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Autore: scarletRose88    24/10/2018    0 recensioni
In un’Europa devastata dalla guerra e dalle conseguenze del cambiamento climatico, la popolazione conta poche centinaia di migliaia di individui. Molte regioni sono scomparse perché sommerse dagli oceani o perché sepolte dalla sabbia del deserto. Da circa centocinquant’anni si è costituito l’Impero di Urbia - ispirato all’antico impero romano - che ha ereditato quel che resta della civiltà. Proprio al di là dei suoi confini, un giovane si risveglia dopo un lungo coma senza nome e identità, assumendo per questo il nome “Nemo”. Ad accompagnarlo nella solitudine della sua condizione c’è soltanto una canzone, che risuona confusamente nella sua testa al grido di “vendetta e libertà”. Quelle parole rappresentano per lui l’unica traccia di sé e da cui intende partire per iniziare un viaggio alla scoperta del suo passato.
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ESTREMA FRONTIERA
Nemo si presentò nell’ufficio di Andegor di buon’ora. Quando entrò si accorse che c’era Virgil al suo fianco e a stento trattenne il disagio che lo pervadeva ogni volta che se lo ritrovava di fronte.
«Siediti, Nemo. Dobbiamo parlare» lo invitò con la sua contraddistinta calma.
«Che ci fa lui qui?» ribatté ostile senza muovere un passo.
Sospirò attraverso i denti scoperti: «D’accordo, andremo al dunque. Ho deciso di acconsentire al tuo desiderio, Nemo» cominciò «ma a una condizione».
Il giovane si allarmò.
«Virgil ti accompagnerà».
Scattò in avanti brandendo un pugno: «No! Non lo voglio con me, non mi fido di lui».
Silenzioso fino a quel momento, Virgil intervenne: «Posso comprendere la tua diffidenza nei miei confronti, Nemo, ma devi ammettere che hai bisogno di me se vuoi introdurti nelle Terre Imperiali».
Indietreggiò di un passo, abbassando il pugno: «Grazie, ma farò a meno del tuo aiuto» quindi si rivolse ad Andegor «e tu, come puoi fidarti di un ex soldato dell’Esercito imperiale? Non crederai che basti spalare un po’ di cemento perché possa convincerti della sua buona fede?»
L’uomo scosse la testa, come sempre faceva quando era sicuro delle sue idee: «Virgil ha vissuto con noi per quarant’anni. Ha viaggiato per un po’ ma poi è tornato qui. Ha preferito vivere fra i Mostri che fra gli uomini».
«Concedimi almeno la possibilità di accompagnarti fino all’Estrema Frontiera» riprese Virgil portandosi una mano sul cuore.
Ringhiò spostando il peso da una gamba all’altra. Non aveva altra scelta, pare.
 
«Non voglio scoraggiarti ma tutti quelli che hanno oltrepassato il confine non sono mai tornati indietro, eccetto…»
«Eccetto Virgil» lo agganciò lanciando un’occhiataccia all’oggetto della discussione.
«Già, di lui puoi fidarti. È l’unico fra noi che ha conosciuto il bello e il buono dell’Impero, inoltre potrà agevolarti negli spostamenti evitandoti trappole e posti di blocco» spiegò, poi si arrestò pensoso. «Di chi è che vuoi vendicarti, Nemo?»
Sedette, stanco: «Di coloro che mi hanno privato del mio nome» precisò.
«E come farai? Non hai alcun indizio, non hai neppure la certezza che sia stato il Governo» ribatté preoccupato.
Gli prese una mano, era ruvida e scheletrica, come il resto del suo corpo. «Tu mi hai aperto gli occhi, Andegor. Sei stato come un maestro per me, mi hai insegnato a scrivere poesie, a suonare la chitarra, a riconoscere le stelle, a scandire il tempo» strinse le dita affusolate. «Mi hai insegnato a camminare».
«Avrei voluto aiutarti a ricordare» sussurrò.
