CAPITOLO VENTIDUE
Dopo aver passato una notte tutto amore e lenzuola, venne
anche l’alba, quella dannata luminosità che era destinata a infrangere i nostri
sogni, e a spingerci ad uscire di nuovo allo scoperto. Poi, l’alba estiva era
traditrice, siccome alle sei del mattino già c’era luce a sufficienza per
svegliarsi per bene da ogni torpore notturno.
Alle sei e un quarto, io e Piergiorgio eravamo totalmente
vestiti e pronti a lasciare l’albergo di Vincenzo. Eravamo stanchi, dopo una
notte intensa in cui avevamo risposato solo un paio d’ore, verso il mattino,
avvinghiati dalle nostre braccia, quasi i nostri corpi avessero voluto formare
un intrico di carne e ossa.
Dovevamo, purtroppo, tornare alle nostre vite quotidiane, e a
me dispiaceva tantissimo; per la prima volta avevo anche ricevuto la mia prima
proposta di matrimonio, anche se non mi sentivo assolutamente in vena di
accettare o di tornare a sfiorare l’argomento, anche se mi affascinava
parecchio. Ero finalmente una donna, e tale mi sentivo, senza più quella
piattola di Marco a soffiarmi sul collo.
Mi sentivo libera di decidere, ma… dovevo anche confrontarmi
con mia madre, e con il lavoro e la vita di tutti i giorni. A preoccuparmi di
più era proprio la mamma, e temevo che scoprisse che non ero neppure rincasata,
quella notte, e non volevo che lei si facesse strane idee su di me, poiché non
mi ero mai comportata in quel modo, neppure nel periodo di massima infatuazione
per il mio ex.
Io e George abbandonammo così l’alberghetto di soppiatto,
salutando un Vincenzo appena svegliato, che non si azzardò a chiedere nulla,
seppur avesse già capito tutto, e finimmo dentro il fuoristrada del mio amante,
a baciarci di nuovo. Vivevamo uno per le labbra dell’altra, e viceversa.
Quando non ne potemmo più, e la realtà tornò a farsi
pressante, fummo costretti ad andarcene.
Giunsi a casa che erano le sei e mezzo, dopo aver promesso a
Piergiorgio che entro mezzogiorno e mezzo sarei stata a casa sua, avendomi
scritto l’indirizzo in un bigliettino che non avevo ancora letto e che tenevo
ripiegato per bene, in quattro parti, nella mia borsetta. Cercai di non fare
alcun rumore, e mi tolsi anche le scarpe, sempre per limitare ogni sorta di
baccano.
M’infilai in camera mia di soppiatto, con circospezione, dopo
aver eluso la placida sorveglianza materna senza alcun problema, passando di
fronte alla sua porta ancora ben chiusa.
Quando fui al sicuro, mi venne però da sentirmi in colpa, e
da chiedermi se fossi davvero un’incosciente, a star fuori tutta la notte senza
dire nulla ad un genitore che era malato e che era stato dimesso da pochissimo
dall’ospedale, a seguito di un gravissimo ricovero d’urgenza.
Con la testa tra le mani, mi lasciai andare sul mio letto, ma
senza più pensare, cercando in modo parzialmente vano, comunque, di tenere la
testa sgombra da ogni sorta di riflessione. Ben presto sarebbe stata ora di
tornare al lavoro e di rivedere mia madre, quindi avrei avuto tutto il tempo
per affrontare ogni prevedibile evento che in quel momento mi poteva sembrare
una sorta di ostacolo insormontabile.
Alle sette e trenta, scesi al piano inferiore, e subito
incrociai la mamma, che mi apparve torva. Era come se mi avesse atteso, con
pazienza, nel corridoio, pronta a beccarmi nel momento opportuno.
“Ma’, mi aspettavi?”, le chiesi, provando a dissimulare la
mia tensione anche tramite l’utilizzo di un pratico sbadiglio assonnato. Non
che mi avesse richiesto sforzo, giacché ero ancora provata dalla vivace nottata
appena trascorsa, però ero davvero agitata.
