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Autore: aleinad93    16/10/2018    2 recensioni
"La caffetteria conosceva dopo il pranzo la tranquillità e Keith finalmente poteva tirare un sospiro. Erano due mesi che lavorava come apprendista al Voltron Café, per rendersi indipendente da Shiro e Adam, i suoi genitori adottivi, solo che odiava la confusione. Non si era ancora abituato al chiacchiericcio, ai rumori e alla gente dell'ora di pranzo. Si posizionò vicino alla cassa, lasciando libero il campo al proprietario, il signor Wimbleton, e alla sua collega Allura che stavano lavorando. Lanciò un'occhiata verso la porta e proprio in quel momento entrò qualcuno che conosceva. Cioè non conosceva davvero quel tipo, Lance..." (dall'inizio del primo capitolo Caffetteria)
[le Os sono scritte per il #writober organizzato da fanwriter.it]
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Garrison Hunk, Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cucciolo


Non era esattamente vero che Keith non avesse nemmeno un amico, perché lui aveva Kosmo. Seduto al tavolo numero 5 per la sua pausa si era messo a raccontare senza entrare nei dettagli a Hunk e Pidge, mentre Lance era in bagno, del suo vero e unico amico prima di loro.
Nella sua mente riviveva però i particolari. Shiro era tornato con un piccolo cucciolo di cane una tarda serata d'estate, quando lui aveva dodici anni. Adam non sembrava proprio contento, ma si era messo subito alla ricerca di un contenitore per abbeverare il nuovo arrivato che ansimava forte per lo spavento del trasporto. Keith aveva chiesto di poter portare l'acqua e l’aveva messa a terra esitante, aspettando che il cagnolino si mostrasse alla luce.
«Da dove viene la gabbietta?» chiese Adam, sistemando gli occhiali.
«Sono andato a comprarla alla fine del turno...» Shiro faceva il poliziotto e per Keith era un vero eroe, perché l’aveva salvato da visi che lo scrutavano, voci che un giorno di autunno gli domandavano perché suo padre avesse commesso un gesto così estremo, come togliersi la vita; se fosse colpa di sua madre che era scappata chissà dove; come si sentisse.
Keith non riusciva ancora a realizzare niente, non piangeva nemmeno. I ricordi di quel giorno non erano chiari, aveva solo tre anni e si ricordava solamente di aver visto per l’ultima volta quei tre gradini vecchio stile che lo portavano sulla veranda di casa. Era piccolo e i gradini troppo alti, non riusciva a scenderli senza la mano di qualcuno ad aiutarlo. Keith al secondo era stato sollevato da Shiro che l’aveva portato a casa con sé, dove viveva con suo marito Adam.
Keith solo ora realizzava quanto Shiro avesse rischiato per lui. Doveva aver ricevuto una bella lavata di capo dai suoi superiori per il suo comportamento.
 «...intanto Sam è stato con il cucciolo. La signora del negozio mi ha spiegato che è meglio dargli del latte e poi delle scatolette morbide per cuccioli, più che la carne come gli abbiamo dato oggi in centrale.» Sam era un collega di Shiro, aveva dieci anni in più dei suoi genitori adottivi, una moglie e due figli.
Aveva scoperto da poco a quello stesso tavolo del Voltron Café che la figlia minore di Sam Holt era proprio la ragazzina occhialuta di nome Pidge. Aveva anche saputo dalla lingua lunga di Lance che il suo vero nome era Katie, ma nessuno lo usava a meno che non volesse beccarsi una delle sue occhiate raggelanti.
Adam aveva chiesto a Shiro dove avesse trovato quel cucciolo e lui l’aveva spiegato. Era stato lasciato in una scatola di cartone vicino ai bidoni della centrale della polizia. Il cucciolo non sembrava ferito, né mal ridotto, era spaventato per essere stato rinchiuso. Era affamato perché senza cibo, e aveva fatto i suoi bisogni. Shiro si era fatto avanti per portarlo a casa. Aveva agito di impulso perché aveva sempre desiderato un cane.