«No, adesso devo farcela da solo» e si alzò imbracciando la borsa. Prima di uscire dall’ufficio gli si rivolse un’ultima volta: «Perché mi hai chiesto di scriverti la canzone, Andegor?»
Se anche gli era anatomicamente impossibile sentiva di dover sorridere, felice di poter rispondere a quella domanda: «Perché non potessimo dimenticarla. Ricorda: verba volant, scripta manent» recitò e il ragazzo si voltò a guardarlo commosso. «Nessuna Damnatio memoriae potrà cancellarla se saranno i Mostri a preservarla» concluse.
 
Nemo e Virgil iniziarono il loro viaggio diretti all’Estrema Frontiera, un’immensa barriera di granito costruita dal Governo subito dopo la ribellione dell’Hispania, e al di là della quale di estendeva la provincia di Danubia. La muraglia esisteva già come barriera naturale ma lo Stato aveva pensato di rafforzarne la solidità per impedire ai cittadini di emigrare e agli “stranieri” di penetrare. Virgil era stato uno dei pochi a superarla nel tentativo di ritrovare una persona cara per portarla con sé a Notre Dame, tuttavia quando capì che rintracciarla sarebbe stata un’impresa impossibile, tornò indietro.
Nemo provava sentimenti contrastanti per quell’uomo, lo ammirava per il suo coraggio ma lo disprezzava per il suo passato. Andegor una volta gli disse che dal passato non si poteva scappare, chissà, magari Virgil lo aveva accompagnato per affrontare i suoi fantasmi. Infondo tutti avevano una missione da compiere.
«Ho riflettuto a lungo sulla strategia cui dovremo attenerci una volta dentro» disse Virgil interrompendo le sue cogitazioni.
«Strategia?»
«Non vorrai introdurti nella provincia di Danubia senza un piano, spero. All’interno dello Stato tutti sono qualcuno. Ognuno ha il suo posto, il suo ruolo, dunque non esistono mendicanti, senzatetto o clandestini. I controlli sono serrati» spiegò e nel sospingere il cavallo al trotto l’animale sbuffò.
Dopo l’esplosione in cui gli uomini di Ribera avevano perso la vita, Nemo aveva condotto i cavalli nel villaggio dei Mostri per non abbandonarli a se stessi. Adesso erano di nuovo i suoi compagni di viaggio.
«Gli unici a non possedere una vera e propria identità sono i servi o, come preferisco chiamarli io, gli schiavi».
«Schiavi?» si accigliò.
Il Forte dell’’Estrema Frontiera includeva nel suo perimetro un’enorme prigione in cui erano educati gli schiavi. Lo Stato insegnava loro le buone maniere e tutti quei mestieri che erano richiesti dai compratori. Se un ricco borghese necessitava di un eccellente scribacchino pretendeva il massimo nei parametri della velocità e dell’attenzione; una nobildonna, invece, richiedeva una schiava che fosse capace di acconciare i capelli, versare il tè, ricamare e preparare unguenti.
«È come andare al mercato, insomma» scherzò, quindi lanciò un’occhiata beffarda al compagno. «Dì la verità, Nemo, tu che cosa vorresti?» chiese per stuzzicarlo.
Quella domanda lo mandò in confusione e impiegò diversi minuti a rispondere: «Io non comprerei mai un essere umano!»
Virgil schioccò la lingua scuotendo la testa: «Non ci siamo, non ci siamo» e lo guardò con attenzione «non è così che ragiona un uomo dello Stato. Devi apparire cinico, razionale, pragmatico».
Abbassò lo sguardo serrando i denti.
«No, Nemo, no. Un uomo dello Stato non abbassa mai lo sguardo, egli guarda tutti negli occhi» riprese alzando la voce.
Il giovane sussultò irritato: «Insomma il tuo piano è quello di trasformarmi in uomo dello Stato?»
Inarcò le labbra in un sorriso sghembo: «Ti sei mai guardato allo specchio, Nemo?»
Ancora una volta non comprese dove volesse andare a parare. Scosse la testa.
«Beh, devi sapere che sei un bel ragazzo. Un tipo attraente» riprese senza smettere di sorridere.
