria velatamente accusatoria.

-         Io… io… - balbettò quello, improvvisamente incerto.

-         Non le avete nemmeno dato l’occasione di difendersi. Non avete prove concrete che i fatti si siano svolti come il vostro sgradevolissimo figlio ha riportato. – proseguì la Fata. – Ed è meglio lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente, non credete? -.

Il re fremeva di rabbia: non voleva schierarsi apertamente contro una fata del bosco, ma detestava che si criticasse il suo operato e soprattutto che lo si accusasse di mettere in dubbio quelle stesse regole che tanto orgogliosamente era solito rispettare. Optò dunque per una risposta diplomatica.

-         È la figlia dei demoni. Siamo stati fin troppo caritatevoli con lei. – si giustificò.

-         La figlia dei demoni… - la Fata si girò a guardare Aoife. – La condannereste a morte solo per questo? Per una diceria? Quali prove avete che lo sia? -.

-         Ha i capelli rossi! – rispose prontamente un consigliere, onorato di andare in aiuto al re.

-         Interessante. – commentò la Fata. – Qualcosa di un po’ meno… stupido? -.

Nessuno osò fiatare, nemmeno il figlio del re che ora fissava la Fata con risentimento pur non osando sbraitarle contro. Ella, infine, iniziò a camminare per la sala, anche se sembrava che piuttosto fluttuasse nell’aria.

-         Nessuno sa fornirmi una risposta? – li esortò.

-         Le questioni del regno non sono affar vostro! – intervenne allora un altro consigliere dalla corta ispida barba, con risentimento. – Il re è l’autorità assoluta e se lui ritiene una persona colpevole, allora è così. -.

-         Ma lei è una fata. – replicò il re, sospirando. – Le fate operano sempre per il bene. – giudicò, appellandosi alla saggezza popolare. – Così è sempre stato. -.

La Fata lo fissò divertita, lasciando riecheggiare una risata cristallina.

-         Voi, consiglieri, siete molto fedeli e, credetemi, trascorrete la vostra intera esistenza a esserlo. Voi, Vostra Altezza, vi dimostrate ancora una volta vittima dei pregiudizi… ma di quelli sbagliati. -.

Accadde tutto in un solo istante.

La Fata si ingigantì fino a distruggere il tetto e i camini presero fuoco improvvisamente, mentre Aoife, con uno strano sorriso, fece sciogliere le catene che la tenevano imprigionata, guardando con sfida l’odiato principe, che aveva iniziato a tremare per la paura.

-         Com’è possibile che una persona che continuate a seviziare sia così servizievole, eh? – tuonò ella con una voce terrificante, che sembrava provenire dalle viscere della terra. – Perché vuole ingannarvi, ecco perché! E se non fosse stati tanto accecati dalla storia della figlia dei demoni vi sareste accorti che Aoife è una Fata, nostra alleata! Per anni abbiamo atteso la nostra vendetta, per anni abbiamo tramato alle vostre spalle per riuscire a rientrare all’interno delle mura! E ora che ci siamo riuscite vivrete in questo regno decadente, patirete la fame e la sete, fino a spegnervi e nessuno di coloro che vi appartiene potrà mai uscire! -.

Aveva lanciato la sua maledizione: le Ninfe avevano atteso tanto per rientrare nel loro territorio che aspettare qualche altro anno mentre i loro nemici venivano fiaccati da stenti non sarebbe stato un grande sacrificio.      
La Ninfa scomparve in un fulmine, lasciando che la sua risata riecheggiasse ancora per qualche istante per le mura.

Il re e i consiglieri rimasero pietrificati e Aoife si diresse in tutta tranquillità verso il vestito rosa, mentre i suoi passi echeggiavano nel silenzio tombale delle pietre, e come lo raccolse questo andò completamente in cenere, rivelando un talismano rotondo di un verde scintillante.

-         La speranza di rientrare. – commentò. – Il talismano. Grazie principe, per averlo portato nella Sala del Trono. – gli rivolse un sorriso cattivo.

Il sovrano sembrava spaesato: gli sembrava tutto un brutto sogno.

-         Ma… tu… - faticava anche a mettere due parole in fila.

-         Una Fata dei Boschi, sì. – spiegò la fanciulla. – Era giunto per me il tempo di liberare i boschi dalla presenza delle Ninfe. Mi sono finta umana e debole, per infiltrarmi tra di voi e capire chi fosse il più allocco da poter cadere in un inganno per riportare qui il talismano. – i suoi occhi si posarono sulla figura del principe. – Trovarlo è stato facile. -.

