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Autore: PiscesNoAphrodite    09/11/2018    9 recensioni
[...] Mi sovvennero quei piccoli sauri che sovente sorprendevo ritemprarsi al sole, immobili sulle pietre roventi, i cui battiti del cuore si scorgevano susseguirsi rapidamente attraverso l'esile strato di pelle squamosa. Creature subdole e indifese, al tempo stesso. Lucertole...
***
Ipotetico Post-Ade narrato dal pov dei personaggi di Lizard Misty e Pisces Aphrodite... I Saint sono stati riportati in vita da Athena ed emergono antichi rancori.
(I personaggi descritti in questa storia non mi appartengono ma sono proprietà di M. Kurumada.)
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hound Asterion, Lizard Misty, Perseus Algol, Pisces Aphrodite
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Avvertimenti: la storia presenta significative divergenze dal canone, situazioni e personaggi rispecchiano l'headcanon dell'autrice. Grazie infinite per il vostro interesse, in ogni caso.


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Gli Eletti

 

 

I

 

Misty/Eris

 

Si diceva che le spoglie dei Santi permanessero intatte...

 

Un bagliore dorato sbrecciò la fredda pietra del sarcofago, aprendo un varco e insinuandosi negli anfratti dell'interno angusto, infiltrandosi tra le pieghe del sudario.

Riusciva a scorgere se stesso, come se contemplasse la propria immagine in uno specchio, fino al momento in cui l'anima non si congiunse all'involucro di carne. Luce. La stessa luce che percepiva attraverso le palpebre chiuse, calda, avvolgente, pervadeva il suo corpo inerte risanando e sigillando le ferite, ridestandolo dal sonno imbalsamato della morte. La coscienza si era destata lentamente dalla condizione di non esistenza, dalla vacuità di cui è costituito il non essere; dal torpore innaturale del sonno privo di sogni che l'aveva precipitato nel limbo della quiete senza pensieri. Un flusso di ricordi aveva attraversato la sua mente, fulmineo, come il sibilo di una freccia a fendere il vento. Gli fremettero le palpebre e dischiuse gli occhi umidi di lacrime. Era l'inizio dello scorrere del Tempo.

L'aura l'avvolgeva col suo dolce abbraccio, inondando di luce iridata il mausoleo e le bianche colonne di marmo circostanti. Una lieve brezza sfiorava il suo volto e percepì che l'aria stessa profumava di fiori; ed ebbe l'impressione di destarsi in una dimensione ultraterrena – era, forse, l'Elisio, di cui aveva sentito parlare? E vide una giovane donna avvinta da quel bagliore sfolgorante, la cui mano poggiava, lieve, sulla sua fronte. Doveva essere la Dèa, o meglio, la persona nella quale lei si era incarnata...

 

***

 

Era un episodio ricorrente rivivere in sogno l'evento della rinascita, mi rigirai su di un fianco con quelle immagini così vivide nella mente, e socchiusi gli occhi per evitare la luce del sole che illuminava la stanza filtrando attraverso la tenda; mi attardai per qualche istante, affondando pigramente la guancia sul lato asciutto del cuscino. Faceva sempre così caldo, il caldo a volte rendeva le notti insonni e spesso mi addormentavo quando era ora di svegliarsi.

Il primo pensiero rivolto a colei che mi aveva riportato in vita non fu di gratitudine bensì perplessità, in quanto in quella esile figura di donna non avevo ravvisato l'immagine idealizzata che mi ero figurato. Era solo una fanciulla dall'aspetto gentile ma, allo stesso tempo, così poco autorevole. Lo sfarzo dei gioielli tempestati di diamanti che indossava - ovvero la torque d'oro, l'alta fascia che le cingeva la vita - e lo scettro in pugno, contrapposto ai tratti ordinari del volto la rendeva ancora più insignificante. Non poteva essere Athena, almeno, non poteva esserlo nel mio, singolare, immaginario da esteta. Mi voltai fissando il soffitto, ancora assorto in quei pensieri, rammentando di non avere nemmeno ringraziato la Dèa in quel frangente; mi ero atteggiato con distacco in sua presenza come se quel gesto amorevole mi fosse dovuto, levandomi con noncuranza, seminudo e col sudario avvolto intorno alle spalle. Ma adesso desideravo, volevo ammirarla ancora una volta. Dirle grazie. Nemmeno la morte sembrava aver prodotto un cambiamento nel mio essere...

Al Santuario la vita procedeva regolarmente, come se tutte le battaglie e la devastazione che ne era conseguita non fossero mai avvenute. Finalmente regnava la pace, e avevo la sensazione che sarebbe durata a lungo. Malgrado aleggiasse una parvenza di serenità il mio animo era inquieto: troppi brutti ricordi, rimpianti e rancore, mi affliggevano e chissà che gli altri Santi non stessero vivendo lo stesso tormento...

In realtà non m'importava molto dei presunti patemi altrui, l'amor proprio prevaleva su qualsiasi altro interesse e sotto quell'aspetto non sembravo affatto diverso sebbene m'impegnassi in una sorta di cambiamento. Forse, la morte mi aveva reso più consapevole ma non meno individualista.

La mia figura era sublime, l'ammiravo riflessa nello specchio, sedotto da quella perfezione che, sì, doveva essere un dono degli dèi, o forse ero io stesso di discendenza divina; non vi erano difetti o macchie che deturpassero quel candore. Eppure temevo di scorgere le ferite che erano state cagione di umiliazione e di morte. Scostai i capelli dalla fronte col timore di ritrovare un solco profondo. La lambii con le dita ma la pelle era bianca e intatta; parimenti sul mio corpo, che sfiorai quasi temessi di scalfire un'opera d'arte. Era come svegliarsi da un incubo, ogni volta; trassi un sospiro di sollievo sebbene non ne provassi poiché altre ferite, impresse nell'animo, sembravano persistere. Sapevo di non essere invulnerabile, quell'irreale chimera era svanita da tempo, ormai relegata nel novero delle tante illusioni.

I miei occhi blu erano profondi ma in essi non vi era bastante saggezza, mi sentivo insicuro e insoddisfatto. Per la prima volta realizzavo che l'avvenenza non era tutto, non sarebbe valsa a elevarmi dinanzi ai miei pari se non insignito di altri meriti e, forse, non sarebbero valsi nemmeno il mio sapere, la dialettica e l'abilità nel destreggiarmi con le parole. Mi imposi di riscuotermi da quei deliranti pensieri, distogliendo l'attenzione a malincuore dall'immagine riflessa nello specchio; e indossai la solita uniforme, così grezza e dozzinale, che nella sua semplicità aveva il pregio di esaltare la mia efebica bellezza.

Mezzogiorno era passato da un pezzo ed era una giornata libera dalle solite incombenze che gravavano sulle nostre vite di Santi devoti ad Athena. Dischiusi le imposte, dopo aver scostato il velo sottile della tenda. Amavo contemplare la visuale su quel tratto di macchia in prossimità della costa, che si scorgeva dalla finestra, e dove ogni sera spuntava il barbagianni – un fantasmino candido, con gli occhi di ossidiana – appollaiato sul ramo di un pino marittimo.

Estrassi una rosa dal recipiente di vetro, cingendone delicatamente lo stelo tra le dita per annusarla, ma essa non emanava più alcun odore e la corolla di serici petali si distaccò dal calice spargendosi sullo scrittoio. Dovevo rinnovare l'acqua nel vaso dei fiori, che era torbida e maleodorante, e sostituire le rose appassite, vederle avvizzire mi infondeva un senso di tristezza poiché in esse coglievo un rimando alla caducità del tempo...

Richiusi la porta alle mie spalle affacciandomi sul giardino per recuperare alcune rose fresche, e mentre armeggiavo con le cesoie per reciderne alcune, mi soffermai ad ammirare i narcisi; qualcuno si era adoperato al fine di curarli in mia assenza, forse la mano gentile di un'ancella.

Era una giornata d'inizio Estate del 1990, luminosa, soleggiata e avevo ancora un po' di tempo libero prima della convocazione, realizzai volgendo lo sguardo in direzione dell'Acropoli. Non amavo le cerimonie ufficiali, tanto meno in certe particolari contingenze.

Celato tra la fitta vegetazione, che adombrava la parte posteriore della casa, c'era un sentiero che serpeggiava fino al mare mi ci avventurai ma poco dopo avvertii una presenza aliena alle mie spalle, mi fermai emettendo però un sospiro di circostanza, non era mia intenzione esternare insofferenza verso un probabile interlocutore. Volevo semplicemente stare solo, almeno per un po'.

“Lacerta Misty" disse una voce, "oggi non eri presente al refettorio, come mai?” Mi voltai e con sorpresa la riconobbi, era Marin. Le parole che avrei proferito istintivamente nei suoi confronti mi morirono in gola, sul nascere.

Indugiai, scrutandola, forse con un punta d'irriverenza come se la vedessi per la prima volta. Lei indossava le Vestigia d'Argento, ma la mia attenzione ricadde sulle linee sinuose del suo corpo; la vita sottile, le gambe affusolate ed eleganti... Le riservai un altro sguardo, per poi sperare che da esso non trapelasse quello stupore che si sarebbe potuto fraintendere. La morte non era giunta per tutti allo stesso momento, e per qualcuno non era giunta affatto! Già, il tempo si era fermato solo per alcuni di noi, c'era chi aveva avuto l'opportunità di evolversi, crescere – non solo fisicamente – acquisire il settimo senso. Io, invece, ero rimasto tale e quale ad allora: un adolescente... Un debole Santo d'Argento ricordato per l'ingloriosa fine e inferiore persino a uno di Bronzo. Strinsi i pugni reprimendo rancore e collera, e forse anche le lacrime. Abbassai lo sguardo.

