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Autore: Persej Combe    04/11/2018    3 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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   Il cappotto che scivolava da una parte trascinato dal peso del borsone che cadeva inesorabilmente via dal braccio, la divisa da lavoro addossata malamente su una spalla, le dita che tentavano frenetiche di annodare le scarpe lottando con i lacci che sfuggivano da ogni parte.
   «Non dirmi che te ne eri dimenticato», lo stava rimbeccando Aura* al telefono.
   «Non me ne sono dimenticato», sbottò Meyer affannosamente, che non sapeva più dove sbattere la testa e faticava a trattenere in equilibrio il cellulare contro l’orecchio, piegato in una posa tanto scomoda quanto improbabile per cercare di sorreggerlo mentre le mani erano impegnate a litigare più giù sopra il piede, poggiato piuttosto spartanamente su una sedia della cucina.
   «Lo sai che Lem ci teneva moltissimo che andassimo entrambi a vederlo alla recita», continuava a dire lei, «Avevamo deciso d’incontrarci per quest’ora e andare insieme. Si può sapere dove sei?».
   Fu una corsa fino alla scuola. Meyer aveva avuto appena il tempo di cambiarsi. Non sapeva perché avesse fatto così tardi. Ricordava solo che ad un certo punto aveva guardato l’orologio e una morsa dolorosa l’aveva attanagliato nel petto, così era uscito dal negozio con la tuta sporca, lasciando appena che Blaziken rimanesse a fare da guardia. Era salito a casa un attimo, un attimo soltanto, poi era scappato di nuovo e adesso gli occhi gli bruciavano di fronte alla furia del vento.
   Giunse ai cancelli del cortile che quasi non respirava più. Si sostenne con una mano intrecciando le dita contro le venature fredde dell’inferriata, fermandosi a riprendere fiato. In lontananza scorse un gruppo di madri che parlavano tra di loro e ridevano, e riconobbe la figura minuta di Aura, che teneva Clem in braccio. Vide la donna girarsi e lo sguardo azzurro di lei lo penetrò con gelida asprezza.
   Rimase a guardarla mentre si incamminava con le altre per tornare dentro: stava iniziando la seconda parte della recita e lui non aveva potuto assistere all’inizio. Passarono dei minuti prima che riuscisse a trovare anch’egli la forza di entrare e di seguirle. Ai suoi piedi, un giocattolo era stato smarrito da qualcuno.
   La scuola dove lui ed Aura avevano iscritto Lem non era particolarmente prestigiosa, ed anzi era piuttosto piccola e i locali erano stretti. Di certo questo non doveva rappresentare un problema per dei bambini, ma durante quelle occasioni a cui partecipavano anche i genitori era difficile coordinare tutti nel giusto spazio. Non vi era un teatro, e l’unico ambiente degno di nota era la palestra; era lì che i bimbi stavano cantando e che erano stati appesi i festoni e i lavoretti e le fotografie allegre. Meyer osservò i disegni attaccati all’ingresso e notò di sfuggita quello del figlio: un Ampharos e un Blaziken colorati con dei bei pastelli accesi, uscendo rigorosamente fuori dai contorni. Sorrise.
   Aura gli stava facendo segno dalla folla che lei e la bambina erano riuscite a trovare un posto a sedere nelle prime file. Meyer le raggiunse e si accomodò al loro fianco. Clem dormiva in grembo alla madre.
   «Non ha fatto altro che correre tutto il pomeriggio e adesso si è stancata», spiegò Aura.
   Poi la mano di lei sfiorò quella di lui e la strinse tra le dita, troppo sottili però per riuscire a trattenerla interamente contro il palmo.
   «Perdonami per prima. Ma vedi, non vorrei che la nostra situazione gli sia di peso più di quanto non lo sia già».
   Gli occhi di Meyer vagavano nel groviglio di teste e di capelli ben pettinati dei marmocchi che aveva di fronte, tutti vestiti uguali, tutti precisi e sorridenti, e gli rivenne in mente la fatica che avevano fatto sia lui che l’altra per trovare una maglietta che fosse esattamente come la voleva la maestra: per disperazione dovevano averne comprate tre o quattro, e alla fine avevano deciso che Lem le portasse tutte quante nello zaino e che ne scegliesse una lì per lì al momento di cambiarsi. Percepì una certa dolcezza nella carezza della donna e se ne rasserenò, accolse la sua mano a propria volta e la cinse con le dita grandi.
   «Lo so», le disse «Ma anch’io ci tengo, capisci? Non è stata colpa mia».
   Aura tornò a coccolare la piccola Clem senza rispondergli nulla, ma Meyer capì che l’aveva perdonato. Tra di loro era sempre stato così. Forse spesso si erano taciuti alcune cose o avevano passato intere giornate senza parlarsi e a scambiarsi appena qualche occhiata arida, intrisa d’astio. Tuttavia poi si era sempre fatta la pace, anche in silenzio, così come si erano odiati, all’improvviso. Non avevano mai litigato nel vero senso della parola. Neppure adesso che non erano più uniti. Si erano sempre capiti reciprocamente – d’altra parte si erano conosciuti talmente giovani – non c’era mai stato bisogno di andare oltre alle semplici parole. Anche se, una volta, Meyer sapeva di aver provato ira e dolore e di essere stato quasi sull’orlo di sfogare la propria rabbia.