Keith si inginocchiò per vedere meglio il cucciolo, mentre Adam trascinava Shiro in cucina. Le loro voci erano basse, ma Keith percepì «…sembra che sia stato abbandonato per quelle due strisce bianche nel pelo. Sarebbe di razza secondo...» Keith non capì altro perché la porta della cucina venne chiusa.
Keith continuò a studiare il cucciolo che stava uscendo dal trasportino con circospezione. Aveva in effetti due strisce bianche che gli partivano dal muso e andavano dietro la testa, poi sfumavano nel colore scuro del resto del manto. In controluce sembrava avere persino dei riflessi blu. Su un libro aveva visto l'immagine di un lupo e il cucciolo sembra identico, specialmente nel muso.
Shiro e Adam tornarono. Il secondo portava uno scodellino di plastica pieno di latte. Il cagnolino alzò il muso come se avesse odorato qualcosa di interessante.
«Ha gli occhi uguali a papà» mormorò Keith, ancora preso dalla sua analisi. Adam si mise a ridere e disse che effettivamente c'era qualcosa di somigliante anche tra il mantello del cane, nero con quelle due strisce bianche e i capelli del marito, neri con quel ciuffo bianco. Shiro non parve gradire il confronto.
Data la distrazione degli umani il cagnolino aveva trovato il coraggio di avvicinarsi al latte. Si sporcò leccando vorace e sporcò il pavimento come solo un cucciolo può fare. Adam storse il naso e disse. «Takeshi Shirogane, ti avverto che io non pulisco. Può rimanere, ma te ne occupi tu.»
Uscì dal salotto e Keith sussurrò. «Ti posso aiutare?»
«Certamente, campione.»
Keith riassunse a Hunk e Pidge la scelta del nome in poche parole. In realtà per lui fu un pensiero fisso per giorni in quanto si era accollato il compito.
Kosmo all'inizio era "cane", "cucciolo", "bello". Adam aveva preso a chiamarlo "cotoletta" e se ne occupava persino più seriamente degli altri due dopo il fastidio iniziale.
«È un maschietto» disse Adam con l'aria saccente che faceva storcere il naso di Keith, ma impazzire Shiro che riempiva di baci suo marito. «Dobbiamo dargli un nome.»
«Lo scelgo io» aveva detto sicuro Keith. Gli sarebbe piaciuto che il nome del cucciolo e il suo iniziassero con la stessa lettera. Kevin? Kit? Ken? Kong?Kaito? Kieran? Erano uno peggiore dell’altro.
Una sera aveva aperto un libro che Shiro e Adam gli avevano regalato qualche Natale prima, conoscendo la passione di Keith per le stelle e l'universo. Ne aveva letta qualche pagina giusto per riuscire ad addormentarsi e si era trovato a fissare una riga in particolare Un sinonimo per universo è cosmo (dal greco kosmos)...
«Sì, Kosmo!» Il cucciolo che era sdraiato sul suo letto e aveva già preso qualche centimetro in larghezza e lunghezza era corso via spaventato dall'improvvisa euforia di Keith. Shiro dopo poco era apparso in canottiera e pantaloncini dalla porta dicendo. «Cosa succede qui?»
«Si chiama Kosmo.»
Shiro parve confuso, ma poi capì. «Bel nome, cadetto Keith.»
Shiro spesso lo trattava come se fossero in un'accademia per aspiranti piloti di navi spaziali, era il loro gioco preferito. Adam non sembrava proprio felice, perché finiva sempre per essere il generale cattivo che impediva loro di decollare. Kosmo divenne ben presto il cane extraterrestre che li aiutava a liberare l’universo da una terribile minaccia aliena.
Kosmo era il suo compagno di giochi, ma anche dei suoi momenti peggiori. Keith cercò di minimizzare, ma le facce di Hunk e Pidge avevano assunto una sfumatura triste che stonava con entrambi.