“Misty”, ripeté lei posandomi una mano sulla spalla. “Mi dispiace” disse sembrandomi sincera, evincendolo dal tono sommesso della voce, sebbene non potessi constatarlo dai tratti di un volto celato dietro l'inespressività della maschera. “Perché ti stai scusando con me?” Le chiesi con finta noncuranza, in modo che si spiegasse meglio.

“Per il tradimento... suppongo che lo smacco sia ancora vivo nella tua memoria. Asterion e gli altri hanno accettato le mie scuse.”

Cercai virtualmente il suo sguardo, ed elevando il mio con dignità proferii: “Hai agito con l'inganno, non è possibile perdonare un affronto del genere da un parigrado. Lo hai fatto per proteggere il tuo discepolo, me ne rendo conto ora, col senno di poi. Riesco a comprenderti ma non a giustificarti, e non so se riuscirò a dimenticare. Quel vile tradimento ha distrutto il mio orgoglio: un disonore che mi sono portato nella tomba! Conoscevi la verità e non hai fatto nulla, nemmeno un tentativo che avrebbe mutato il corso degli eventi. Si sarebbero risparmiate molte vite, inclusa la mia... Non nego che sia lecito offrire una seconda possibilità a chi desidera fare ammenda e riavvicinarsi” le dissi, “ma ho bisogno di tempo.” Scostai con garbo la sua mano dalla mia spalla, perché quel contatto ravvicinato m'indisponeva e trasudava ipocrisia oltre a suscitare il disgusto.

“Non avresti capito, nessuno di voi sarebbe stato in grado di comprendere. Eravate sotto l'influenza di Arles... Seiya ne ha passate tante, anche lui." Marin fece una pausa e poi riprese: "Nonostante tutto... io saprò aspettare: tutti meritiamo una seconda opportunità.”

“Ognuno di noi ha la sua parte di sofferenza, in questo mondo.” Sondai il suo sguardo, determinato a carpirlo e a trafiggerlo anche attraverso la maschera che l'occultava. Non aggiunsi altro: l'atmosfera era già tesa così, Marin si voltò e andò via. La mia risposta era stata eloquente.

Mi inoltrai attraverso il sentiero. Quella conversazione aveva insinuato un'ombra sul presente, riesumando il passato; quel passato che non era morto e sepolto ma ben desto nei miei ricordi. Come i nodi che vengono al pettine, come le dispute irrisolte. In fondo la morte è oblio, assenza di ricordi. Quiete... Sospirai con rassegnazione. Socchiusi gli occhi abbandonandomi alla dolcezza dei profumi che la flora disperdeva nell'aria salmastra, l'odore delle bacche di ginepro era pungente e solleticava l'olfatto. Il mare Egeo, sempre più prossimo, faceva capolino attraverso le fronde e gli aghi dei pini allineati lungo il cammino in discesa e la sabbia fine, punteggiata dal luccichio dei cristalli di sale e dai gigli selvatici. La bellezza del mare mi faceva apprezzare di essere vivo. Valeva la pena di vivere solo per ammirare la distesa d'acqua cristallina speculare alla magnificenza del cielo, nel quale riuscivo a scorgere la pallida sagoma della falce lunare contrapposta al disco del sole. Avevo l'abitudine di passeggiare sul bagnasciuga, soffermarmi ad ascoltare lo sciabordio delle acque; osservavo le onde infrangersi sugli scogli, ed era un modo per mitigare l'ansia e alleviare la tristezza. Ma il tempo scorreva in fretta, troppo velocemente per assaporare appieno quel poco di libertà che mi ero concesso...

Quanti anni erano trascorsi dall'ultima volta che avevo varcato quella soglia? In realtà non molti, fu un lasso di tempo relativamente breve che però a me parve un'eternità. L'aula principale del Tredicesimo Tempio permaneva inalterata, maestosa e solenne, sebbene percepissi il vago sentore di un mutamento. L'atmosfera non era più tetra e opprimente. Non predominava l'oscurità che celava l'inganno, ma luce, quella emanata dai bracieri e dalle lampade a olio, il chiarore che aveva facoltà di svelare ogni anfratto celato alla vista: le candide pareti di marmo, le slanciate colonne corinzie a cingerne il vasto perimetro. Un'architettura splendida dalla sobria eleganza, il cui interno auliva di essenze profumate e d'incenso. Ma ne percepivo anche il freddo che, intrappolato perennemente tra le mura millenarie, s'infiltrava sotto le vesti. Mi soffermai per un momento a riflettere sul passato, raggiunsi poi la mia postazione, da lì potevo osservare i volti di tutti i presenti: conosciuti e non con i quali scambiai un saluto formale, invece con le vecchie conoscenze abbozzai un lieve sorriso. Era presente anche Kiki, quel moccioso terribile che aveva creduto d'impressionarmi con la telecinesi: il discepolo del Santo di Aries era cresciuto, eravamo quasi coetanei.

Tra i presenti vi erano anche altri che non avrei desiderato incontrare: Seiya era semplicemente reo di aver ferito il mio orgoglio, a ragione, e non a torto, ma quanto era difficile ammetterlo... Mi aveva deriso per il mio aspetto... E adesso, quello sbruffone, poteva anche vantarsi di aver indossato le Sacre Vestigia del Sagittario. Ma erano rimasugli della vita precedente, e non aveva senso rivangare sempre il passato alla stregua di un aratro che svelle e ribalta le zolle.

Eravamo finalmente riuniti, gli ottantotto Santi erano disposti ai rispettivi lati liberi dell'ampia aula, secondo una scala gerarchica non proprio consona, a mio avviso, irrispettosa di quanto noi tutti avevamo dato per lei, per Saori Kido alias Athena, che occupava il prestigioso soglio accanto al Gran Sacerdote. Mi limitai a pensarlo, senza dare a vedere la mia insofferenza, il mio disappunto, per ciò che reputavo una palese ingiustizia da parte di colei per la quale avevamo versato il nostro sangue. Se, in precedenza, desideravo ringraziarla; dopo averla rivista in un tale frangente i miei sentimenti si fecero avversi, ed era una sensazione che volevo reprimere con tutto me stesso perché temevo che, in qualche modo, mi si sarebbe ritorta contro...

La mia Casta era considerata alla stregua di un mero accessorio, ad accompagnare le due alte autorità del Santuario non vi erano niente di meno che loro, quei cinque Santi di Bronzo, i suoi protetti. In secondo piano spiccavano, in virtù dell'imponenza delle loro splendide armature, i Santi d'Oro; a breve distanza presenziavano i restanti membri della Casta di Bronzo; infine vi eravamo noi, i Santi d'Argento. Distolsi lo sguardo, indispettito dalla stucchevole scenetta in cui l'insulsa Dèa dispensava i suoi pupilli di lodi, decantando le memorabili imprese degli eroi. Ascoltai pazientemente il sermone, allo sfinimento, secondo il quale anche uno come Cassios, che non era nemmeno in grado di elevare il cosmo, veniva elogiato per essersi immolato salvando la vita al ronzino affinché la sua amata Shaina non si struggesse dal dolore. Patetico. Malgrado ciò, non avevo niente da obiettare in merito all'entità del suo nobile gesto, ma...

Nei nostri confronti neanche una stiracchiata menzione alla missione compiuta nella battaglia contro Ade, il Signore degli Inferi. Una sparuta comparsa, una commedia dove, aggrappati a uno scampolo di vita, non avevamo avuto niente da perdere.

“Non mi rappresentate, Saori Kido” esordii laconico, avanzando di pochi passi oltre la linea immaginaria che mi avrebbe posto alla mercé di tutti gli sguardi. Scese il silenzio. Un intollerabile silenzio che nessuno osava infrangere, in virtù del quale ogni banale rumore veniva amplificato risuonando nell'ampia volta a cassettoni della sala: dal semplice fruscìo delle vesti al tintinnio metallico della corazza.

“Santo di Lacerta che cosa vorresti insinuare con quest'affermazione?” Avevo sentito dire da qualche parte che Dohko, il maestro di Shiryu, fosse stato un vegliardo pedante, e continuava a distinguersi per eccesso di zelo nonostante fosse ringiovanito. Egli aveva preso la parola in modo pacato, e mi resi conto che il mio non era un buon esordio per ingraziarmi la benevolenza del successore di Shion; il vero Gran Sacerdote che aveva esercitato l'autorità al Santuario, prima della fatidica notte degli inganni, il cui spirito, ora, presumevo dimorasse nell'Elisio – tra i beati – quale prescelto dagli Dèi.

“Semplicemente quello che avete udito" ribadii, "Saori Kido non mi rappresenta.” I sentimenti avevano prevaricato letteralmente la ragione e non potevo più nascondere la mano dopo aver scagliato il sasso. Il volto di Athena era impassibile: come scolpito nel marmo o plasmato nella cera, sembrava palesare tutta la sua indifferenza. Le mie parole non sortirono alcun effetto su di lei. Sebbene, in quei brevi istanti, riuscissi a cogliere sgomento e disapprovazione sul volto di molti Santi; evidentemente, la mia sincerità li aveva turbati. Forse, in quel coacervo di falsità, la schiettezza infondeva sconcerto. Dohko si levò dal proprio scranno, sapevo che mi stava fissando, riuscivo a cogliere il suo disappunto ancorché non potessi scorgere l'espressione del volto celato dalla maschera.

“È molto grave quello che affermi” soggiunse. La sua calma serafica inibiva il mio coraggio; avevo le estremità degli arti fredde e avvertivo una sensazione di malessere che mi fece vacillare sulle mie stesse gambe. E, malgrado la palese contrarietà di colui il quale era stato designato per essere il rappresentante di Athena, seppi ritrovare il mio ardire: le motivazioni che m'inducevano a esprimermi con disincanto nei confronti di quel sistema erano molto più forti.