   A distoglierlo da questi pensieri, venne ad un tratto il viso di Lem, tutto ammusonito e timido, nascosto tra le spalle di un paio di altri bambini. Quando riconobbe le sembianze del padre, subito il suo faccino si illuminò e la bocca si allargò, la sua voce risuonò di colpo chiara e squillante sopra quelle degli altri compagni. Meyer lo vide raddrizzarsi sul posto e spingere in fuori il petto con fierezza, e immediatamente se ne sentì commosso, gli rivolse un cenno. Quanto era piccolo, laggiù, in mezzo a certi già così alti...
   Se Aura pensava che a lui non importasse, si disse Meyer, si sbagliava. Forse, anzi, era l’unica cosa di cui ancora si preoccupasse veramente. L’emozione che provava nel vedere la gioia di Lem era tutto ciò per cui vivesse. Non vi era altro che potesse smuoverlo allo stesso modo: il suo solo pensiero era la famiglia, più che mai adesso che una famiglia non c’era più. Le energie che versava nel lavoro, nel guadagnarsi la paga, nell’alzarsi presto alla mattina, ogni suo singolo gesto era finalizzato a quell’unico scopo: il sorriso di Lem. E forse, il vero motivo di questo, era soltanto per rassicurarsi, per dimostrare a sé stesso di essere ancora un buon padre, dopo che non era riuscito a tenerli uniti.
   Quei fatti, quando ci si soffermava sopra, si radunavano in lui come le visioni di un dormiveglia. Semplicemente, era successo che d’un tratto, un giorno, il sentimento che li legava si era affievolito. Aura si era fatta più scostante, eppure non vi era mai stata cattiveria nel suo atteggiamento – forse era per questo che non aveva voluto riconoscerlo: lei era rimasta la stessa. Ma poi, una notte avevano fatto l’amore e la rivelazione era stata così violenta, e l’aveva sentita, l’aveva percepita sulla propria pelle, nella propria carne, dentro il proprio essere, e a quel punto non aveva più potuto fingere di non sapere, di non temere; tutto era crollato un pezzo alla volta davanti ai suoi occhi, che fino a quel momento si era ostinato a distogliere, e adesso che vi tornava a soffermare lo sguardo non erano rimaste che le macerie di ciò che era stato, di un rapporto che si era distrutto e ch’egli non aveva voluto accettare.
   In quel mentre, Aura si chinò su di lui e gli porse la bambina nelle braccia, che voleva prendere la macchina fotografica e scattare delle foto. Meyer si era risollevato con impeto impressionante, quasi turbato, che troppo intensamente si era chiuso in quei ricordi.
   Prese in mano la bambina. Aura si scostò.
   Clem dormiva, la bocca socchiusa che respirava piano e le ciglia folte che si spingevano a toccare le guance paffute. Meyer passò il palmo sui suoi capelli biondi e morbidi, sentendo quella testolina adagiarsi con disarmante rilassatezza sul proprio petto. L’avvolse in un abbraccio.
   C’era, però, qualche cosa che lo opprimeva quando si ritrovava a stare con la figlia. Perché tutto quanto era accaduto nella notte in cui l’avevano concepita: il tradimento, la paura, la rabbia, la rivelazione. Era stato nel momento in cui non c’era stato più nulla da fare, nell’esatto istante nel quale sia l’uno che l’altra avevano capito che ogni sforzo sarebbe stato vano. Lei, insomma, l’avevano fatta per riparare l’irreparabile.
   Non era stato un atto d’amore a portarla alla luce. E che senso ha allora una persona che non nasca in amore? Che razza di destino era quello di venire al mondo in seno all’odio?
  Senza un apparente motivo, improvvisamente si ricordò come mai non avesse fatto in tempo ad arrivare e vedere la prima parte della recita. Era già in ritardo, ma poi quel ritardo era divenuto sempre più lungo di minuto in minuto, dopo che Aura l’aveva salutato al telefono e lui aveva riattaccato. Era rimasto per un po’ a fissare davanti a sé, nella cucina, senza riuscire ad elaborare un pensiero coerente. Una certa malinconia l’aveva colto in modo intenso, finché non era più riuscito a sopportarla, e si era seduto sul pavimento a nascondere la testa nelle ginocchia, il cellulare ancora in mano. Aveva pianto. E si era posto quelle stesse domande su cui si stava interrogando adesso.
   Venne riscosso dallo scroscio d’applausi dei genitori attorno a sé e dalla voce di Aura che gridava quanto i bambini fossero stati bravi. Lem era laggiù a chinarsi goffamente, col sorriso imbarazzato impresso sulle labbra, mentre Clem dormiva, silenziosa, al sicuro nelle sue braccia grandi.


 
 

*Tutti i nomi proposti nelle varie lingue per Lem, Clem e Meyer fanno riferimento in origine a delle varietà di limone o ne richiamano la parola in qualche modo (il nome giapponese di Meyer - giuro! - è effettivamente Limone). Supponendo che in italiano il nome di Clem derivi dalla clementina, per la madre ho pensato di riferirmi a un altro agrume, e alla fine mi sono decisa per l'arancio amaro (Citrus aurantium).

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Salve a tutti!
Spero tanto che abbiate trascorso un buon ponte in questi giorni e che siate riusciti a riposarvi un po'!
Anche l'aggiornamento di oggi è piuttosto breve. Mi auguro davvero che questo tipo di lunghezza non risulti fastidiosa, è la prima volta che decido di adottarla e da una parte me ne sento un po' insicura, perché non so se sia del tutto efficace... Suppongo che lo scopriremo insieme più avanti! In ogni caso, vi ringrazio di cuore per essere passati a leggere anche stavolta e spero che il capitolo vi sia piaciuto. Nel frattempo, posso assicurarvi che il prossimo sarà certamente più corposo e dinamico rispetto a questo!
Un abbraccio forte a tutti quanti e buon inizio di settimana,
Persej
  
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