Se voleva un confronto, non mi ritenevo pronta ad
affrontarlo. E pareva che lo volesse per davvero.
“Isa, cos’è successo ieri sera? Non ti ho sentito neppure
rientrare”, mi chiese, infatti, con prontezza, eludendo la mia precedente
domanda.
“E’ che sono rientrata tardi, sarà stata l’una, o poco dopo.
Tu eri già a letto”, provai a precisare, mentre andavo in cucina a prepararmi
una breve colazione, sempre per nascondere il fatto che non ero con la
coscienza limpida come invece volevo a tutti i costi ostentare.
Mamma però rise, grevemente.
“Ti ho aspettata in piedi fino alle tre e mezzo del mattino,
poi mi sono rassegnata e sono andata a dormire. E ti garantisco che di te non
s’è vista neppure l’ombra, fino a quell’ora”, affermò, infatti, con precisione.
Non me l’aspettavo.
La mia fortuna era che le davo le spalle, siccome ero alla
ricerca del latte all’interno del frigorifero, e non poté vedere il mio sguardo
impaurito, che per un istante doveva essersi riflesso nei miei lineamenti.
“Magari hai schiacciato un pisolino per qualche minuto…”.
“Sì, giusto il tempo per far sì che tu sgattaiolassi di
sopra, vero? No, a letto non c’eri, ho controllato”, fece maggiore pressione.
A quel punto, lasciai perdere tutto quanto, e, alzandomi, mi
volsi verso di lei, molto adirata.
“Cosa fai, adesso mi spii? Prima non uscivo mai, e allora ero
una depressa. Adesso che esco un po’, per svagarmi, ecco che mi stai col fiato
sul collo. Vergognati! E se vuoi proprio che io lo rimarchi, non sono più
minorenne già da un bel pezzo”, affermai ad alta voce e con foga. Poi, piantai
tutto lì, col volto livido per l’ansia e la tensione appena provata, e me ne
andai di casa con fretta, senza neppure accorgermi di non aver dato, in realtà,
alcun punto di riferimento a mia madre, limitandomi ad averla trattata
malissimo.
Tra l’altro, l’avevo fatto solo per proteggere quello che
ritenevo un mio intimo segreto, che comunque non era un reato o una cosa folle…
era solo amore.
Trascorsi la mattinata con una gran pena nel cuore.
Dopo quel litigio improvviso, non mi sentivo più in pace, a
livello interiore, e non riuscivo a metabolizzare cosa fosse più o meno giusto
fare.
Lavorai con la mia solita lena, evitando ogni contatto di
troppo con le colleghe, temendo che la loro curiosità che ciò avrebbe potuto
indurre mi avesse portato ad avere un’altra sorta di attacco isterico. Cercai
solo di starmene sulle mie, come al solito.
Conclusa la mia parte di turno mattutino, mi attendeva un
momento molto delicato; quello di raggiungere la dimora di George. Non sapevo
cosa aspettare, ed ero mentalmente turbata. Fui, a tratti, in procinto di
chiamarlo per digli che avevo avuto un contrattempo, siccome non me la sentivo,
ma alla fine scelsi di togliermi quel dente, e di andare da lui ugualmente.
Il fatto di poter sapere altro di lui mi inquietava e mi
estasiava allo stesso tempo. In ogni caso, sarebbe stata un’avventura curiosa,
anche se non ero proprio dell’umore giusto per affrontare con piacere delle
nuove scoperte o delle novità. E non sapevo, in più, quanto in realtà avesse
intenzione di farmi sapere su di lui. Non volevo essere raggirata, o sentirmi
tale.
Accolsi comunque, alla fine, la sfida.