“Non credo sia un fatto così grave affermare la verità" dissi con tutta calma, volgendo un'occhiata in direzione di Athena. "Dovrei mostrare riconoscenza verso chi non ha manifestato il minimo di considerazione nei confronti di coloro che hanno versato il proprio sangue?" Chiesi poi scrutando il mio interlocutore. "Verso colei che si ostina a incensare i suoi protetti, ignorando tutti gli altri? Guardate i membri della mia Casta, non sono, forse, da sempre, relegati in secondo piano; è questa la gratitudine che riservate a chi è stato impiegato in battaglia, condannato a un destino inesorabile?” Dopo quelle parole si levò un mormorio di stupore nella sala. “E costui?” Additai Saga, ormai in preda a un'enfasi incontrollata. L'odiavo, era stato la causa di tutto. Ancora lo ricordavo avvinghiato al trono come un rapace alla preda, quando mi aveva ingannato, anzi ci aveva ingannati tutti e non m'importava un accidente che fosse stato suo fratello Kanon a innescare quella follia. “Non meriterebbe nemmeno d'indossare le Sacre Vestigia d'Oro!”

Il custode della Terza Casa contrasse le labbra in una smorfia di dolore e mi riservò un labile sguardo, non di biasimo ma intriso di amorevole comprensione e privo di astio per le mie parole sprezzanti, nel quale però riuscivo a cogliere una silente ammissione di colpevolezza.

“Il Santo di Gemini ha ottenuto il perdono di Athena, oltre che il mio" disse il Gran Sacerdote in tono plateale, prima di aggiungere: "Oseresti mettere in discussione l'autorevolezza e la bontà delle nostre decisioni? Con quale coraggio osi rivolgerti, in questi termini, nei confronti di chi ha evocato il tuo spirito dal Cocito?! Non ritieni, dunque, un atto d'amore la rinascita?”

“Athena lo ha fatto per infoltire le sue schiere in previsione di altre battaglie, e non per amore o per premiare la nostra devozione” ribattei.

“Taci, lingua biforcuta. Tu, cosa potresti vantare, eroiche gesta, o arroganza?" Non attese risposta e continuò a inveire: "Adduci prosaiche argomentazioni; ti reputi migliore di chi accusi e credi di dimostrarlo con questa sceneggiata, ma se rivendichi il rispetto, rammenta che sei tu per primo tenuto a doverne, e dopo, forse, l'otterrai” concluse con tono perentorio.

Le mie affermazioni ebbero l'effetto di fare infuriare la seconda carica del Santuario, ed era lungi dalle mie previsioni che la discussione degenerasse in quel modo. Quelle insinuazioni erano crudeli, offensive, sferzanti; in pratica quell'uomo mi stava umiliando e riuscivo anche a cogliere il disprezzo nelle sommesse risa di scherno di alcuni Santi e soldati semplici. Come osavano? Avrei desiderato scomparire... Era davvero questa l'opinione del Gran Sacerdote nei miei riguardi? Veramente essa rispecchiava il pensiero di ognuno? Non potevo crederci, non poteva essere vero.

In verità, sì, non avevo compiuto imprese memorabili che mi rendessero meritevole di un qualsiasi riconoscimento. Ogni volta che ricordavo lo scontro – poco edificante – con Seiya la mia autostima vacillava, e forse avrei fatto meglio a tacere: ecco a cosa pensavano i presenti, avevo finalmente intuito cosa suscitasse tanta ilarità; ma non giustificavo quell'atteggiamento irriverente, ero pur sempre un Santo d'Argento! Riscoprire la propria immagine ridimensionata, distante da quei sogni di grandezza tanto vagheggiati, faceva molto male. Era la triste realtà con cui dovevo scontrarmi e della quale avevo già avuto sentore, ma ero conscio che non sarei mai riuscito ad accettarla.

Mi salì un improvviso calore al volto, temevo di cedere alle emozioni, il più banale cedimento sarebbe stato interpretato come un segno di debolezza e non dovevo permetterlo. Una mia innocente considerazione sul ruolo di Saori Kido – ahimè, non riuscivo a ravvisare la divina Athena nello scialbo sembiante di quella fanciulla – era sfociata in una diatriba insostenibile, ma non potevo compiere un passo indietro e sfuggirvi per codardia. No, avevo ragione e l'avrei dimostrato!

La mia attenzione ricadde sul lato opposto della sala, incontrai lo sguardo del mio mentore, il più avvenente degli ottantotto Santi, e i suoi occhi turchesi - come sempre - rilucevano come diamanti su quel volto perfetto, i capelli erano sciolti sulle spalle e spuntavano in morbide ciocche da sotto l'elmo dorato.

Aphrodite sembrava a disagio ma il suo volto era impassibile, quegli occhi trasparenti scrutavano dentro i miei con la brama di desumerne l'insondabile, forse si vergognava di me. Avanzò di un passo, come persuaso dalla necessità d'intervenire, e chissà se avrebbe infierito con altre accuse o sostenuto la mia causa, ma Shura di Capricorn lo trattenne per un braccio.

Non mi importava un granché quale fosse l'opinione di Aphrodite: in passato essa aveva influito molto perché ciò a cui anelavo era l'approvazione di quella persona, unitamente a una parte di gloria; avevo bisogno di tutto questo al fine di gratificare il mio ego. Ma non nell'attuale frangente, in cui nulla, o chicchessia, avrebbe potuto far crollare le mie certezze. Anzi, parte del mio rancore era riservato anche a lui – a quell'esempio di rettitudine e perfezione – che mi aveva esortato a considerare equa la menzogna alla quale mi ero assuefatto e, prima o poi, gli avrei sbattuto in faccia quello che pensavo.

“Hai detto che Saori Kido non ti rappresenta. Bene, sarai sollevato dal tuo incarico fino a quando io non lo riterrò opportuno. Le Sacre Vestigia rimarranno in custodia al Tredicesimo Tempio, a disposizione di Athena; sempre che lei non decida di assegnarle a un nuovo aspirante possessore. Inoltre, ti esonero dal partecipare alla cerimonia in onore della rinascita dei Santi, che si terrà qui, questa sera. La tua presenza non è gradita.”

Stavo sudando, la vista si oscurò per un breve istante e fu solo la forza di volontà a impedirmi di rovinare a terra. Ascoltai quella sentenza, incredulo, quelle aspre parole mi ferirono come stilettate nel cuore; era così deleterio esporre con sincerità il proprio pensiero, al di là della facciata d'ipocrisia, o del falso compiacimento e dei sorrisi? Probabilmente sì. Sfilai la mia tiara d'argento lasciandola cadere. Prendetevi l'armatura, non so che farmene.

Il diadema urtò il pavimento scalfendo il marmo: con quel gesto inconsulto diedi il peggio di me. Con la coda dell'occhio notai i soldati che sarebbero intervenuti per rivalersi sul mio palese atto d'insubordinazione, in virtù della semplice osservanza di regole che vigevano al Santuario, ma Dohko li dissuase con un semplice gesto e m'intimò di raccogliere l'oggetto. La sua voce era severa, inespressiva, in essa era insita una velata minaccia.

Asterion si avvicinò a me. “Ti prego, fa come dice, raccoglila, in nome della nostra amicizia” mi sussurrò a un orecchio. Esitai, era il folle orgoglio a impedirmi di obbedire all'ordine impartito dal Sommo. I miei parigrado temevano per l'esito delle mie azioni, sentivo che volevano proteggermi, potevo desumerlo dall'apprensione che trapelava dai loro volti. Fecero quadrato intorno a me e uno di loro, Algol, mi suggerì: “Obbedisci, non ostinarti in una causa persa in partenza.” E infine ascoltai il suo saggio consiglio. Mi piegai, raccolsi il diadema ponendolo nuovamente sul capo, e volgendo le spalle agli astanti poi mi allontanai in silenzio, tanto altri commenti sarebbero stati polemici e compromettenti. Affondai gli incisivi nel labbro inferiore, al punto di farvi scaturire una goccia di sangue e ne percepii sulla lingua il sapore metallico che io disgustavo.

 

***

II

 

La gemma verde smeraldo

 

Saori aveva osservato, tristemente, il giovane che si era chinato per raccogliere il diadema; e non fu solo il suo sguardo a essere catturato dalla grazia di quella creatura: Misty uno dei suoi Santi, uno di quelli che viveva ai margini del sistema che glorificava i prescelti, come vittima sacrificabile in balìa della volontà degli Dèi. Così traviato da umane debolezze, tali, da sminuirne l'effettivo valore e renderlo inviso presso coloro che non lo stimavano alla stregua dei suoi parigrado. La donna serrò l'impugnatura dello scettro con forza, ed era un modo per allentare la tensione e reprimere quel sentimento compassionevole che si fece largo nel suo animo: non erano stati solo i cinque eroi a combattere sotto l'egida di Athena, era risaputo, e ora più che mai l'evidenza veniva rimarcata dalle sfrontate asserzioni di quel Santo.

Misty guadagnò la stazione eretta per poi scoccarle un'occhiata altezzosa dalla quale non scaturiva alcuna emozione e con cui indugiò per qualche istante a fissarla, fu solo il suo volto, divenuto pallido all'improvviso, a tradire un disagio interiore. Per la seconda volta Dohko fu costretto a intimargli di lasciare quel luogo. Uno stupido arrogante, pensarono alcuni. Misty ricollocò la tiara sul capo con una favilla vittoriosa che balenò negli occhi cerulei, simulò un inchino di circostanza raggiungendo l'uscita a testa alta, senza fretta; come se l'ultimatum non lo tangesse e desiderasse ostentare la propria grazia indiscussa affinché tutti l'ammirassero. Percorse la guida cremisi, lieve, e quella superficie attutiva il rumore dei suoi passi ma non il fragore metallico delle Sacre Vestigia che proteggevano in parte il suo corpo, né il fruscìo del manto – un vezzo – che accompagnava il suo portamento orgoglioso. Atteggiamento che sortì l'effetto di rinfocolare l'astio del Gran Sacerdote: che diamine gli avrà insegnato il suo maestro se questi sono i risultati? È così che ci si rapporta dinanzi ai superiori!? Pensò Dohko rivolgendo il proprio sguardo accigliato verso Aphrodite.