Keith un pomeriggio aveva il labbro sanguinante per il pugno di James e gli occhi pieni di lacrime e il cucciolo che ormai non era più cucciolo gli aveva leccato le mani, per consolarlo.
Un'altra giornata aveva preso una nota per aver contraddetto l'insegnante di scienze, era stato sgridato da Adam per aver lasciato in disordine i libri, però Kosmo gli si era affiancato e gli aveva fatto capire che a lui andava bene così com’era.
In un'altra giornata storta gli aveva portato la pallina, come per dirgli, che non doveva arrabbiarsi, era meglio giocare. Kosmo era diventato grande a vista d'occhio, mentre Keith sembrava fermo in una fase di limbo in cui non cresceva neanche di un centimetro. Era basso rispetto agli altri maschi della sua età. Shiro lo incoraggiava, sostenendo che sarebbe diventato alto a cavallo dei diciassette e diciott'anni. Fu così. Crebbe, come diceva sempre Adam, di venti centimetri in una notte e ormai Kosmo quando si allungava su di lui non lo sovrastava più.
Keith concluse con due parole il racconto e ci fu silenzio, se non la sedia smossa da Lance, tornato dal gabinetto. La sua espressione era una grande punto interrogativo e Pidge disse. «Perché, amico, non mi vai a fare un caffè lunghissimo?»
Keith annuì e, mentre lavorava, tornò alla mente al giorno in cui era rientrato a casa senza togliersi il grembiule rosso del Voltron Café. Era il giorno in cui un certo ragazzo allampanato l’aveva definito “una bellezza spaziale”. Appena era entrato Kosmo l’aveva accolto felice e con la pallina tenute tra le sue zanne. Con la testa tra le nuvole gliel’aveva presa e tirata, anche se Adam non voleva, e si era sdraiato sul divano, pensando al ragazzo castano con la pelle calda come il sole. Aveva davvero una bella pelle, pensò.
Il cane gli aveva buttato in faccia la pallina. Odiava essere ignorato. «Kosmo, per tutti i pianeti del sistema solare, era piena di bava.» Kosmo stette in attesa con il muso implorante. «Ho capito, ho capito. Gioco con te.» Scodinzolò felice.
Erano passati tre mesi da quel pomeriggio e ora non aveva solo Kosmo, ma anche tre amici umani. In fondo poteva dire anche quattro, contò vedendo Allura che accoglieva un nuovo cliente con il sorriso. La ragazza era più grande di qualche anno, ma ogni tanto nella pausa si univa al tavolo 5 e scherzava con loro.
La fine del suo turno arrivò in un lampo. Keith salutò il signor Wimbleton che si accarezzava i baffi spiegando a un signore che suo nonno era il miglior barista dell’universo. Gli stava raccontando di quella volta che aveva servito sei caffè, portandone uno in testa.
Allura e Keith si scambiarono uno sguardo di comprensione reciproca, poi la ragazza uscì bella e stanca nel suo scialle che aveva avvolto intorno alle spalle. Lui, invece, si fermò al tavolo 5. «Ho finito per oggi.»
«Bene» disse Lance, sfregandosi gli occhi e riponendo il libro che stava studiando. Hunk e Pidge erano andati via già da un’ora, mentre lui era rimasto. «Andiamo.»
Nel ritorno Lance fischiettava un motivetto che Keith non riusciva a riconoscere e lo stava facendo uscire di testa. «La smetti?»
«Ti sto dando fastidio, per caso?» chiese l’altro, ben consapevole che la risposta sarebbe stata affermativa.
Keith preferì lasciar perdere, alzando gli occhi. «Fai come ti pare.»
Lance smise e per un po’ ci fu silenzio tra loro. Non era male camminare uno accanto all’altro immersi nei reciproci pensieri.