Arrossì violentemente.
«Già, piaceresti alle donne e molto probabilmente anche agli uomini» osservò compiaciuto.
Incrociò il suo sguardo celando della preoccupazione, non si spiegava il motivo per cui quel discorso lo innervosì.
«La bellezza è un’arma potente e tu ne se in possesso» aggiunse stranamente serio. «Ti apre molte strade».
«Vorresti vendermi per i piaceri carnali di qualcuno?» sussurrò tagliente.
«Perché sei sempre così suscettibile? No, hai frainteso. Sto solamente cercando di spiegarti come funziona. All’interno dello Stato tutti hanno un compito e se vogliamo infiltrarci nel sistema dobbiamo averne uno» ribatté pacato.
Iniziava a capire, Virgil aveva ragione. Se entrambi non avevano un’identità all’interno dello Stato non avrebbero potuto essere altri che schiavi. Strinse le briglie tra le dita. «E se ci uccidono? Se ci beccano all’esterno della prigione credendoci degli evasi?»
Virgil annuì, trovando pertinente quella domanda: «Non voglio mentirti, Nemo. È una possibilità. Ma se vuoi compiere una grande missione devi affrontare grandi rischi».
«Una grande missione?» aveva definito così quel folle viaggio.
Sospirò prima di guardarlo dritto negli occhi: «Io non so chi sei, Nemo, ma sento che tu sei stato qualcuno di molto, molto importante una volta».
I battiti nel petto accelerarono. Il signor Nessuno era stato qualcuno di importante? Quell’idea gli suscitò un’allegra risata cui Virgil reagì distogliendo lo sguardo sopra un sorrisetto sghembo.
«Ridi pure, Nemo. Ma possono essere straordinarie le azioni di un uomo se dettate da un animo puro e da uno scopo valido» si arrestò un momento, poi riprese «sento che per te è stato così».
«E tu perché lo fai?» chiese impedendosi di apparire lusingato da tanta ammirazione.
«Ho centoventuno anni, Nemo. Non posso vivere per sempre spalando macerie, se devo morire prima o poi, voglio farlo per qualcosa di importante».
Si rizzò, colpito, e decise di non aggiungere altro affinché quelle parole potessero ripetersi all’infinito nella sua testa per il resto del viaggio, simile a una silenziosa preghiera.
Il tragitto che li condusse fino al confine fu tranquillo ma inquietante. Nemo ebbe modo di comprendere il motivo per cui le Terre Perdute erano considerate temibili e spaventose. Durante il viaggio aveva avvistato in lontananza branchi di cervi a due teste o uccelli grossi come draghi. In alcuni punti della distesa temperata aveva intravisto un luccichio fluorescente nel bel mezzo della notte buia. La guerra atomica aveva creato il “Mondo dei Mostri”, un luogo bizzarro ma ricco di fascino che Nemo amava paragonare a quello delle favole. Si sentiva infatti come uno di quegli orfani alla ricerca della sua casa, costretto a superare diversi ostacoli in una terra impervia e sconosciuta.
Impiegarono due giorni per arrivare al confine, fermandosi soltanto per dormire qualche ora. Il Forte era sorvegliato dai Vigilanti, appostati nei gabbiotti costruiti sui bastioni, da cui potevano sparare con potenti fucili di precisione. Pertanto, decisero di penetrare di notte approfittando dell’oscurità.
Nemo esaminò turbato i fari che si proiettavano fino a due miglia dalla barriera e sentiva che le gambe tremavano in maniera incontrollabile.
«Non preoccuparti» lo rassicurò il compagno come leggendogli nel pensiero, «ci sono dei punti ciechi e io li conosco tutti». Tirò fuori dalla bisaccia un vecchio modello di AK-47 controllandone le munizioni, quindi lo passò a Nemo. «Sai come si spara, ho notato che te la cavi» disse con il piglio di un sergente che parlava al suo commilitone.