Il Santo d'Argento si eclissò, infine, scomparendo al di là della soglia principale del Tempio, sotto gli sguardi attoniti e il mormorio di sdegno dei molti presenti. Voleva forse sfidarli o sbeffeggiarli?

La giovane Dèa si scompose, corrugò la fronte, e una ruga d'espressione comparve sulla pelle di porcellana, una lacrima solcò il volto eburneo dapprima impassibile: “Riesco a immedesimarmi in quell'animo tormentato” esordì sommessamente, rivolgendosi a Dohko.

“Con tutto il dovuto rispetto, ma siete in vena di scherzi? Vi ha rinnegato e non dovreste soprassedere a un atto così grave. Dal canto mio, sono stato fin troppo clemente nei suoi confronti, perché Misty meriterebbe di essere messo al bando da questa comunità per le accuse insensate, e proferite con superbia." Fece una pausa e, scrutando il volto della dea, poi aggiunse: "Fortuna sua, che oggi è un giorno di festa...” Affermò infine il Gran Sacerdote guadagnando la sua posizione sullo scranno, mentre i Santi di Bronzo si approssimarono alla loro musa per confortarla.

“Non permetterò che quell'insolente rovini questo momento di gioia, gliela farò pagare.” Intervenne all'improvviso uno di loro.

“Rilassati, Santo di Pegasus” ammonì Saori con irritazione, richiamando all'ordine il suo pupillo, ricomponendosi e ritrovando il proprio contegno imperturbabile.

“I Santi sono reduci da terribili esperienze dalle quali sono stati segnati profondamente. E ora, vi consiglio di passare oltre” aggiunse, impugnando saldamente lo scettro ed elevando verso i presenti il suo sguardo d'ametista.

 ~

Misty depose l'ultimo elemento che componeva le Sacre Vestigia nell'ala del Tempio adibita al ricovero delle armature, rimanendo con i semplici indumenti sottostanti: gli diede un ultimo sguardo dopo averne lambito la superficie con un dito, indugiando sulla propria immagine in essa riflessa, sul riverbero di luci e colori che vi si proiettavano come in uno specchio. Si sentiva leggero, come libero da un fardello, come all'epoca in cui era un semplice apprendista, sebbene un simile epilogo coincidesse con un senso di fallimento. Non provava rammarico per il gesto avventato che gli avrebbe precluso qualsiasi opportunità di carriera, ma delusione, dovuta allo sgretolarsi dei valori in cui credeva.

Decise di allontanarsi dal Tredicesimo Tempio, e scese la scalinata eludendo il sentiero dove giacevano le magnifiche rose di Aphrodite. Si soffermò per qualche breve istante sulla terrazza, sporgendosi dalla balaustra edificata sulla roccia a strapiombo, scrutò l'orizzonte e il cielo turchino; poi rivolse lo sguardo sul mare la cui spuma imbiancava gli scogli, insinuandosi tra i calanchi. Si lasciò lambire il volto da quel dolce alito di vento - che risuonava dello stridio di due rapaci i quali avevano nidificato in qualche anfratto roccioso - e chiuse gli occhi: le sclere erano tanto asciutte da bruciare, e lui così algido da riscoprirsi incapace di versare una sola lacrima.

Sarebbe bastato un passo falso per precipitare e sfracellarsi contro le rocce della falesia. Darsi la morte così da tornare indietro? Dove non persistono ricordi, livore, invidia e rimpianti? Stava davvero pensando di gettare via quel dono meraviglioso che gli era stato elargito con tanta generosità? Davvero non desiderava più vedere sorgere il sole?

Misty spalancò gli occhi e indietreggiò allontanandosi dal dirupo, sconvolto da quel folle orrore, da quelle immagini cruente di rovina e di morte, e ritornò sui propri passi dirigendosi verso le scale. Le percorse a passo spedito come se volesse dimenticare quel luogo, cancellarlo dalla memoria senza più soffermarsi a rimuginare; sapeva che i restanti Templi erano vuoti perché tutti i Santi di Athena erano riuniti a consesso e, proprio come quando era bambino, non desiderava incontrare nessuno nei momenti peggiori. Era un percorso ripido lungo il quale egli badò bene a non incespicare tra i gradini bianchi consunti dall'usura del tempo. Le rovine, invece, erano da ripristinare a testimonianza della devastazione avvenuta nel corso dell'ultima Guerra Sacra, che si era svolta tra i solenni monumenti dalle colonne di pietra, i quali ancora si ergevano sotto il sole cocente.

Finalmente comparve la valle e si soffermò, prima d'imboccare il viale che si dipartiva oltre la Prima Casa; inspirando profondamente, credendo di allentare la tensione che ormai era al suo culmine. Nemmeno l'aria, che spirava attraverso i filari di cipressi, leniva quell'angoscia che l'attanagliava, e non era niente di simile né alla collera e neanche alla rassegnazione. La maschera era caduta, a scapito dello strenuo tentativo di celarsi dietro di essa, svelando impietosamente il vero sé. L'Arena sorgeva a pochi passi, e la si poteva scorgere in tutta la sua austera imponenza svoltando dalla casa di Aries; imboccò il sentiero lastricato che conduceva all'ingresso dell'Anfiteatro quasi per istinto.

Era strano, quasi surreale, il silenzio che pervadeva quel luogo quando non riecheggiavano le grida concitate e le imprecazioni dei Santi che lo affollavano ogni giorno durante gli allenamenti; era silente quasi rispecchiasse, in quel momento, il vuoto incolmabile che albergava nella sua stessa anima. Quelle mura erano come libri di pietra, memori delle epoche trascorse, e chissà quante storie non raccontate si celavano in esse. Misty s'incamminò varcando la soglia oltre l'arco e le colonne antistanti, attraversando i settori, come aveva fatto innumerevoli volte; e giunse presso l'emiciclo superiore occupando un posto all'ombra del portico colonnato che ne coronava il perimetro, e dal quale si poteva ammirare l'Arena vuota, o il cielo terso nel quale si rincorrevano le nubi candide.

Riflettere, ora, sulle conseguenze delle proprie azioni non aveva senso, era più utile assumersi la responsabilità del gesto che aveva commesso; appoggiò i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani, abbassando le palpebre.

La solitudine era ciò di cui necessitava in quel frangente. E tuttavia non riusciva a stornare il turbine dei pensieri che lo sconvolgeva...

Quanto tempo aveva passato rimuginando a occhi chiusi, o con lo sguardo vacuo intento a sondare l'intangibile, cercando di trovare improbabili risposte ai quesiti che lo tormentavano? Forse, appena il tempo utile affinché l'adunanza dei Santi si sciogliesse in vista dei festeggiamenti previsti per la sera. Era il tipico giorno in cui nessuno si sarebbe recato nell'Arena, e ciò costituiva una delle ragioni per la quale Misty si stesse intrattenendo in quel luogo...

Gemini... No. Non può essere. Perché è qui? Si levò in piedi, impallidendo come un cencio lavato in presenza del Santo, torreggiante, di fronte a lui. I raggi del sole s'infrangevano sulla corazza esaltandone lo splendore, sottolineando altresì le nobili fattezze di quel volto integerrimo.

“Non ho percepito la tua aura...”

“Saprai che si può anche occultare. In quanto a te: sei troppo preso dai tuoi pensieri, ed essi gravano in modo tale da non esserti accorto del mio sopraggiungere. È stata la presenza del tuo cosmo a condurmi qui” disse il Santo, estendendo la mano chiusa a pugno verso il ragazzo più giovane; per poi aprirla, mostrando l'oggetto nascosto nel palmo. “Questo è tuo, è lo smeraldo che era incastonato nel diadema. L'ho recuperato dal pavimento.”

“Ormai non mi appartiene più. Consegnalo a Mu di Aries, è lui che ha il compito di riparare le armature” rispose Misty, e le sue iridi chiare rilucevano all'ombra delle lunghe ciglia come se riflettessero un baluginare di fiamme.

“Sei arrogante. Una caratteristica che non sempre paga, malgrado si possano celare in essa buone intenzioni; e quest'oggi ti è costata molto” ammise Saga, senza peli sulla lingua.

Senti chi parla d'arroganza... Misty lo fissò impietrito, con gli occhi sbarrati davanti ai quali scorrevano frammenti di torbidi trascorsi: terrore, orrore, attrazione e repulsione; era come risucchiato nel vortice delle reminiscenze di un passato inconfessabile. Non l'avevo confidato nemmeno al mio amico più caro, neanche Aphrodite sapeva... Il Dio della Guerra, il sopruso, l'ingiustizia celata dietro una parvenza di equità. Quella stanza sfarzosa, con i drappi scuri che velavano le mura come un sipario approntato a intrappolare segreti, e io fissavo, smarrivo lo sguardo in quei veli come in un oscuro mare in cui annegare con l'anima disgiunta dal corpo. Mi concentravo sull'espressione enigmatica delle sculture che si stagliavano come silenti e impassibili spettatori, indugiavo con lo sguardo sulle venature del marmo... mentre lacrime silenziose scendevano lungo il mio viso. Era giusto, doveva essere così, non era lecito cercare spiegazioni altrove perché quella era la volontà degli Dèi, spietati e sanguinari, noi siamo solo vittime alla loro mercé. Si riscosse da quei pensieri con un sussulto d'orgoglio e un battito delle ciglia, respingendo con violenza il proprio interlocutore, strappandogli la gemma di mano senza dire una parola.