«Oggi hai parlato di un certo Kosmo con gli altri. Hai sorriso, mentre ne parlavi... chi è?» Ovviamente Lance non era capace di rimanere zitto per più di due minuti e tirò fuori quell’argomento, fingendosi disinteressato.
Keith lo schernì e l’altro sbottò. «Cosa ridi sotto i baffi che non hai, mullet!?! Volevo chiederti se fosse importante per te e poi Pidge ti ha chiesto se le portavi un altro caffè. Allora ho chiesto a Hunk e Pidge, ma quei traditori si sono messi a ridere e non mi hanno detto nulla.»
«Perché non sei venuto al bancone a chiedermelo?»
«Non volevo disturbarti…»
«Lance, tu vieni a disturbarmi al bancone ogni giorno. Una volta ti sei alzato dal tavolo e sei venuto solo per dirmi quanto ti piace la mia pettinatura.»
«Ok, ok» borbottò Lance stringendo le labbra, come fosse un pesciolino. «Però te lo sto chiedendo ora.»
Keith si fermò sul marciapiede e questo portò anche l’altro a farlo. Dopo averlo squadrato per un po’ gli disse solo: «Perché non vieni a casa mia?»
Lance si illuminò e Keith capì che stava per dire qualcosa di imbarazzante. «Sei molto audace oggi, gritty kitty*.» Ecco, appunto.
«Lance, non ti sto invitando nella mia camera. Scordati proprio di entrare nella mia camera.»
Keith aveva imparato che frenare il suo amico era salutare per la sua salute mentale. «Dai, muoviti e taci per più di cinque minuti.»
«Ma certo, gritty kitty.»
Alzò gli occhi, ma non ribatté per non generare altre chiacchiere.
Arrivati davanti a casa, Keith si sentì nervoso. Non aveva mai invitato nessun compagno e nessuno mai aveva voluto andare da lui. Chissà cosa avrebbe detto Lance. Si chiese se fosse tutto in ordine e con orrore pensò che si stava trasformando nella versione casalinga di Adam.
E se fosse stato allergico ai cani?
«Hai delle allergie, per caso?»
Lance stava ammirando il giardino e la villetta bianca con la bocca leggermente aperta. Adam era maniaco della pulizia quanto della cura del giardino e anche se Kosmo ogni tanto faceva qualche buca gigante per un piccolo osso, lui interveniva come una macchina da guerra a ripristinare tutte le zolle. «Tu vivi in questa reggia? Noi siamo in venti persone in un minuscolo spazio vitale.»
Keith alzò le spalle, non ci teneva a spiegare la schifosa situazione familiare di Adam. Adam che tendeva a parlare meno volentieri di lui del suo passato. Adam che era stato cresciuto per prendere le redini dell’impero familiare, ma in realtà amava insegnare. Adam che era stato riempito di soldi per andarsene dopo che aveva iniziato a uscire con Shiro. La filosofia dei suoi genitori era stata meglio sborsare un patrimonio che tenersi un erede omosessuale.
L’incombenza di sposarsi con una donna praticamente scelta dai genitori era passata al fratello minore.
Keith si concentrò sul suo ospite. «Ti ho chiesto delle allergie…»
Ci mancava che uccidesse il primo amico che portava a casa.
«Ah, no. Nessuna.» Keith tirò un sospiro di sollievo, facendo qualche passo per precedere l’altro.
I suoi ormoni, che si erano risvegliati all’improvviso, gli dicevano che se voleva saltargli addosso dopo aver chiuso la porta di casa non c’era niente di male.
Keith non li ascoltò. Lance era bello, ma ancora non lo conosceva. Certo, ne sapeva un po’ di più di prima. Diventava improvvisamente dolce quando parlava della sua numerosa famiglia. Amava l’oceano e il surf. Gli piaceva fare l’occhiolino. Aveva numerose maschere di bellezza e delle ridicole babbucce, non che Keith l’avesse viste, era quello che diceva Pidge. Era un disastro a scuola e non sapeva cosa diventare da grande. Era bisessuale, perché Hunk aveva parlato di una ragazza che aveva lasciato Lance dopo sei mesi che stavano insieme. Ci provava spesso con Allura e qualche ragazza o ragazzo che entrava nel locale.