Era vero, proprio come quando salì a cavallo e guidò la bestia al galoppo, imbracciare un’arma si rivelò un’esperienza fin troppo familiare. Si sentiva stranamente a suo agio con un fucile d’assalto di due chili e mezzo in mano, inoltre esercitandosi con Virgil, aveva scoperto di essere anche un eccellente tiratore. Forse, come il suo compagno, era stato un soldato al servizio dell’Impero e quell’idea lo atterrì.
«Ascoltami bene» riprese caricando anche il proprio fucile, un’automatica di fabbricazione pre-imperiale, «adesso dovrai seguirmi come un’ombra, non prendere iniziative personali e cerca di non fare rumore» ordinò perentorio.
Nemo annuiva mentre l’adrenalina fluiva nelle sue vene, le gambe non tremavano più e si sentiva più lucido che mai. Iniziò a correre al seguito del compagno cercando di contenere l’affanno dell’ansia e della fatica. In pochi minuti raggiunsero il muro della barriera mentre le proiezioni luminose dei fari fluttuavano alle loro spalle. Virgil indicò una delle porte di accesso e si appostò a un margine invitando Nemo a fare lo stesso dall’altra parte. Nel momento in cui uno dei Vigilanti fosse uscito per l’ispezione all’esterno, entrambi lo avrebbero sequestrato per sfruttare il suo trasmettitore.
I controlli all’esterno iniziavano all’alba quando la luce rendeva difficile il tentativo dei ribelli di attaccare. Il sole aveva appena fatto capolino dalle montagne oltre la barriera quando i bastioni della porta si aprirono per fare passare due Vigilanti. Nemo e Virgil si scambiarono uno sguardo smarrito nell’apprendere che avrebbero dovuto vedersela con due sentinelle. Nemo scosse la testa in maniera convulsa mentre il sudore gli imperlava la fronte, Virgil, invece, agì in fretta. In due semplici mosse colpì un Vigilante alla testa con il fucile roteando fino all’altro che atterrò con un calcio nello stomaco. A quel punto riprese a colpire sul volto il secondo ancora cosciente mentre urlava a Nemo di impossessarsi dei loro trasmettitori. Il ragazzo obbedì e strappò gli aggeggi che i soldati tenevano allacciati al colletto della tuta antisommossa. Uno dei trasmettitori gracchiò e Nemo incontrò lo sguardo turbato ma lucido di Virgil.
«Passamelo» ordinò in un bagno di sudore. La mano di Nemo glielo consegnò tutta tremante e attese la prossima mossa dell’alleato.
«Vigilante all’esterno, niente da riferire. Passo» disse nel trasmettitore.
Nemo assisteva affascinato ma terrorizzato. Attesero la risposta dei colleghi all’interno ma non arrivò. Virgil apparve sempre più nervoso e Nemo stava considerando l’idea di ritirarsi. Lanciò diverse occhiate al paesaggio sconfinato che si estendeva intorno alla barriera ma Virgil scosse lentamente la testa intuendo il suo proposito.
«Ricevuto» gracchiò improvvisamente il trasmettitore. I compagni si guardarono liberando un sospiro di sollievo, quindi passarono alla seconda fase del piano. Spogliarono i Vigilanti delle loro tute verdi e dei caschi integrali per indossarli sperando nel frattempo che le taglie coincidessero. Quella di Virgil era un po’ troppo stretta per la sua mole gigantesca ma cercò di sopportarla. Ciò che lo infastidiva di più era il cavallo dei pantaloni che decisamente troppo stretto. Abbandonarono le proprie armi in mezzo ai cespugli spontanei che si arrampicavano lungo la cinta muraria e dopo aver indossato i caschi si prepararono a rientrare. Per quanto si fosse rivelato difficile fino a quel momento, la parte più complessa iniziava adesso. La presenza di due Vigilanti aveva permesso ai due compagni di penetrare nell’avamposto militare insieme facilitando le cose. Il piano iniziale prevedeva che solamente uno dei due si camuffasse perché lasciasse entrare il compagno sotto forma di prigioniero. A quel punto avrebbero persino potuto evitare di mischiarsi agli schiavi.