Dopo aver raccattato il fogliettino sul quale mi aveva
scritto l’indirizzo, andai ad approfondire, leggendolo per bene, e scoprii che
viveva non troppo distante da casa di mia madre, in una lunghissima via che era
parallela, seppur un po’ distante, come spesso accadeva in campagna, a quella
in cui avevo trascorso la mia intera infanzia e adolescenza. Non era un obiettivo
difficile, quindi mi sentivo di poter andare tranquilla, essendo anche una zona
che un po’ conoscevo.
Così, grazie alla mia fedele automobile, giunsi alla
destinazione designata senza problemi, e non appena mi trovai di fronte ad un
grandissimo villone immerso nel verde e in un caldo soffocante, mi resi conto
di aver scorto tantissime volte, e di sfuggita, quell’edificio e il parco
recintato che lo attorniava da tutti i lati. La recinzione era metallica, ma
alta ed imponente, come il cancello che mi trovai di fronte non appena
abbandonai la strada asfaltata, maestoso anch’esso e sormontato da due aquile
di bronzo.
Feci per scendere, siccome notai che c’era il campanello da
suonare, sotto una lastra color oro in cui c’erano infissi, a caratteri piuttosto
grandi, i titoli di Piergiorgio. Per la precisione, stavo per varcare la soglia
del Dottor Ceccarelli Piergiorgio, cardiologo.
Non dovetti, infine, scendere per andare a suonare il
campanello, siccome il grande cancello cominciò ad aprirsi. Dopo un attimo di
incertezza, durante la quale mi chiesi se era meglio suonare comunque, mi
decisi a riaccendere l’auto e ad entrare.
Non appena varcai il cancello, ecco cominciò a richiudersi.
Attorno a me e all’auto che stavo guidando c’era solo il
verde intenso di un giardino curatissimo anche d’estate, e il vialetto che
stavo percorrendo era ricoperto dalle fitte chiome dei tigli che s’innalzavano
ai suoi margini, creando una sorta di viale alberato in miniatura. Era una
giornata ben soleggiata e serena, e tutto ciò risaltava subito all’occhio,
senza difficoltà alcuna.
Ci misi qualche minuto a giungere di fronte al villone,
poiché guidai piano e con molta prudenza. L’abitazione non era altro che una di
quelle classiche ville signorili ottocentesche, poi ristrutturata con
attenzione. Nel bel mezzo dello spiazzo ghiaioso che era stato opportunamente
creato di fronte ad essa, sostava il fuoristrada di Piergiorgio, e il suo
proprietario mio aspettava già a braccia incrociate a poca distanza.
Gli sorrisi, non appena fermai la mia auto e spensi il
motore, e lui ricambiò il sorriso e mi salutò con le mani, accogliendomi
cortesemente, prima di venirmi incontro.
“Immagino che tu non abbia avuto problemi a raggiungermi”, mi
disse, appena aprii la portiera.
“Assolutamente no. Sai quante volte sono passata da qui di
fronte? Un’infinità, ma a dire il vero non mi ero neppure mai chiesta chi ci
abitasse”, risposi, con sincerità.
Piergiorgio rise.
“Può capitare, eh”, si limitò a dirmi, mentre, dopo esser
scesa dall’auto, ribattevo lo sportello dietro di me.
Stavo per dire qualche altra parola di circostanza, ma
avvertii una presenza scodinzolante che in men che non si dica mi si era
avvicinata.
“Ma ciao!”, mi venne spontaneo da sussurrare, con gioia, non
appena vidi il magnifico cane che mi era venuto incontro. Scodinzolava, pieno
di felicità, e non appena mi chinai su di lui, cominciò a leccarmi le mani,
festoso.
“Che bel cagnolone, complimenti!”, affermai, rivolgendomi al
padrone, che era ancora in piedi e mi guardava con un bel sorriso impresso sul
volto dall’espressione bonaria e gentile, come sempre.
“In realtà è una cagnolina, una femmina di Setter Inglese. Si
chiama Kira”, specificò Piergiorgio, ma io ero già tutta presa dall’accarezzare
il magnifico pelo della dolce bestiola.
