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Autore: LanceTheWolf    22/10/2018    1 recensioni
Lan-Chen aveva una vita normale, un lavoro normale, una famiglia normale e dei sogni come tutte le giovani donne delle sua età. Poi la sua vita è cambiata, Lei è cambiata. In pochi sanno cosa è successo: la sua famiglia è allo scuro di tutto e ritiene che i suoi continui viaggi, le strane persone che frequenta, non siano altro che un periodo. Che stia semplicemente passando uno di quei momenti assurdi che prendono a tutti e che prima o poi passeranno proprio come sono giunti. Per lei, al contrario, ogni parola non detta ha il solo scopo di difenderli.
Si svolge molti Avatar dopo Korra.
NB: Questa raccolta partecipa al Writober 2018 a cura di Fanwriter.it
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1046
Prompt: Ombre (Red List – 22/10/2018)
 


Ombre


“Dovresti parlarle.”
“Ma papà…”
“Lan, ti prego, è tua madre.”
 
***
 
Mai-Lin scese da quell’enorme ammasso di ferraglia rumoroso.
Chi erano quei barbari che avevano il coraggio di chiamare quel mostro Treno?
Avevano mai visto com’era un vero treno?
No, probabilmente no, e sua figlia si era ridotta a vivere con quegli incivili?
Cielo!
Strinse le labbra in una linea sottile, per la stizza. Uno sguardo alla mappa che teneva tra le mani e, con passo deciso, si avviò, trascinando la pesante valigia a rotelle tra i vicoli bui di Senlin.
 
Non l’avrebbe mai creduto possibile, eppure era lì: lei che odiava ogni cosa fosse fuori dalle mura della sua città, i ghetti maleodoranti, la sporcizia e le cose senza senso. Ma, per quanto ci fossero una marea di motivi per detestare quel luogo con tutta sé stessa, era lì che viveva sua figlia.
Gli spiriti non dovevano ancora conoscere adeguatamente la sua determinazione se la mettevano davanti a una prova del genere. Avrebbero potuto far piovere lapilli incandescenti dal cielo, lei non se ne sarebbe tornata a casa senza aver chiarito, perché, per quanto potesse pensarne la sua bambina, lei l’amava come null’altro al mondo, avrebbe sistemato la tesa del suo cappellino e avrebbe tirato dritto verso quel che si era prefissa.
 
Rallentò il passo, il viso si piegò involontariamente verso le grosse pietre che lastricavano la strada.
Lo sguardo si alternò distrattamente da una punta all’altra dei suoi stivaletti laccati.
No, non le piaceva come si era chiusa la telefonata con la figlia e, benché meno, il loro rapporto: quando l’aveva chiamata non era quello il risultato aspettato, avrebbe voluto solo capire cosa stese succedendo e cercare di ricordarle chi fosse veramente.
La sua Lan-Chen era stata ambiziosa un tempo, troppo ambiziosa a volte, al punto da preoccuparla e adesso?
Adesso avrebbe voluto tanto riavere indietro la sua spocchiosa marmocchia tutta pretese.
“Io farò quello. Io sarò questo. Io. Io. Io”, la cantilena ricorrente di quando era piccola le rimbombò nelle orecchie al ritmo del battito del suo cuore.  
 
Sospirò, fermando il passo sotto un lampione sfrigolante.
La luce fioca e altalenante della lampadina morente rendeva quel posto più lugubre di quanto fosse realmente e lei lo sapeva.
Lo sapeva, già!
Questo perché, prima di diventare la Mai-Lin che era, era stata parte di quel mondo e ne era uscita graffiando e mordendo; troppo orgogliosa per arrendersi al suo destino e, per quanto non se ne vantasse apertamente, aveva sempre creduto che il maledetto orgoglio che si ritrovava sua figlia, quello, lo avesse preso da lei.
 