I bastioni di ferro si aprirono e i due finti Vigilanti calcarono il suolo imperiale.
Il Forte, compreso di una prigione e un altoforno in cui erano fabbricate armi e munizioni, presentava un vasto piazzale dove un esiguo manipolo di Vigilanti stava compiendo delle esercitazioni di fanteria. Quando erano in servizio, i soldati evitavano di parlare, vigeva una rigida disciplina che, allo stato delle cose, non poteva che beneficiare la situazione dei due intrusi.
L’esercito imperiale contava diverse forze armate costituite dai Vigilantes, i quali si distinguevano in Vigilanti di Polizia, da Campo e di Frontiera. I primi operavano all’interno delle città nella tutela dell’ordine pubblico, equipaggiati di uniformi bianche e armi leggere; i secondi appartenevano alle unità impegnate in zone di guerra e che svolgevano missioni di breve durata, indossavano l’uniforme mimetica dai toni verdi e marroni armati soprattutto di armi automatiche; i terzi, dalle caratteristiche uniformi verde muschio, erano assegnati ai luoghi di confine o a guardia di mura e passaggi strategici all’interno dell’Impero.
Tra i Vigilanti rientravano, infine, i militari dell’Armata Speciale dei cosiddetti Praesidia, che operavano nelle missioni segrete, svolgendo anche operazioni d’Intelligence, e che spesso erano confinati agli avamposti delle terre in rivolta. Indossavano la distintiva uniforme scura completa di elmetto bianco, equipaggiati di armi ad alta tecnologia, come i fucili a laser o i moschetti incendiari.
Nemo seguì Virgil mentre prendeva posizione davanti all’ingresso delle prigioni. Capì che quei gesti erano familiari per lui e che in passato aveva lavorato anche sulla Frontiera. Restarono lì impalati per ore senza poter scambiare una parola, avevano riposizionato i trasmettitori e ogni parola sarebbe stata intercettata dal nemico. Le gambe di Nemo tornarono a tremare tanto che temette potessero essere visibili a tutti. Virgil appariva invece freddo e compassato nella sua posizione, ma percepiva quanto fosse nervoso.
Il sole era allo zenit quando uno dei Vigilanti si avvicinò accigliato. Differentemente dagli altri, portava una fascia decorata sul braccio, con tutta probabilità si trattava di un Vigilans Maggiore.
«Che cosa state aspettando? C’è la pausa pranzo, oppure volete digiunare tutto il giorno?»
Ai soldati era concesso un solo pasto durante il servizio che durava mediamente dalle 8 alle 12 ore con una pausa di circa due ore. Un mestiere duro ma ben ricompensato, la paga era buona e per i più ambiziosi poteva aprirsi la strada della politica. Il cibo era altamente calorico, costituito da pane, carne e frutta, tutto ciò che forniva le giuste quantità di proteine e vitamine necessarie a svolgere un’attività tanto impegnativa. Dopo essersi sfilati il casco mostrando a tutti il proprio volto, gustarono il rispettivo pasto come se fosse l’ultimo della loro vita, a quel punto il loro piano poteva essere sventato da un momento all’altro. Fortunatamente nessuno fece caso a loro né rivolse a loro la parola.
A un certo punto, però, un giovane soldato si avvicinò al Vigilans Maggiore, parlandogli animoso. Quello accolse la sua informazione con un evidente pallore sul viso e si precipitò nel suo ufficio. Dopo qualche minuto la sua voce rimbombò dagli altoparlanti: «I Vigilanti Kroeger e Algas si presentino immediatamente a rapporto. Ripeto: i Vigilanti Kroeger e Algas si presentino immediatamente a rapporto».
Nemo e Virgil si scambiarono uno sguardo eloquente e compresero di essere in un mare di guai. Il loro travestimento era finito. Sperarono di resistere fino alla fine del loro turno ma qualcuno doveva essersi accorto che i Vigilanti che stavano impersonando non avevano svolto alcune pratiche di routine. Virgil fece un cenno a Nemo e insieme si diressero nell’altoforno. Nessuno considerò insolita la loro presenza lì dentro e proseguirono fino a un magazzino di imballaggi. L’area era deserta.