Kira era una cagna di dimensioni medie, e aveva un bel pelo
curatissimo e di tre colori, perlopiù bianca e nera, con alcune macchie
rossastre che apparivano solo impresse nella pelliccia della coda affusolata e
della testa. Era molto docile, e con me fu così giocosa che me ne innamorai dal
primissimo istante in cui ebbi a che fare con lei.
“Ti ha preso in simpatia. Di solito non è mai così festosa
con chi vede per la prima volta, anzi, in genere è molto timorosa, se ne sta in
disparte e a volte ringhia. Devo ammettere che non l’ho mai vista così contenta
di far la conoscenza di un’estranea”, aggiunse Piergiorgio.
“Oh, è stato amore a prima vista, il nostro”, confermai,
lasciandomi poi andare ad una bella risata felice e spensierata, naturalmente
continuando ad accarezzare il cane.
“Non vorrei interrompere questo idillio, però se ti va di sapere
di più su di me… come ti avevo promesso questa notte, servirebbe che tu mi
seguissi e che ti accomodassi nella mia umile dimora”, volle ancora intervenire
il mio interlocutore, con molto tatto e gentilezza.
Affermai con il capo, e lasciai perdere Kira.
“Se ti interessa ancora, eh. Sai che per me il passato non
conta molto”.
“A me interessa, invece”, dissi la mia, “non riesco più a
stare con te, perché muoio dalla curiosità”.
George tornò a ridere.
“Cosa credi di scoprire, poi? La mia vita è stata una lunga e
lugubre noia, almeno fintanto che non ti ho incontrata”.
Lo guardai intensamente.
“Per favore, non dirmi così o mi lascio andare alla
passione…”.
“Va bene. Capisco. Seguimi, allora”, m’invitò di nuovo,
avviandosi verso la porta di casa.
Il suo viso era diventato improvvisamente impassibile, e
anche se mi stava portando dentro casa sua, dandomi le spalle, potevo percepire
la sua tensione. Piergiorgio aveva perso la sua solita e tranquilla giovialità,
sembrava che qualcosa lo turbasse… ed io mi sentii, in un attimo, qualcosa di
più.
Non volevo sfidarlo, o a mia volta correre troppo; stava a
lui aprirsi a me, dirmi qualcosa sul suo conto, e sul suo passato, come e
quando se la sarebbe sentita, e nel modo più spontaneo possibile.
Mi sentii, a un tratto, come se fossi stata un’ospite
indesiderata, siccome stavo per addentrami nell’intimità della vita privata di
colui che già avevo conosciuto più volte a livello fisico, ma che sapeva
rendersi sfuggevole a riguardo di ciò che aveva trascorso, e di chi realmente
era. Perché ero davvero sicura di non averlo potuto capire fino in fondo, ma
che ero, d’altronde, ad un palmo dal comprenderlo.
Mi mancava pochissimo. Mi mancava quella visita che stavo
effettuando.
Non volevo, tuttavia, essere la spina nel fianco di nessuno,
e rendermi la forzatura ideale per creare tensioni inutili in un rapporto che,
fino a quel momento, era stato piuttosto idilliaco.
“Per favore, George”, esordii, allora e a singhiozzo, non
appena stavo per varcare la soglia della grande casa, dopo aver percorso la
leggera scalinata di otto gradini che mi separava dall’atrio rialzato, “non
voglio essere una pistola alla tempia. Non devi dirmi niente su di te, e se
ieri sera ho insistito, è stato solo perché ero stanca e un po’ confusa. Stanca
di tutto, ma non di te, e non devi dirmi o dimostrarmi nulla, se non vuoi e non
te la senti”.
Piergiorgio rimase sulla soglia della porta, immobile per un
istante infinitamente lungo.
“Sei qui, adesso. Ora ho piacere di toglierti le curiosità
che hai”, disse, infine, ma sempre con impassibilità.
“Non devi, ti ripeto. Non mi devi nulla”, tentennai
ulteriormente.
Kira, intanto, era tornata a raggiungerci e a richiedere
attenzioni, attraverso i piccoli guaiti che emetteva.