“So a cosa stai pensando, ma... Il dèmone non esiste più” disse Saga di Gemini, e il suo sguardo confermava la sincerità di quelle parole così pure e semplici. Il Santo d'Argento non proferì parola a riguardo, si limitò a fissare l'altro in quegli occhi limpidi: eh sì, era uno sguardo rassicurante, così diverso da quello pervaso da cieca follia che emergeva dai suoi ricordi più reconditi.

È sincero, sembra sincero, si è redento, pensò, e tuttavia non riusciva ancora a comprendere le motivazioni di chi aveva accordato il perdono all'uomo che aveva quasi distrutto il Santuario con una guerra civile.
Misty poi sospirò, badando di mantenersi a distanza, scostando i capelli dal volto imperlato di sudore e modulando il respiro al fine di dissimulare gli ansiti d'angoscia. Indietreggiò, in preda al timore improvviso di doversi scontrare con gli altri. Troppo tardi, poiché un Santo di Bronzo e un altro Santo, ma d'Oro, che avevano assistito alla conversazione da lontano, gli si pararono davanti. Uno dei due, quello con l'armatura d'oro, era Aphrodite... L'ultima persona che avrebbe desiderato incontrare.

“Il Gran Sacerdote Dohko avrebbe dovuto rispedirti al tuo paese, anche se, probabilmente, non sapresti dove andare senza una dimora e una famiglia che ti attenda... Sei solo un invidioso perché non puoi vantare alcun merito, ed è questa la ragione per cui, quest'oggi, hai rivendicato attenzioni per altri che, in realtà, vorresti per te stesso.” Accuse che Aphrodite di Pisces avanzò, impettito, con la solita irritante tranquillità; le labbra serrate in un ghigno sprezzante e uno sguardo altrettanto gelido.

Sì, forse hai ragione, forse è davvero così, pensò di riflesso Misty, il più giovane dell'altro, sondando repentino nei meandri della propria mente, senza rinunciare per questo a ribattere; e, le sue, si rivelarono insinuazioni altrettanto taglienti che esulavano dall'usuale deferenza verso un esponente di rango superiore.

“E tu sei un leccapiedi” disse con un'aria di sfida che inibì il suo superiore che si accigliò, perplesso e indignato. “Quando il vento era favorevole abbracciavi l'ideale di forza come sinonimo di Giustizia, ed esaltavi quest'individuo malvagio che, a tuo dire, l'incarnava come l'unico degno di essere perseguito. Adesso ti reputi devoto a quella debole fanciulla soltanto perché lei siede sul trono dorato e impugna lo scettro, sei un ipocrita!” Esclamò alla fine pungolandolo nel vivo. Già, ipocrisia. Quella svenevole ipocrisia era lo scudo dietro il quale il Santo della Dodicesima Casa era solito trincerarsi.

Misty avrebbe pure continuato con le sue invettive ma non ci riuscì e soffocò un gemito di dolore quando si ritrovò a giacere a ridosso del gradone destinato ad accogliere gli spettatori, contro il quale era stato scaraventato; lo spigolo di pietra gli si era conficcato nelle carni fino alle ossa, e sul suo corpo perfetto sarebbero comparsi sicuramente dei lividi.

“Quella debole fanciulla, è Athena! E stai attento a come parli di lei in mia presenza, signorina.” Seiya si era intromesso inaspettatamente nel discorso, e altrettanto inattesa era stata la sua reazione violenta e impulsiva, poiché Saori Kido non rappresentava soltanto la divina Athena per lui, ma qualcosa di più.

Uno sguardo sghembo, di sottecchi, gli fu riservato dal Santo d'Argento celando con esso anche i propri pensieri. Quel verme schifoso ha osato toccarmi. Probabilmente è l'unico argomento che conosce per farsi valere. Mi ha affibbiato nuovamente quell'odioso epiteto e Aphrodite ha taciuto... non ha replicato, perché? E perché avrebbe dovuto intervenire per difendermi? Sono uno stupido. Si disse, scostando una ciocca dei lunghi capelli biondi che ricadeva davanti agli occhi e ravviandola dietro l'orecchio, maledicendosi per l'incapacità di reagire e ribattere adeguatamente alla provocazione; ed era un déjà-vu che riviveva a distanza di tempo e lo sconvolgeva, annullando la considerazione ormai precaria che aveva di se stesso, vanificando gli sforzi per confutare la dolorosa realtà.

“Non infierirò su un damerino senza armatura, femminuccia”, sentenziò lapidario Seiya.

Smidollato, e adesso che farai? Andrai a piangere sulla spalla dei tuoi pari che hanno il coraggio di sostenerti? Aphrodite corrugò le sopracciglia, si era ripromesso di tacere e di non intromettersi, non avrebbe disatteso quei buoni propositi e non provò alcun rimorso per quel pensiero intriso del suo peggior disprezzo.

“Lasciatelo stare.” S'interpose Saga tra loro, temendo per il peggio.

Misty si portò una mano alla fronte per contrastare un capogiro e, in virtù di uno sguardo distratto, rilevò la presenza dei Santi che erano sopraggiunti in quel momento. Temeva la reazione di alcuni: ora che si trovava faccia a faccia con loro in un luogo diverso dalle Stanze del Gran Sacerdote. Si rese conto, in pochi istanti, di quanto fossero devoti a quella fragile fanciulla: non vedeva dei volti ma soltanto uno stuolo di maschere dalle disparate espressioni nella cui varietà non si contemplava il sentimento della comprensione. Era davvero così ingenuo, presuntuoso o vile, da confidare nella tolleranza? E in quei volti si palesava un connubio di sprezzante ironia e desiderio di rivalersi; i bronzi erano quelli che avrebbero optato per la violenza, ma alcuni Santi d'Oro si espressero con semplice sorriso di compatimento. Volarono accuse, epiteti, ingiurie più taglienti del filo di una spada; che si quietarono solo nel momento in cui Death Mask minacciò di scaraventare tutti nell'Ade, ammiccando Misty in segno di complicità.

Death Mask di Cancer era l'unico per il quale egli realizzò di provare un po' di simpatia. Il cerchio si allargò e i Santi, pian piano, si dileguarono come a voler sancire una tregua.

Il Santo di Perseus raggiunse il compagno d'arme, leggermente in ritardo, permettendogli subito di afferrarsi al suo braccio al fine di aiutarlo a rimettersi in piedi. Il ragazzo gli mormorò qualche parola gentile all'orecchio per ringraziarlo, ma poi se ne andò da solo verso la via di casa.

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Misty realizzò di essersi assopito per qualche ora quando: al risveglio vide la luce ambrata del tramonto lambire dolcemente le pareti della stanza. Si sollevò. Aveva le ciglia appiccicate, le guance erano umide e sulle labbra poteva percepire il gusto salato delle lacrime. Il capo gli doleva in modo insopportabile con la sensazione di avere la mente ottenebrata da un'improvvisa amnesia; ma poco dopo gli sovvennero gli avvenimenti che l'avevano gettato in quello stato di prostrazione. Lui, che da sempre aveva desiderato innalzarsi e dare sfoggio delle proprie virtù, era caduto così in basso.

Doveva farsi coraggio, non sarebbe sfuggito alla realtà barricandosi in eterno tra quelle mura. Aveva ancora lo smeraldo del diadema stretto in pugno, si alzò dal letto per riporlo in un luogo sicuro e prese una lucerna per facilitarsi le cose. Trovava irritante l'obbligo di doversi adeguare a uno stile di vita come nel VI secolo a.C., nell'epoca moderna del 1990 d.C., ma era uno dei tanti precetti che scandivano la vita in quel remoto angolo di Atene.

Uscire a respirare un po' d'aria fresca gli avrebbe recato un blando beneficio, schiarito le idee; e risolse di ritornare in spiaggia incoraggiato dalla consapevolezza di non incontrare anima viva, lungo il cammino, in una serata di celebrazioni. Era una magra consolazione.

La distesa ondulata del mare catturava il riflesso argenteo della luna, che campeggiava nel buio come una fulgida stella; Misty si avvicinò alla riva, chinandosi per raccogliere un po' d'acqua nel cavo delle mani e bagnarsi il viso: era fresca e gli diede immediato sollievo. Da quella posizione volse lo sguardo a ritroso, sullo sfondo, e nel suo campo visivo si stagliò l'altura sulla quale dominava l'Acropoli. La via che conduceva al Tredicesimo Tempio, e i Templi stessi, erano illuminati a giorno dai fuochi dei bracieri e delle fiaccole che si profilavano contro il cielo notturno. Era una visione suggestiva.

Ma una presenza inattesa s'insinuò strisciando tra le ombre, giungendo di soppiatto alle sue spalle per poi annunciarsi, prendendogli dolcemente il volto tra le mani.

“Perché sei qui?! Tu non dovresti essere...” gli domandò Misty, in un connubio di ritrosia e stupore. L'altro non rispose nulla e lo zittì portandosi quasi a lambire le labbra rosee del giovane con le proprie.