«Togliti la tuta» ordinò Virgil facendo lo stesso con la propria.
«Cosa? E come usciremo da qui inosservati senza il travestimento?» protestò allarmato da quell’iniziativa.
«Non capisci? Non usciremo mai da qui come soldati! Prima di finire il turno scopriranno dello scambio di persona. Dobbiamo fare sparire queste tute» rimbeccò seccato.
Nemo si arrese e si spogliò della calda e morbida uniforme verde. Si nascosero all’interno del magazzino fino a sera quando, suonata la sirena del cambio di guardia, uscirono dal nascondiglio per dirigersi nuovamente all’altoforno. Virgil appallottolò le tute e le gettò nel fuoco lavico del laboratorio, quindi si diresse verso un’uscita secondaria. Nemo non ce la faceva più a starsene zitto e intervenne per fare chiarezza sulle loro prossime mosse: «Che diavolo stiamo facendo? Dove andremo adesso?»
«Laggiù» rispose l’amico indicando l’imponente palazzo delle prigioni.
«Sei ancora convinto che come schiavi avremo una possibilità?» reagì nervosamente.
La pazienza abbandonò le membra irrigidite di Virgil che afferrò il colletto del ragazzo: «Conosco molto bene questo posto e se dico che come soldati non usciremo mai vivi di qui puoi credermi» allentò la presa. «In questo momento stanno setacciando questo posto alla ricerca dei due Vigilanti scomparsi ma, quando realizzeranno che non v’è traccia né di loro né delle loro tute, crederanno che avranno disertato. Succede spesso».
Nemo parve calmarsi di fronte a quella rapida spiegazione e non poté fare altro che accettare il suo destino.
«Sei pronto, quindi? Tra poco sarai davvero il signor Nessuno» scherzò senza ilarità. «Seguimi senza fiatare» e uscì all’esterno.
Il buio della notte copriva i movimenti e il rumore della marcia dei soldati o degli spari in esercitazione celò i passi. Giunti nel vicolo che li separava dalle mura delle prigioni, Virgil tornò a sciorinare ordini: «Dirigiti nel braccio dei Senza Nome, mi hai sentito?»
Gli occhi del ragazzo tremarono e al cuore mancò un battito.
«Nemo, mi hai sentito?» gli prese una guancia per destarlo e lui parve riaversi.
«Sì, sì, i Senza Nome, ho capito».
«Bene, io sarò dietro di te. Ti coprirò le spalle» concluse e, inaspettatamente, lo abbracciò. «Buona fortuna, amico».
Nemo non ebbe il tempo, né la forza di ricambiare l’augurio, tale era l’emozione che gli riempì il petto.
Ripresero a correre insinuandosi negli stretti e tortuosi corridoi del palazzo fino al terzo piano dove due Vigilanti erano posti a guardia del cancello di ferro. Virgil lanciò un sasso nel corridoio opposto e una delle due sentinelle si allontanò.
«Ehi! Siamo qui!» bisbigliò sotto gli occhi attoniti di Nemo. Il Vigilante svoltò l’angolo e Virgil lo tramortì con una gomitata in faccia. «Andiamo» lo esortò impossessandosi delle chiavi, quindi si introdussero nel braccio dei Senza Nome.
L’altra sentinella tornò al suo posto e a quel punto scoprì il corpo sanguinante del collega riverso a terra. Comunicò qualcosa nel trasmettitore e controllò le porte della cancellata. Sembrava tutto a posto.
«Pare che infiltrarsi in una prigione sia complicato tanto quanto evadere da essa, eh?» commentò Virgil in vena di scherzi.
«E pensare che poco fa mi hai quasi commosso con le tue moine» ribatté Nemo a tono.
Il compagnò si fermò di colpo e assunse la sua espressione bieca: «Non dimenticarti di quell’abbraccio, smemorato. Se sopravvivrai a questa prigione, il mondo che ti aspetta fuori non sarà limpido e puro come quello che hai conosciuto insieme ad Andegor».