“Entra, dai”, mi sollecitò George, chiudendo così il breve
dibattito.
Entrai in casa, ma ero in imbarazzo totale, e non sapevo bene
cosa fare, cosa dire e come comportarmi. Mi limitai a sfregiarmi le mani l’una
sull’altra, alla ricerca di un conforto che non sarebbe arrivato tanto in
fretta, da quel che sembrava.
La villa del mio amante si rivelò essere un ambiente
spettrale, poco luminoso, e una volta ribattuta la porta d’ingresso, molto
ampia, si piombava in un buio fetido, freddo, umido e tentatore, come quello
che solo le grandi dimore poco custodite potevano avere.
Il corridoio d’ingresso era illuminato dalle luci al neon,
attaccate al soffitto con approssimata raffinatezza, ed esso si diramava in una
miriade di porte di legno scuro, che al momento erano tutte socchiuse.
Mi venne da definirla, con immediatezza, la casa dalle mille
porte, e anche se avevo esagerato nella conta, naturalmente, la mia mente non
aveva esagerato a definirla in quel modo.
“Vuoi rinfrescarti un po’? Hai sete?”, ruppe il silenzio il
padrone dell’ampio complesso, alle mie spalle.
“Oh, no, tranquillo. Non preoccuparti”.
“Non è una preoccupazione, per me, sai? È più un’esigenza.
Gli ospiti vanno trattati con il dovuto rispetto”, mi disse, ed io feci una
smorfia di rassegnazione che mi venne spontanea, ma che fu colta anche dal mio
interlocutore, che mi aveva affiancata e ormai superata di nuovo.
“Lo so, a te interessa solo andare al punto…”, provò ad
affermare, e a quel punto reagii.
“Cazzo, George. A me non frega niente, niente di tutto
questo… e scusami se ho insistito tanto. Sai cosa mi interessa per davvero?
Questo…”.
Non gli diedi tempo di reagire, e gli balzai tra le braccia.
Non oppose resistenza quando le mie labbra premettero contro le sue, e spronai
le nostre lingue ad incontrarsi.
“Solo questo”, sussurrai, interrompendo il bacio per un
istante, per poi riprenderlo subito dopo.
“Ti amo. E non voglio altro da te, né sapere qualcos’altro.
Me ne vado”, conclusi, col suo sapore sulle labbra, e ormai permeato in tutta
la mia bocca.
Mi allontanai da lui, e con fare risoluto, andai verso la
porta dalla quale ero entrata solo qualche minuto prima, decisa ad andarmene e
ad interrompere quella sofferenza condivisa, che io non avevo mai desiderato.
Un rapporto di fiducia doveva essere spontaneo, e crescere
col giusto tempo. Doveva essere come una piantina, che pian piano mette le
radici e cresce, diventando così un albero adulto e forte, in grado di
resistere alle intemperie; era l’unico modo per far sì che il nostro amore non
fosse condannato a restare solo un misero arbusto, pronto ad essere spazzato
via da un qualsiasi minimo evento improvviso e inatteso.
“Ti prego, resta! Ormai sei qui. Resta”, mi venne dietro
Piergiorgio, ma io cercai di non fermarmi. Ero commossa, e non sapevo neppure
bene perché lo fossi, probabilmente per il fatto che ero molto confusa.
“Isa!”, mi richiamò, ma io ero già alla porta d’ingresso, e
lui non aveva avuto né il tempo né la voglia di raggiungermi, e così tornai a
varcare la soglia lasciata socchiusa e a uscire.
Fu Kira ad arrestarmi, infine, ponendosi tra me e la mia
macchina, ancora festosa come se nulla fosse accaduto. Mi fermai un istante ad
accarezzarla, e la cupezza del mio viso lasciò spazio ad un’espressione più
serena.
E poi, Mi ritrovai avvinghiata a Piergiorgio.
“Ti amo… ti amo anch’io”, mi disse, quasi a volermi rassicurare.