Questo aveva convinto Keith che Lance non era davvero interessato a lui. Magari lo trovava “una bellezza spaziale”, ma non lo vedeva come un possibile ragazzo con cui uscire.
A Keith andava benissimo l’amicizia.
Aprì la porta e invitò Lance ad entrare. «Benvenuto a casa mia.»
L’altro si illuminò di nuovo e corse a inginocchiarsi davanti alla chitarra elettrica di Adam, comodamente adagiata sul suo trespolo. «È la Fender del cinquantesimo anniversario! Oh, sono in Paradiso.»
Keith tirò un altro sospiro di sollievo e Kosmo arrivò di corsa, abbaiando.
«Ma che…?» Lance allargò gli occhi vedendosi sommergere dall’ammasso di pelliccia nera. «Oddio… ehm…»
Il cane gli stava annusando l’ascella, cercava di oltrepassare con il muso la giacca che indossava sopra la maglietta bianca con il girocollo blu. Gli leccò la guancia e poi dopo avergli fatto un giro intorno corse dal suo padroncino, agitando la coda.
«Ciao Kosmo.»
Lance guardò stravolto Keith e Kosmo e si lasciò scivolare verso terra. «Lui è…? Piacere.»
Keith diede una carezza dietro le orecchie del suo cane. «È arrivato cucciolo e ora non lo è più.»
«Questo è evidente.»
«Per molto tempo è stato il mio unico amico» disse Keith, trattenendo Kosmo dal collare perché non corresse di nuovo verso uno dei suoi amici umani, il primo amico umano in assoluto a essere entrato in casa sua. «Il suo nome è sinonimo di universo. Amo lo spazio. Certe notti mi metto sul terrazzo con il telescopio.»
Non riusciva a smettere di parlare. Sentiva ogni secondo crescere l’imbarazzo, era così difficile conversare con le altre persone.
«Ho sempre voluto diventare un pilota, poi volevo semplicemente studiare, ma mi sentivo sempre chiamare secchione… ora lavoro al Voltron Café, ma questo lo sai…»
«Fermati un attimo, Keith, respira.» Lance fermò il fiume in piena che usciva dalla sua bocca, rialzandosi dal pavimento e Keith sguazzò nel blu scuro dei suoi occhi. Quel colore era diventato sinonimo di pace e la tranquillità dal loro primo incontro. «Kosmo mi piace e mi piaci anche tu. Avrei voluto che fossi tu a leccare la mia guancia e non la lingua del tuo cane, ma va bene. Mi adatto a tutto.» Keith non sapeva se dovesse commentare in qualche modo. Lance diceva spesso cose strane. «Anch’io ho un’amica non umana, è una mucca.»
«Una mucca?» Lance era davvero il re delle cose strane.
Kosmo riuscì a sgusciare via dalla presa di Keith e andò a raggomitolarsi contro le gambe dell’altro.
«Kaltenecker. Anche lei era un cucciolo quando mio papà l’ha portata a casa e ora la mungo io.»
«Ah.»
«Kaltenecker sarà felice di conoscerti. La prossima volta ti porto a casa mia.»
Keith sbuffò. «Ma che nome eh… e chi ti dice che verrò a casa tua?»
«Andiamo, gritty kitty, lo so che vuoi vedere la mia stanza e il mio letto.»
«Lance!»
 
 
 
*kitty gattino
 gritty coraggioso, audace
 


Quando ho visto la parola cucciolo, la mia mente ha pensato a Kosmo e mi sono messa a scrivere. Non avevo intenzione di dare un continuo a Caffetteria, ma eccoci qua. Sono stati due giorni intensi insieme a Keith.
 
 
   
 
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