Controllò la carta stropicciata che stringeva nel guanto di pelle scura e riprese il passo.
La sua ombra la seguiva silenziosa.
Non era mai andata troppo d’accordo con sua suocera, non che questa le fosse mai stata ostile, ma conosceva le sue origini; origini che non potevano certo vantare i titoli che l’anziana possedeva e una parte di lei se ne vergognava.
Non avrebbe mai permesso che Lan-Chen provasse quella stessa vergogna.
Era alla madre del marito che era ricorsa per avere quell’indirizzo: tre anni passati a cercare di ottenerlo dalla figlia e alla fine…
Gli occhi le si inumidirono.
…Alla fine l’unica a esserne a conoscenza era, come sempre, sua suocera.
La sua bambina diceva sempre tutto alla nonna. Tutto.
Cielo, quanto invidiava il loro rapporto!
Per tanti anni l’aveva imputato all’essere questa, a differenza di lei e il marito, una dominatrice della terra come la figlia, ma la verità era un'altra: non era mai stata una buona madre, questo era… questo doveva essere… per forza, se… dopo quella telefonata, Lan non le aveva più risposto.
Aveva parlato con il padre, con i nonni e chissà con chi altro, ma… non con lei.
 
I suoi tacchi sulla pietra battevano un ritmo costante, mentre la luna si alzava in cielo, allungando le ombre di cose e persone.
Tutto quello che aveva fatto nella vita era stato cercare di dare a quella ragazza quello che lei non aveva avuto, ma… Lan aveva preferito disfarsene, gettarlo via come fosse qualcosa di inutile.
 
Piangeva.
Altri, oltre lei, si muovevano per quelle vie.
Sentiva il loro parlottare e qualcosa aveva fatto rotolare rumorosamente un vecchio secchione, ma Mai-Lin non vedeva nessuno. Quelle persone le passavano accanto come ombre, eteree e distanti, aveva come la sensazione che avrebbero potuto passarle attraverso e andare oltre.
No, non erano loro le ombre, era la sua mente che era distante, era lei; lei che si era rifiutata di accettare quella realtà che le aveva dato vita, quella realtà che aveva finto non esistesse, guardando semplicemente dall’altra parte e adesso… adesso quella realtà aveva ingoiato sua figlia.
 
Arrivò davanti ai pochi gradini d’ingresso di una casetta a schiera, simile a tante altre che aveva superato su quella stessa via.
Controllò l’appunto sul bordo della mappa e poi il numero in rame di lato della porta: era il posto giusto.
Chiuse gli occhi e trattenne il fiato per un secondo, prima di sfilare il fazzoletto dal taschino del suo avvitatissimo cappottino a doppio petto e pulire le linee scure del trucco che le lacrime avevano trascinato sul suo viso.
 
Salì uno scalino dopo l’altro.
Arrivata davanti alla porta, stirò il margine del cappotto con le mani, come per darsi un’ultima rassettata.
Suonò il campanello una volta.
Attese.
 
Alzò lo sguardo alle finestre: la luce in casa era accesa.
Prese un profondo respiro e suonò una seconda volta.
Udì i passetti rapidi di un bambino echeggiare dall’interno della casa fin dietro la porta, subito seguiti dal tonfo sordo di manine contro il legno.
“Mamma?”, una vocina che non conosceva arrivò ovattata quasi fosse un sussurro, poi il silenzio.
 
Il cuore le scoppiava in petto.
Attese e attese, in silenzio, per interminabili minuti.
 
Alzò la mano ancora una volta e, ancora una volta, fece per sfiorare con le dita guantate il campanello della casa, ma… si bloccò.
Lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e rimase a fissare la porta. Uno, due, dieci minuti, immobile.
 
Qualcuno, dalle altre case, sbirciava da dietro le tende delle finestre illuminate, mentre le ombre di quella notte sembravano volersi chiudere su di lei e il suo dolore.
 
***
 
“Mamma, perché piangi?”, chiese la vocina preoccupata del bimbo alla giovane donna rannicchiata dietro la porta.
   
 
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