Sciolse l’abbraccio forte con cui mi aveva cinto il corpo, e
si lasciò scivolare in ginocchio, platealmente, come se fosse stato un attore
di teatro, porgendomi un pacchettino saltato fuori da chissà dove.
“Prendi”, me lo porse.
Scossi il capo e distolsi lo sguardo, comprendendo quale
oggetto fosse nascosto dentro a quel fragile pacchettino; ero una ragazza, e
Marco, tempo prima, mi aveva già donato un anello di fidanzamento… che però,
poco dopo, gli avevo ridato indietro dopo una piccola lite. Non me l’aveva più
ridato, né l’avevo più rivisto in giro. Probabilmente, doveva averlo rivenduto
per prendere qualche soldo da investire nell’abbonamento della palestra che
frequentava.
George, notando il mio serio minuto di tentennamento molto
serio, sospirò.
“So che immagini cosa ti sto porgendo, e anzi, so anche che
sei certa di saperlo. Per questo ti invito ad accettare il mio dono”.
Allora allungai la mia mano destra, e afferrai il
pacchettino.
“Aprilo, dai”, m’invitò, sollecitandomi di nuovo.
Lo aprii in un baleno, e mi trovai di fronte ad un anello, ma
non come quello che mi ero immaginata, di quelli convenienti e poco
impegnativi. Si trattava di un gioiello intarsiato, composto da piccole perline
d’oro che si fondevano e diventavano un tutt’uno, un vero e proprio capolavoro
di oreficeria.
“E’… molto bello”, riuscii a dire, continuando a squadrare
l’anello, rigirandomelo tra le dita, sinceramente stupita. Era un oggetto
insolito, strano, che non aveva nulla di classico o di scontato.
Piergiorgio, alla fine, l’aveva vinta di nuovo; era riuscito
a sorprendermi piacevolmente, e a fermare la mia marcia verso l’auto.
Naturalmente, aveva potuto anche trarre giovamento dall’azione della sua fidata
amica a quattro zampe, che era troppo coccolona per essere ignorata.
“Mi perdoni se sono sembrato un po’ freddo, poco fa?”.
“Macché, non pensarci più”, dissi.
“No, invece ci penso. Non è iniziata come volevo, questa tua
visita, ma ti prometto che tutto sarà subito raddrizzato. Io non ho segreti da
nascondere, ma solo qualche scheletro nell’armadio, che ti vorrei mostrare, ma
ho paura che tu ti spaventi quanto me”, aggiunse di nuovo Piergiorgio, ed io mi
chinai a suo fianco, lasciando che fosse lui ad infilarmi quell’anello
prestigioso che avevo ufficialmente accettato, anche senza dire nulla.
“Se si sta assieme, le paure vengono condivise e diventano
piccole così”, volli rassicurarlo, sorridendogli, e facendogli anche il cenno
con le dita delle mani, appena l’anello mi fu ben sistemato. Mi calzava alla
perfezione, ed era così bello…
“L’anello”, tornò a dirmi, serissimo, “devi portarlo solo se
vuoi. Voglio che tu mi prometti che lo porterai pubblicamente solo quando ti
sentirai di farlo”.
“Ma…”, tentennai, colta alla sprovvista.
“Davvero, ho notato che la nostra relazione ti crea, per ora,
un minimo di imbarazzo, anche di fronte a tua madre. Per favore, quindi,
indossalo quando vorrai dirmi quel sì, e sarai certa della strada che abbiamo
cominciato a percorrere assieme, seppur da poco”.
Avvicinai il viso al suo e lo baciai sulle labbra, e poi
ancora, premetti affinché il contatto venisse maggiormente approfondito.
Tuttavia, la mia azione fu interrotta dall’ennesimo intervento della cagnolina,
che cercò di leccarmi in faccia.
“Sei proprio una piccola peste!”, affermai, ridendo, mentre
lasciavo perdere George, per tornare a concentrarmi sull’amorevole Kira, che
scodinzolava con felicità.