Solo allora il re comprese chi avesse davvero avuto davanti. Non una fata, come aveva creduto giudicandola dall’aspetto, ma la Ninfa Suprema e Aoife non era la chiacchierata figlia dei demoni ma una Fata che aveva liberato le Ninfe.  
Ninfe, che, essendosi spezzato l’incantesimo protettivo, stavano scorazzando per il regno generando il caos, riappropriandosi di ciò che un tempo era loro.

-         Avreste ricevuto un po’ di pietà se fossi stata trattata meglio. - disse Aoife, con una soddisfazione che non le apparteneva. – Ma siete stati crudeli e arroganti e gli errori, prima o poi, si pagano. – si rivolse in particolare al principe. – Viziato e cattivo senza giustificazione, piccolo bullo arrogante, ora avrai il castigo che meriti per i tuoi comportamenti inqualificabili. -.

Il principe digrignò i denti e l’istinto di Aoife le suggerì che stesse per rimettersi a urlare, quindi tese una mano veloce verso di lui e lanciò un terribile incantesimo.

-         Tu che trovavi sempre un motivo di lamentela e non ti accontentavi di nulla d’ora in poi sorriderai e basta, e la tua voce sarà un ragliare, come l’asino che sei, né riuscirai più a urlare. -.

Le labbra del principe si sollevarono in un grottesco sorriso forzato.

-         Ti dorranno i muscoli facciali ogni singolo istante della tua vita e ogni volta che oserai piagnucolare o tentare di urlare o fare del male scoppierai in fragorose risate che rimbomberanno nella tua testa come se questa dovesse esplodere. È questa la mia maledizione e così sia. -.

Concluse il suo maleficio e riportò la mano contro i fianchi.

-         Torno infine dalle mie sorelle. Quanto a voi, vostra altezza… - si esibì in una finta reverenza. - … spero che viviate a lungo. -.

E quasi come se fosse stata una vera figlia del demoni, Aoife scomparve tra le fiamme del camino.

Trascorsero gli anni e le condizioni del regno precipitarono nella miseria.        
Le persone morivano di fame, di freddo e di malattie ed erano indifese, perché impossibilitate a uscire dalle mura per chiedere aiuto; d’altronde, i rari passanti che capitavano in quelle terre vedevano solo una città abbandonata da cui tenersi alla larga.

Il re si spense nel suo letto per stenti e il comando passò al suo crudele e incontentabile figlio che era quasi diventato pazzo a causa delle risate; tuttavia persino quel maleficio non era riuscito a modificare la sua natura e il principe continuò a lamentarsi perché i pasti non erano abbondanti, perché il castello era sporco, perché le estati erano troppo calde e gli inverni troppo gelidi. Giunse infine il giorno in cui morì, soffocato dalle sue stesse irrefrenabili risa.

Allora, solo allora, la Ninfa Suprema decise di far ritorno nella città e di far cessare quella condanna di contrappasso, graziando i superstiti con una rapida e indolore morte. Con le sue Ninfe ripulì le strade dalla polvere e dai cadaveri putrefatti e riportò la capitale all’oasi incontaminata che era prima che gli umani la conquistassero, un luogo incantato in cui le creature magiche avrebbero potuto vivere felici e contente.

-         Guarda, Aoife. – la Ninfa Suprema le mostrò con orgoglio ciò che avevano creato. – Il lieto fine è grazie a te e al modo in cui hai saputo recitare la tua parte, fingendoti indifesa anche quando eri sola ma ritenevi di essere seguita e spiata. -.

Aoife sorrise con modestia.

-         Ho fatto solo il mio dovere. – si schernì.

-         Hai fatto molto di più. Questo nuovo equilibrio è destinato a durare per sempre. – sorrise la Ninfa Suprema, raggiante.

Il sorriso di Aoife, invece, divenne un ghigno sinistro.

“Ti sbagli” pensò. “È solo finché noi lo vorremo”.

 

Il principe era da solo, commiserando la sua condizione, seduto su un comodo pouf nelle sue stanze private. Sobbalzò quando udì dei passi.

-         Aoife! – esclamò, chiamandola per nome per la prima volta.

Aveva una voce sgradevole, interrotta da ragli.

-         Che cosa ci fai qui? -.

-         Hai sofferto abbastanza. – constatò Aoife.

-         Mi toglierai la maledizione? – domandò l’altro speranzoso. – Devi toglierla, devi toglierla, DEVI… AHAHAHAHAH! -.

Le sue grida furono stroncate da una risata a crepapelle che lo fecero piegare in due.

-         In un certo senso. – rispose l’altra, guardandolo disgustata. – Sono qui per raccontarti una storia, che ti farà morire dal ridere… e che magari ti darà anche un po’ di soddisfazione, perché avevi ragione su di me. -.

Accompagnò quella rivelazione con un pauroso sorriso sardonico che le fece brillare gli occhi spiritati.