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Si udiva ancora il frinire dei grilli mentre l'ultima falena danzava attratta da un flebile lume; l'aurora dissipava lentamente il velo d'oscurità che ammantava la valle sacra, e la tenue luce cesellava le fattezze di un angelo dormiente, alla guisa del bulino con cui lo scultore plasma i dettagli della propria opera infondendovi la massima cura. E quella creatura divina la si poteva soltanto ammirare, senza contaminarla col tocco impuro delle mani, se non suggellando con lui una sorta di tacito patto in cui lo scambio vicendevole incontrava le esigenze di entrambi i contraenti: quelle di colui che rivendicava il privilegio del possesso di un oggetto dal valore inestimabile; e il desiderio di chi reclamava per sé tutte le attenzioni e il bisogno di sentirsi amato, senza tuttavia concedere amore in cambio... E, così, gli aveva concesso di bearsi del sublime: di tastare la consistenza dei fili d'oro dei capelli tra le dita, di saggiare il sapore del sale sulle ciglia e sul volto accaldato, di sciogliere i legami delle vesti e lambirgli la pelle diafana con le labbra avide...

Gli aveva donato la sua essenza più pura, al di là del mero scambio di effusioni; e ora dormiva, sereno, il lieve movimento degli occhi sotto le palpebre testimoniava che stesse ancora sognando, le labbra erano atteggiate in un vago sorriso. L'altro avrebbe desiderato immortalare nella pietra la bellezza del suo Narciso, e qualche volta, con la stessa complicità del ragazzo, era riuscito nel suo intento. Prestarsi a quel diletto divertiva il più bello tra i due, che si compiaceva di essere venerato come un semidio, benché fosse un gioco pericoloso contemplare il simulacro di Medusa in rilievo sullo scudo...

 

***

III

 

Aphrodite

 

Non avevo l'abitudine di oziare a letto nemmeno in quei giorni in cui potevo permettermelo; mi recai fuori dal Tempio molto presto, prima del sorgere del sole, per godere un poco di quell'aria fresca che sarebbe divenuta torrida in tarda mattinata. Ma in realtà non era questo il motivo della mia inquietudine, e continuavo a domandarmi le ragioni di tanta stupidità e leggerezza: come si poteva gettare tutto alle ortiche in quel modo? Pensai alla cerimonia celebrata la sera precedente, al momento in cui non avevo nulla da festeggiare ed ero assorto, con lo sguardo fisso sul cratere in cui si mescevano le bevande e dal quale i miei pari attingevano il vino...

 

Søren il tuo calice è vuoto" pronunciò la voce del Santo della Quarta Casa, che m'indusse a destarmi bruscamente da quell'inerzia congiunta a noia, ma lo fulminai con uno sguardo, nella vana speranza d'indurlo a tacere e non proferire sproloqui: “Il vino accomuna gli uomini alle bestie” sentenziai, rispondendogli a tono.

Tuttavia abbozzai una parvenza di sorriso. La nostra poteva considerarsi più di una stretta amicizia. Cosa poteva esserci di più gratificante? Conquistare e vincere... Levai il calice e scrutai le fattezze del mio commensale attraverso il vetro opaco, avanti di porgerglielo.

In quanti pensiamo quello che ha detto Lacerta senza avere però gli attributi per dirlo?” Esordì lui, lasciandomi senza parole.

 

Quell'affermazione così audace mi aveva fatto sorgere un dubbio sulla bontà dei nostri intenti, sull'autenticità delle nostre azioni; e Death Mask, nonostante il passato turbolento, era una persona autentica di quelle che ostentano la forza con i deboli e, senza artifici, vile ritrosia verso i loro pari o superiori. Un'osservazione di questo tenore, da parte sua, era significativa. Ma ero troppo indignato per il comportamento di Misty nei riguardi di Athena e di Dohko; no, non l'avrei perdonato, nemmeno ponderando le ragioni del suo gesto a mente fredda. Mi appoggiai di spalle contro al fusto di una colonna volgendo lo sguardo sulla valle addormentata, ancora avvolta dalla foschia notturna, e all'orizzonte mi sembrava di scorgere le ultime stelle: amavo vederle brillare nel buio, di un bagliore così mite e distante che, a differenza della luce diurna, non aveva facoltà di celare gli altri fuochi. Dovevo sempre preoccuparmi per gli altri quando avrei potuto beneficiare tranquillamente del mio status privilegiato, in quell'epoca di ritrovata armonia, proprio come ai tempi della mia investitura. Rimpiangevo il cinismo di allora e mi doleva ammetterlo. Forse, partecipare agli allenamenti mi avrebbe aiutato a distendermi, ma ero combattuto e, infine, il lato introverso della mia personalità prevalse.

Avevo le mani e gli avambracci cosparsi di graffi, come ogni volta in cui mi accingevo a svolgere quel lavoro, ma le piante mi ripagavano con la bellezza e la dolcezza del loro profumo. Portai un fiore sotto il naso inspirando la sua fragranza. Ero soddisfatto. Impiegare il mio tempo in qualche attività che mi piaceva era gratificante; rammentai di aver consumato un pranzo frugale ed era già quasi ora di cena. Mi sciacquai le mani sotto l'acqua corrente della fontana, ravviando poi un ciuffo di capelli con la mano umida prima di andare a mettere qualcosa sotto ai denti.

“Posso passare?” Udii a un tratto in una richiesta quasi esitante. Dannazione, non desideravo vedere quella persona, non in quel raro momento di pace e tranquillità. Egli si palesò varcando la soglia dell'architrave che si affacciava sul mio giardino: la sagoma esile ed elegante, celata all'ombra delle colonne, divenne più nitida alla luce del tramonto che lambiva i suoi capelli d'oro che incorniciavano l'ovale delicato, dallo sguardo languido e acquoso. Lo guardai fisso in quegli occhi tersi soffermandomi sul volto ora così innocente... e infantile: “Dove devi andare?” domandai aspramente.

“Al Tredicesimo” rispose asciutto l'altro.

“Non mi risulta tu sia stato convocato, al contrario, credo che saresti un visitatore indesiderato” soggiunsi con la medesima inflessione di voce. Ma subito dopo mi sforzai di essere gentile constatando la sua aria dimessa e fragile. Mi sovvennero quei piccoli sauri che sovente sorprendevo ritemprarsi al sole, immobili sulle pietre roventi, i cui battiti del cuore si scorgevano susseguirsi rapidamente attraverso l'esile strato di pelle squamosa. Creature subdole e indifese al tempo stesso: lucertole.

Non volevo ammetterlo ma provai compassione ed ero anche curioso di sapere dove fosse finita tutta la sua sicurezza, tuttavia stetti in silenzio e lui tergiversò a sua volta, mostrandomi una gemma sul palmo della mano. La riconobbi all'istante, la pietra preziosa si era staccata dal diadema facente parte della sua armatura. L'afferrai, ammirandone la consistenza in controluce: “Non preoccuparti la consegnerò io a chi di dovere, adesso puoi andare.”

Il ragazzo non replicò e mi voltò le spalle nell'atto di allontanarsi. Non seppi cosa mi prese in quel momento ma lo richiamai per nome ed egli indugiò.

“Hai molto tempo libero in questo periodo, giusto?” gli chiesi. Esitò nel rispondermi evitando di guardarmi dritto negli occhi, ma poi si decise a dire qualcosa.

“Sì, non ho praticamente nulla da fare, ho passato tutte le consegne a Shaina.”

“Quella bisbetica” replicai sorridendo, ben consapevole che vi fosse un fondo di verità nella mia affermazione. Misty non accennò nemmeno un timido sorriso, il suo sguardo era imperturbabile: freddo come il ghiaccio e, allo stesso tempo, quell'espressione sembrava esaltare la sua algida bellezza. Ciò m'indusse quasi ad adottare una linea più morbida nei suoi confronti e, forse, era proprio quello il motivo per cui non desideravo affrontarlo, al di là delle sue bravate... Mi sorprendevo nel riscoprirmi così altruista, un aspetto davvero inusitato del mio carattere.

“Allora starai qui con me e mi aiuterai a sbrigare le mie faccende se ne avrò bisogno oppure mi terrai semplicemente compagnia” conclusi a dispetto della mia volontà.

Misty assentì, com'era solito fare quando non aveva validi argomenti da esporre, così sedette sulla panchina in attesa; io presi posto al suo fianco e mi limitai a osservarlo. Sembrava così immerso nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso sulla ciocca di capelli biondi avvolta tra le dita bianche e sottili. Sospirai, incerto, non ero sicuro di voler interrompere quella sorta di meditazione.

“Eri convinto che ti dessero una medaglia?” Spezzai quel pesante silenzio con sarcasmo. Finalmente si riscosse e mi degnò di uno sguardo, ma sembrava non avesse parole adeguate per controbattere: il suo mutismo era disarmante.

“Ci sono i predestinati, gli eletti, Misty. Bisogna farsene una ragione. Noi non rientriamo nella categoria dei prescelti e dobbiamo accontentarci delle briciole di quella gloria, come astri che brillano di luce riflessa.” Non sapevo quanto le mie parole suonassero consolatorie, e seppur pervase da impietoso realismo, ebbero l'effetto di scuoterlo da quel torpore. Dischiuse le labbra per mormorare qualcosa e infine, trovò il coraggio di esporre il pensiero che si agitava nella sua mente:

“Tu conoscevi il suo segreto, perché l'hai custodito e hai avallato l'inganno come una verità assoluta?”

“Hai mai amato qualcuno, come avresti fatto con i genitori che non hai mai conosciuto?” replicai alla sua domanda con un'altra domanda, benché fossi certo di conoscere la risposta. E quel mio presumere mi indusse a irrigidire nuovamente la mia posizione nei suoi confronti. Sì, ero prevenuto. Misty dischiuse le labbra nell'intento di rispondermi ma io lo anticipai.

“Risponderò io per te: e la risposta è no. Perché hai un cuore di pietra e non sei in grado di amare nessuno.” O forse, mi dissi un attimo dopo, ero io a essere così insensibile da ignorare quali fossero i suoi veri sentimenti. Le mie parole inibirono ogni sua possibile risposta ed egli continuò a tacere pervicacemente, come se avesse le labbra cucite e celandomi il suo sguardo.