Quel nome scatenò in Nemo una tempesta di emozioni.
«Nei momenti di maggiore difficoltà quell’abbraccio ti conforterà, proprio come quella canzone» continuò imperterrito. «Ora più che mai hai bisogno di saper discernere i sentimenti affinché tu possa imparare a capire di chi puoi fidarti e di chi non puoi».
«Ho capito, Virgil. Ho imparato a fidarmi di te troppo tardi» intervenne rassegnato. Virgil abbozzò un breve sorriso e annuì.
Attraversarono il braccio dei Senza Nome, decidendo dentro quale cella preferivano introdursi. D’altronde sarebbe stata la loro casa per chissà quanto tempo.
«Io scelgo questa qui» disse Virgil con le mani sui fianchi. Le persone lo fissavano terrorizzate al di là delle sbarre.
Mentre apriva il cancello per entrare, Nemo iniziò a riflettere sulla piega che avrebbe preso la sua vita a partire da quel momento. Non poteva scegliere la stessa cella di Virgil, rischiavano di destare sospetto fra i prigionieri, però non voleva staccarsi da lui. Proprio quando aveva iniziato a considerarlo un amico, doveva dirgli addio.
«Ci ritroveremo un giorno» lo destò leggendogli nel pensiero come solo lui sapeva fare. «Sarò un eccellente soldato, oppure un buon macchinista. Sappi almeno questo, così saprai da dove iniziare a cercarmi» gli suggerì borioso.
Strinse i pugni lungo i fianchi sul punto di crollare: «E io? Che cosa sarò io? Come mi troverai?» le lacrime bagnarono le ciglia.
«Tu sarai “qualcuno”, Nemo, qualcuno di molto, molto importante. Tutti sapranno chi sei» rispose e dagli occhi del ragazzo scivolarono copiose lacrime. «Adesso vai!» lo esortò.
 
Nel braccio dei Senza Nome i prigionieri, costituiti per lo più da uomini caduti in disgrazia, prostitute, figli di debitori, orfani e “stranieri”, affrontavano una prima selezione perché potessero iniziare il loro “corso di formazione”. La selezione partiva dall’aspetto esteriore per concentrarsi poi sulle rispettive qualità e caratteristiche, basando l’addestramento sulle attività in cui eccellevano di più. Era un percorso lungo e poteva capitare che qualcuno risultasse inefficiente in qualsiasi materia tanto che i scrutinatori potevano decidere di spedirlo alle miniere o di condannarlo alla fucilazione. Nell’Impero di Urbia tutti erano utili ma nessuno era indispensabile, se poi risultava persino inetto si avanzava la pretesa di farlo fuori senza tanti complimenti.
Nemo aveva affrontato la prima selezione scorgendo nei volti degli educatori espressioni che guizzavano dalla meraviglia al compiacimento. Lo avevano totalmente denudato invitandolo a sfilare al loro cospetto. Li sentiva bisbigliare sulla sua altezza, sul peso, sui capelli, sull’incarnato, sul bizzarro colore degli occhi (poiché era affetto da eterocromia) e persino sulla sua voce. Dopodiché lo trasferirono in un altro settore insieme ad altri detenuti, tutti sani e prestanti. Osservandoli nelle loro uniformi striminzite, si rendeva conto di cosa intendesse Virgil per bellezza esteriore. Tutto ciò che appariva superficialmente intatto, come una terra vergine e inesplorata, come una zona “incontaminata”, diventava qualcosa di appetibile e desiderabile. I prigionieri risiedevano in celle comuni ma maschi e femmine vivevano separati, solo a pranzo condividevano la medesima mensa. Quello era l’unico luogo in cui era possibile confrontarsi con l’altro sesso, quello che Nemo gradiva e verso cui si sentiva maggiormente attratto. Era consapevole dell’interesse che suscitava in alcuni suoi compagni di cella ma cercava di evitare i loro sguardi per non cadere in fraintendimenti. Con le donne era diverso, si ritrovava a fissarle, incrociava i loro occhi e godeva dell’elettricità che gli provocava il loro casuale tocco. Aveva già provato una simile sensazione, con Bea: un brivido lungo la schiena, un’inesauribile curiosità. Si chiese se la bellezza fosse una faccenda soggettiva. Per quanto Bea fosse magra e minuta, la trovava indubbiamente più affascinante di tutte quelle che lo circondavano. Quelle prigioniere erano assai proporzionate, avevano gambe lunghe, denti dritti e tanta carne addosso. Una volta Andegor gli disse che “la bellezza era in tutto ciò che ci faceva stare bene”. Forse era per questo che trovava Bea così bella, perché lo faceva stare bene. Dunque la bellezza non era qualcosa che si contemplava ma qualcosa che si percepiva.