-         Il vestito rosa da solo non sarebbe stato in grado di scottarti in quel modo. Non sarei stata mai riuscita, come Fata dei Boschi, a scappare da tutti i tuoi meschini tentativi di uccidermi nel camino. Non mi sarei mai salvata dall’avvelenamento da erbe e tantomeno avrei potuto dormire cullata dalle grida dei prigionieri se non avessi provato una gioia selvaggia nell’udirle. Le bende, poi, quando mi bruciavo, servivano solo a coprire quanto velocemente si risanassero le ferite. Il mio lavoro… il mio lavoro non è mai stato quello di spazzacamino. Il mio vero lavoro è portare il caos. Sempre. -.

Fece una piccola pausa squadrando la piccola vittima davanti a lei, come se volesse assicurarsi che recepisse ogni singola sillaba.

-         Mi sono finta umana, ma umana non ero, e poi mi sono finta Fata, ma Fata non sono. Le fate protettrici non esistono, ma nessuno lo sa. Sono solo una nostra copertura, perché il bene è una favola che voi umani adorate, quando invece non è altro che l’altra faccia del male. E io sono il male e posso cambiare la mia faccia mille volte e anche qualcuna di più, perché noi siamo maestri nell’arte dell’inganno. -.

Il principe sgranò gli occhi…

-         Tu… tu sei… - stava per mettersi a gridare, a chiamare aiuto, ma le risate lo colsero impreparato, violentemente, rapide a trasformarsi in singhiozzi e sussulti.

Aoife annuì, vittoriosa.

-         Io mi annoio e sono la figlia dei demoni che ha ucciso il pericoloso principe. -.

 

 

Note:

La storia nasce per il concorso “Racconti al Profumo di Frutta” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, con il pacchetto “Fragola”.

Di seguito qualche nota alla lettura:

1)     Non so di preciso come Aoife (che si pronucia quasi come “Ifa”) si sia imposta su di me con la sua volontà.        
All’inizio doveva nascere come fiaba su un bambino viziato e una bambina buona: la storia si sarebbe conclusa col piccolo principe punito dalla fata, perché le persone irrecuperabili esistono e il bullismo e i pregiudizi, non hanno mai giustificazione, e Aoife che avrebbe avuto il suo lieto fine tra le ninfe del Bosco.             
Poi però Aoife mi ha sussurrato: “se invece di diventare una ninfa fossi una Fata che le aiuta a recuperare il regno?” L’idea mi è piaciuta, e ho pensato che non avrebbe stravolto la morale che i bulli vadano puniti e i pregiudizi condannati.        
Alla fine Aoife si è imposta ancora di più e mi ha fatto questa domanda: “e se invece li ingannassi tutti e il pregiudizio fosse fondato?”.      
Ho amato l’idea di una fiaba al contrario, in cui alla fine il lieto fine appartiene alla “cattiva” e non ai “buoni”. Il principe è ovviamente cattivo, perché l’avevo immaginato odioso fin dall’inizio e non ho voluto modificarlo: ha, in un certo senso, avuto quello che si meritava. E ho voluto farlo in quel modo senza alcun motivo che lo abbia reso in quel modo: è crudele e arrogante perché è la sua natura, non perché abbia avuto chissà quale trauma o chissà quale storia strappalacrime alle spalle.                 
Il “buono”, paradossalmente, per come la vedo io, è il re: non condanna nessuno senza avere le prove (cosa che gli si ritorcerà contro: Aoife avrebbe potuto scegliere qualsiasi altro regno, ma sceglie quello proprio perché sa che il re non la condannerebbe mai solo per dicerie) e quando sta per sgarrare a questa regola sono sufficienti poche parole della Ninfa Suprema per farlo rinsavire, è vicino a suo figlio, almeno all’inizio, pur restando comunque un uomo vittima dei pregiudizi della sua società.        
Il verde è simbolo di invidia, ma soprattutto di speranza, mentre il rosa è il colore della positività, che dona energie e allontana i (fasulli) pensieri distruttivi di Aoife (almeno, su Internet ho trovato che può assumere questo significato).

2)     Le pesche cotogne sono una specialità di pesca diffusa in Toscana: http://www.regione.toscana.it/-/pesca-cotogna-toscana   
La schiacciata all’olio è un’altra specialità toscana, simile ala focaccia, ma più bassa, più croccante e più unta.       

3)     "Fata" è con la maiuscola quando si riferisce proprio alla Fata presente nel racconto, con la minuscola quando è riferito a una o più fate in generale.         

4)     La povertà è intesa sia come quella d'animo del principe, sia quella in cui versa Aoife ma anche quella che, alla fine, condurrà tutti alla rovina.

Nel complesso io mi sono divertita a immaginarla e ringrazio Dollarbaby per questa opportunità J

A presto!

Mel

  
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