“Saga era una figura di riferimento importante, per tutti, e non fu difficile assecondarlo anche nella follia. Era anche forte, incarnava quell'ideale alla perfezione e nessun altro avrebbe potuto eguagliare la sua forza alla guida del Santuario. Sì, è vero, nemmeno io riuscivo ad accettare che la Dèa della Giustizia avesse l'aspetto di una bambina o di una delicata fanciulla: chi sembra debole non può arrogarsi l'onere di proteggere nessuno e, generalmente, non è in grado di esercitare l'autorità. Questa fu la convinzione che mi spinse a credere di sostenere la causa giusta, che portai avanti fino all'ultimo nonostante avessi visto cadere i miei compagni uno a uno. Furono quelle morti ad aprirmi poi gli occhi, ma era troppo tardi e dovevo prestare fedeltà al mio giuramento, a costo di lasciarci la vita io stesso.”

Era come se in quella confidenza avessi profuso tutta la mia energia, ma parlarne con qualcuno ebbe un effetto liberatorio. Ero stanco, mi abbandonai appoggiandomi contro lo schienale della panchina di pietra, sospirando e, ancora, Misty non disse nulla e mi domandavo a cosa stesse pensando. Mi voltai verso di lui e notai qualcosa luccicare tra le sue folte ciglia, così gli dissi:

“Dovresti scusarti con Saori. Credo che si aggiusterebbe tutto, poiché le tue perplessità attuali sono state anche le nostre... " Poi però, soppesando il suo sguardo aggiunsi: "Ma credo che non lo farai.” Mi levai in piedi volgendogli le spalle al fine d'ignorarlo, m'innervosiva e non potevo fare nulla se non affrontare quella sua tristezza con distacco. Ciò che lo turbava non era affare mio e in un certo senso se l'era cercato.

 ~

Era ancora un bambino ai miei occhi, quel fratellino che non avevo mai avuto. Il mio letto non era abbastanza grande per tutti e due e lui credeva di abbracciare il cuscino. Riuscii a non svegliarlo sgusciando da sotto il suo corpo, e non potei esimermi dal soffermarmi a guardarlo anche solo per pochi istanti. Allontanai una ciocca di lunghi capelli dal volto d'alabastro ravviandola dietro l'orecchio, per poi posargli un lieve bacio sulla guancia. Il suo incarnato pallido auliva di un profumo dolce e salino, così affine alle mie rose e all'aria salmastra del mare. Le vesti che indossava erano chiare e il bagliore mattutino che illuminava la stanza gli conferiva un'aura di etereo splendore. Quella stanza mi era sempre sembrata un po' troppo sobria e impersonale. L'unico vezzo era lo specchio dorato che rimandava, ogni giorno, l'immagine di cui andavo fiero, senza mai lasciarmi sfuggire una singola parola di apprezzamento, a differenza di lui...

Mi sovvenne il momento doloroso in cui avevo ricomposto il suo corpo, quando gli deposi una rosa sul petto prima che sigillassero il sarcofago; e adesso era qui, insieme a me, grazie al gesto magnanimo della Dèa... Ma scacciai quei pensieri e lo lasciai solo. Vi erano troppe incombenze ad attendermi quel giorno, inclusa una convocazione al Tredicesimo di cui non conoscevo le ragioni; ma non credevo che Misty c'entrasse qualcosa, anzi, lo escludevo. Gli avevo dato un incarico da svolgere, avrebbe dovuto occuparsi del giardino in mia assenza; in quanto era l'unica persona cui potevo delegare l'onere di badare alle mie rose: le conosceva ed esse conoscevano lui. Avrei istruito le ancelle affinché gli servissero qualcosa per colazione e poi per pranzo come facevano con me d'abitudine. Il mio ruolo di Custode della Dodicesima Casa m'impediva di partecipare alla vita sociale secondo le usanze comuni.

 

Non che rimpiangessi il passato, anche se per esso provavo immenso rammarico e vergogna, ma era così strano vedere un'altra persona all'infuori di Saga ricoprire la carica di Gran Sacerdote. Mi guardai intorno riservando un poco della mia scarsa attenzione ai commilitoni allineati e compunti, maestosi e catafratti nelle loro armature scintillanti, sebbene alcuni sfoggiassero una postura ben poco regale. Mu, colui che aveva sempre tenuto le parti dei giusti in sordina, viveva senza infamia e senza lode, e quando lo vidi era quasi prossimo allo sbadiglio. Cancer masticava lo stelo di una spiga di grano con la solita aria strafottente, il valoroso Aiolia si sorreggeva a ridosso di una colonna e ciondolava stancamente per effetto dell'inedia, o era la tresca amorosa con la Sacerdotessa dell'Aquila ad averlo stremato? Mi chiesi mentre rischiai di lasciarmi sfuggire un sorrisetto malizioso e mi morsi il labbro in extremis. Per Zeus! C'era anche suo fratello Aiolos... A lui non riuscivo a guardarlo negli occhi, era aberrante quella sensazione che provavo ripensando alle nefandezze commesse nella vita precedente, e chissà se un giorno sarei riuscito a liberarmi dai sensi di colpa che mi perseguitavano.

Che cosa doveva comunicare il Sommo per convocare la Casta dei Santi d'Oro al completo? Forse, l'incombere di un nuovo conflitto? Non ne ero così sicuro poiché non aleggiava la tipica tensione che precede una guerra e non ne avevo avuto sentore, era tutto così idilliaco e tranquillo ma non potevo escluderlo a priori prima di averne avuto conferma.

Saori Kido era assente, me ne avvidi subito dopo il mio ingresso nella sala, e quel particolare m'indirizzò verso altri pensieri. La dèa non si rendeva spesso partecipe della vita al Santuario, e non vedevo quella scelta di buon occhio sebbene fossi consapevole che, prima di essere Athena, Saori Kido era una donna, e tutti sapevamo che avrebbe vigilato su di noi da lungi. Non avrebbe dimorato in questo luogo a lungo – lo aveva annunciato – ma sarebbe tornata alla Fondazione in Giappone, e non da sola. Non riuscivo a comprendere i favoritismi ai Santi di Bronzo – malgrado la loro parte rilevante nella vicenda – sebbene dovessi farmene una ragione... Ero più che convinto che anche gli altri non condividessero quella scelta benché se ne potessero comprendere le ovvie motivazioni, ed era consigliabile mantenere il riserbo ossia tacere e ingoiare il proprio malanimo. Misty lo stava imparando a sue spese. E io, poco a poco, stavo riuscendo a entrare nell'ottica del suo gesto malgrado qualcosa non mi fosse ben chiaro; dovevo ancora capire se egli aveva agito mosso dall'amor proprio o per un intento più nobile, e le parole di Death Mask mi avevano aperto gli occhi a tale proposito.

Finalmente Dohko diede un cenno d'inizio al discorso e i miei pari si destarono all’improvviso dal torpore che concerne l'attesa.

“Santi di Athena siete qui riuniti, quest'oggi, affinché sappiate che le Sacre Vestigia di Libra reclamano un nuovo possessore dopo tanto tempo, e la Settima Casa avrà finalmente un Custode. A giorni sarà celebrata una cerimonia d'investitura con cui designerò il mio successore.”

Shiryu, pensai. Non avevo alcun dubbio che si riferisse a lui. Amarezza, fui sopraffatto da profonda amarezza... E perché poi avrei dovuto sentirmi amareggiato? Era una decisione equa, condivisibile, Shiryu era un successore più che degno; lo spirito di abnegazione e le sue imprese eroiche lo rendevano del tutto meritevole di un titolo indiscusso. Eppure... fremetti, mi punsi con la spina della rosa che rigiravo nervosamente tra le dita: ahi, mi succhiai il sangue che fuoriuscì dalla punta del dito.

“Cos'hai? Sei nervoso?” Shura si rese subito conto del mio stato d'animo, e non poteva essere altrimenti, ci capivamo al volo: su di me e i miei tre compagni sembravano gravare i vergognosi trascorsi e indirettamente eravamo dei reietti, nonostante il perdono accordato dalla dèa. Guardai Shura negli occhi e fu allora che sbottai.

“Perdonatemi Eccellenza, ci sarebbe un altro candidato. Un'altra persona nata sotto il segno di Libra alla quale permettere di concorrere per il conseguimento del titolo.”

“E sarebbe?”

“Mi sorprende apprendere che voi ignoriate l'identità degli altri Santi nati sotto quella costellazione...” Non seppi nascondere la pungente ironia espressa in quelle parole, ma fui attento a non perdere il controllo poiché con esso avrei perso anche credibilità. Non mi riconoscevo, dov'era finita la mia diplomazia, la mia abilità a dissimulare malcontento evitando di espormi in prima persona?

“Non la ignoro ma, illuminaci... Santo di Pisces: quali sarebbero le imprese rimarchevoli nelle quali egli si è distinto?” Alla domanda del Sommo seguirono alcune risate, i miei pari si erano destati dal tedio mortale che li avvinceva, l'argomento aveva stuzzicato il loro interesse. L'atteggiamento di alcuni m'irritò: rilevai sopracciglia inarcate su sguardi stupefatti e inebetiti, labbra che si contorcevano in sorrisi beffardi, da Milo e Kanon me lo sarei aspettato, ma da altri...

“L'armatura reclama il possessore anche in virtù della costellazione di appartenenza” affermai sicuro di me.

“Esattamente” convenne Saga. “Sarebbe opportuno concedere la possibilità anche ad altri candidati di segno corrispondente, al di là delle credenziali acquisite sul campo” puntualizzò il Santo della Terza Casa non senza sorprendermi per il suo intervento inatteso, non aveva perso l'autorevolezza che lo contraddistingueva quando era insignito del ruolo di Gran Sacerdote. E i suoi occhi erano limpidi e sinceri, così com'erano stati quando ero solo un piccolo apprendista.