Sedette su uno sgabello girevole lasciandosi trascinare dall’inerzia del movimento. Pensava ad Andegor e a quanto gli mancassero i suoi consigli. Rimpiangeva il tempo trascorso insieme ai Mostri che, per quanto breve, lo aveva segnato profondamente. Posò un piede per terra arrestando il movimento della seggiola e tornò con la mente all’abbraccio di Virgil. Era come diceva lui, lo riscaldava nelle notti fredde, lo rassicurava nei momenti di sconforto. Virgil non era stato selezionato per il suo settore e ormai poteva essere ovunque.
La seconda parte della selezione prevedeva un saggio delle qualità dei prigionieri che prescindeva dal loro fascino. Con sua sorpresa, Nemo risultò il più abile nella lotta libera, nella scherma e nelle armi da fuoco. Inoltre dimostrò di possedere un buon senso del ritmo ballando un valzer e accompagnando un cantante con la chitarra. In realtà aveva imparato a strimpellare nel villaggio dei Mostri poiché quella era un’attività indubbiamente nuova per lui, anche nella sua vita precedente.
Spesso temeva di attirare un po’ troppo l’attenzione su di sé per cui qualche volta cercò di apparire maldestro. Voleva evitare che gli educatori gli porgessero qualche domanda sul suo passato ma fortunatamente a nessuno importava chi fossero stati prima i Senza Nome.
Il corso formativo di Nemo proseguì per oltre tre mesi. Aveva imparato attività familiari e sconosciute che lo allontanavano sempre di più dal vecchio Nemo, quello ingenuo e insicuro, che camminava a testa bassa, che non sapeva controllare le proprie emozioni. Era un nuovo Nemo, adesso, pronto per essere acquistato.
Erano davvero in pochi coloro che lo affiancarono nelle celle definitive che, tra l’altro, assomigliavano a delle camere d’albergo. Ognuno aveva la propria stanza con tanto di letto, comodino e tappeto. Un vero lusso rispetto ai tempi della prima selezione.
«Ehi, n. 856» lo chiamò un compagno dalla propria stanza.
Nemo accorse e lo trovò disteso sul letto con le mani sulla testa. Era n. 543, uno tra i prigionieri più affascinanti e gentili del suo settore. Portava i capelli biondi in morbidi riccioli e il corpo asciutto e robusto era levigato come il marmo. Inoltre era un impareggiabile musico e ballerino.
«Ho paura, siamo arrivati fino a questo momento e ho paura» confidò con voce tremante.
«Non devi, hai dimostrato cosa sai fare e sarai premiato per questo» lo rassicurò.
«Davvero?» si sollevò per guardarlo in faccia rivelando le lacrime «Invece potrebbe essere solo l’inizio della fine!»
«Perché dici queste cose?» intervenne scuotendo la testa.
«Saremo schiavi… saremo solo la loro merce. Da domani non saremo qualcuno, domani perderemo per sempre noi stessi» sentenziò singhiozzante.
Nemo ritornò nella sua stanza sconsolato. Comprendeva i sentimenti di n. 543, era normale avere paura, ma per lui era diverso. Era arrivato fino a questo punto per uno scopo, la sua vera missione stava per iniziare. L’indomani sarebbe diventato una parte di quel sistema che voleva distruggere.
 
  
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