In un attimo, Piergiorgio si era rialzato e mi sovrastava con
la sua ombra benevola.
“Io voglio solo dirti che ti amo. Voglio giurartelo, sono
disposto a ripetertelo in continuazione, e ti amo con sincerità. Il mio cuore è
tuo, e voglio che… qualunque cosa accada, e qualunque cosa tu scopra su di me,
non metta in crisi il tuo giudizio nei miei confronti”, riprese a dirmi, e anche
se giocherellavo con il cane, mi venne da pensare che qualcosa di grosso doveva
esserci in pentola.
Non mi spiegavo tutta quell’introduzione, se comunque doveva
essere tutto limpido e alla luce del sole. In fondo, non m’importava neanche
più; l’uomo che amavo era lui, in quel momento, e se volevo continuare ad
amarlo dovevo sapere accettare e comprendere.
Era una persona di una certa età, non più un ragazzino, e
quindi immaginavo che nel suo passato più o meno recente ci fosse stata almeno
qualche fiamma, poiché era un uomo piacente allo sguardo, che sapeva
conquistare le donne con la sua galanteria e la sua dolcezza. Era proprio la
sua dolcezza a colpirmi maggiormente, siccome purtroppo ero molto abituata agli
sbalzi d’umore dei miei coetanei, volubili come bambini in fasce.
“Non ti giudicherò, se è per questo”, affermai, con risoluto
imbarazzo.
‘’No, puoi giudicare quello che vuoi. Basta che tu non creda
cose sbagliate, e che… ti fidi di me”.
Si chinò su di me, e percepii il suo fiato sui miei capelli.
“Io mi fido di te, George”, lo rassicurai, continuando a
prestare attenzione anche a Kira, che si era distesa sulla schiena, in modo
giocoso, e lasciava che continuassi ad accarezzare il suo pelo finissimo e
curato.
Piergiorgio allora mi baciò prima al centro della nuca, poi,
con delicatezza, afferrò il mio viso da sotto al mento e lo alzò, affinché le
nostre labbra potessero tornare ad incontrarsi, e quella volta anche le nostre
lingue.
Lasciai perdere il cane e mi tirai su in piedi senza smettere
di baciarlo, con lui che lasciava a me l’iniziativa e seguiva i miei movimenti,
senza perdere il contatto fisico.
“Questa casa è troppo grande per me. Mi spaventa, come un
bambino… ma ora vieni, vieni avanti, perché sei mia ospite, mia cara Isa, e
perché voglio renderti partecipe di tante cose, e di tanti ricordi, poiché so
che ci tieni”, mi disse, sorridendomi, quando tornammo a distaccare i nostri
visi dalla loro momentanea unione.
“Io tengo solo a te”, continuai a precisare, in virtù della
giustizia, anche per forza di cose.
“Ed io lo so, lo so. Lo vedo sempre di più, non c’è bisogno
che tu lo ribadisca ogni dieci secondi, a parole. Io ricambio tutto quello che
riversi verso di me, e lo amplifico, ma adesso basta discorsi, e vienimi dietro
con serietà; entra nel mio mondo”, tornò ad invitarmi, e s’incamminò di nuovo
verso casa sua, così ricominciai a seguirlo.
Ero sicura che saremmo andati al punto, non potevano esserci
altre indecisioni o incomprensioni tra noi. Eravamo destinati, quel giorno, a
conoscerci per la prima volta in modo paritario, senza più ombre nascoste da
qualche parte, in grado di turbare i nostri momenti trascorsi assieme.
Ero curiosa e non mi sarei fermata, seppur fossi decisa ad accettare
solo quello che George mi avrebbe mostrato o narrato, senza giudicare o pensare
male, con la stessa educazione e il medesimo rispetto che lui stesso mi aveva
da sempre riservato e rivolto.
NOTA DELL’AUTORE
Ci aspetta una visita piena di sorprese… xD
Al prossimo capitolo, mie carissime e fedeli amiche ^^