“Non è sufficiente. La persona a cui vi riferite non ha alcun diritto di concorrere per le Vestigia d'Oro. Viltà e vanità sono fattori incompatibili con questo ruolo" affermò Dohko.

Se è così, allora, molti di coloro che le indossano dovrebbero esserne privi a cagione di vizi ben più gravi! Pensai senza avere il coraggio di esprimere la mia opinione, e mi resi conto di quanto il mio discepolo avesse ragione nel considerarmi un ipocrita: ero un pavido ipocrita che si adattava a tutte le situazioni, in virtù dell'ambiguità e uscendone sempre indenne.

Viltà e vanità: quelle accuse nei confronti di Misty mi fecero infuriare, erano solo preconcetti legati al suo temperamento, al modo in cui egli era solito porsi nei confronti degli altri. Lo conoscevo bene Misty, e lui valeva di più, molto più di quanto loro pensassero:

“Perdonate ancora una volta la mia insistenza ma stiamo parlando di un Santo d'Argento! Se facessimo riferimento alla scala gerarchica, egli sarebbe più in diritto di conseguire le auree Vestigia di quanto non lo sia un Santo di Bronzo.”

“Pisces, cerca di essere ragionevole invece di sostenere tesi prive di logica. La decisione è già stata presa e credo sia giusta per i motivi che ho indicato” concluse il Sommo, con la solita flemma e irritante pedanteria.

“Certamente, non è mia intenzione contraddirvi ma vorrei solo ribadire che si sta sottostimando un Santo d'Argento in base all'indole, e dall'indole di una persona si evince poco o nulla." Era l'ultimo tentativo e sapevo di non potermi sbilanciare troppo con le parole per codardia, o per opportunismo – ma erano indizi che qualcuno, se avesse voluto, avrebbe potuto cogliere e ponderare. Avevo parlato troppo, decisamente troppo per il mio temperamento. Mi sentivo demotivato, svuotato, e non aveva alcun senso persistere nell'arringa che non avrebbe portato a nulla. Desistetti. Shura e Death Mask mi rivolsero uno sguardo dal quale si evinceva avessero compreso le mie intenzioni.

“Hai detto la tua, Aphrodite, e va bene, ma questo non potrà rimescolare le carte in tavola.”

 

La riunione era terminata e avrei potuto immergermi nella tranquillità della mia dimora. Dovermi intrattenere con altri, seppur miei parigrado, m’indisponeva e in una giornata così inconcludente a maggior ragione. Mi aspettavo di essere investito dal consueto bagliore accecante, uscendo dal Tredicesimo Tempio, ma i miei occhi sensibili si adattarono dolcemente al passaggio alla luce. Il tempo stava cambiando. Scrutai il cielo che si era incupito. Percorsi la scalinata e, giunto sul ballatoio della Dodicesima Casa, imboccai il portico colonnato adiacente che mi avrebbe condotto al giardino. Quando vi giunsi, Misty era ancora lì e rimase voltato di spalle a contemplare lo scenario che si stagliava sul versante affacciato sul mare. Sembrava godersi l'impeto del vento, che poi era il suo elemento naturale, ignorando il rumore dei miei passi come se non mi avesse sentito arrivare, cosa improbabile dato il fragore inconfondibile dell'armatura e l'emanazione del cosmo che non avevo celato. Forse non aveva voglia di parlare ed era un bene, in quanto io stesso ero così demoralizzato dopo quello che avevo appena udito sul suo conto.

Ben venga la mia ipocrisia, la mia abilità a simulare falsi sentimenti... Non avrei faticato a nascondergli che era stato menzionato nella discussione... Mi avvicinai con discrezione osservando i serici fili dei suoi capelli fluttuare nell’aria, si voltò, probabilmente era sovrappensiero e mi rivolse appena un cenno di saluto. Gli sollevai il mento indugiando con lo sguardo sulle sue iridi chiare – le quali rivaleggiavano con il blu profondo del mare che si stagliava sullo sfondo – e lo ringraziai per il lavoro svolto. Lo invitai a sedersi sul solito sedile di pietra esortandolo ad aspettarmi. Ritornai dopo essermi liberato dall'armatura. Mi voltai chinandomi verso il cespuglio di rose bianche, per lambirne la corolla con le dita, attratto dal loro profumo.

“Sei tu a dominare il vento?”

“No, non è opera mia, non sono io a dominare le correnti atmosferiche questa volta.”

“D'accordo” risposi, conciso, e il mio sguardo ricadde sulle mani che poggiava intrecciate in grembo; la pelle candida era percorsa da graffi sanguinanti. Nulla di strano, non avrei dovuto sorprendermi perché ciò era quanto accadeva ogni volta che mi dedicavo alla cura delle piante. Ma... lui, non riuscivo a credere che sfoggiasse quelle ferite con tanta disinvoltura, sapevo quanto fosse legato al concetto di perfezione che l'ossessionava.

Forse, Misty seppe cogliere il pensiero che celavo dietro l'imbarazzante silenzio, e mi sorrise con uno sguardo divertito: “Ciò che ho fatto per te non l'avrei fatto per nessun altro.”

Non risposi nulla e mi limitai a versare qualcosa da bere, anche lui stette in silenzio dopo essersi soffermato a osservare le nubi scure che si addensavano nel cielo – ma quanto limone sta strizzando in quella tazza di tè senza zucchero?

“Come si raggiunge il settimo senso?” esordì poi, con quella domanda che suonava inopportuna. Mi prese alla sprovvista perché si trattava di un quesito che non si risolveva con botta e risposta. Sospirai in silenzio stringendomi nelle spalle.

“Non c'è un modo: lo si raggiunge e basta” gli dissi, consapevole di quanto la mia risposta non fosse soddisfacente.

“E come?” m'interrogò con l'ingenuità di un bambino.

“In realtà, senza saperlo, tu lo possiedi già.”

Misty trasalì, perplesso, guardandomi come se fossi impazzito: “Se fosse vero le cose sarebbero andate diversamente quella volta in Giappone con Seiya.”

“No, per due motivi: intanto tu non combattevi sotto l'egida di Athena ed eri convinto del contrario; poi, a causa dell'eccessiva fiducia in te stesso, ti sei impedito di affrontare l'avversario al massimo del tuo potenziale” soggiunsi e Misty posò la tazza sul tavolo fissandomi con un'espressione consapevole.

“Adesso, dimmi, sei ancora così sicuro di te stesso come allora?”

“Non più tanto, ma tu sei l'unico a saperlo.”

“È naturale, e avendo acquisito tale consapevolezza le cose oggi andrebbero in modo diverso.”

“Ne sei certo?”

“Sì, lo sono. E non sono menzogne proferite al fine di farti ritrovare il sorriso” risposi e lui non replicò. Era probabile che credesse alle mie parole. Portò la tazza alle labbra e bevve ancora un sorso di tè, per poi riporla sulla superficie di pietra del tavolo.

“Adesso dovrei andare” disse.

“Dove?”

“A casa. Mi sono intrattenuto troppo qui e il Dodicesimo Tempio non è il luogo adatto a me, non è il mio posto.”

“Da quando tutta questa umiltà?”

“Non si tratta di umiltà, è la realtà dei fatti” affermò.

“Aspetta!” Evocai una rosa con il cosmo, bianca e profumata come quelle che sbocciavano nel giardino, e gliela porsi. Egli ne cinse il gambo tra le dita, la annusò per poi collocarla tra i boccoli dorati come faceva spesso da bambino.

“Grazie, Søren” disse scoccandomi un labile sguardo, non si era mai rivolto a me chiamandomi col mio vero nome. Non seppi trattenerlo quando mi voltò le spalle per allontanarsi... Non ebbi il coraggio di fermarlo.

Il Sommo mi aveva fatto di nuovo chiamare a distanza di poche settimane e, anche questa volta, non avevo la più pallida idea di cosa avesse da dirmi. Presidiavo il Tempio come ogni giorno e questa nuova convocazione turbò la mia tranquillità.

Contemplai il cielo sgombro da nubi contro il quale si profilavano le sagome maestose dei Templi. Il candore della pietra e dei marmi contendeva come di consueto con lo sfondo, quando questo era sereno. Mi distrassi volgendo lo sguardo a seguire le evoluzioni di alcuni uccelli – cercando di individuarne la specie – ma l'immagine s'impresse sulla retina in forma di macchie scure, e dovetti abbassare gli occhi a causa di una fitta lancinante alle tempie. Spesso dimenticavo di avere occhi tanto sensibili e quel bagliore mi fece sgorgare le lacrime.

Mi voltai per intraprendere il percorso in salita, appuntando il mantello con la fibbia, innumerevoli dubbi e interrogativi balenavano nella mia mente irrequieta e non riuscivo ad arginare quel flusso di pensieri. Quando arrivai sulla soglia del Tredicesimo Tempio i servi avevano già dischiuso i battenti. La frescura, all'interno, mi diede sollievo, poiché bardato nelle Sacre Vestigia grondavo di sudore. L'afa estiva era davvero insostenibile ed ero convinto che non mi sarei mai adattato a quel clima estremo. Mi avviai quasi stancamente a percorrere il considerevole spazio che collegava l'ingresso al Tempio con il soglio riservato alle autorità, m'imposi di mantenere un contegno decoroso, malgrado la debolezza. Il Gran Sacerdote mi attendeva seduto sul proprio scranno, e quando giunsi presso di lui, dopo essermi prostrato in segno di deferenza, mi esortò a rialzarmi e ad attendere. Feci vagare lo sguardo, deconcentrato, a sondare l'ambiente circostante, con il solo fine d'ingannare l'attesa. Non desideravo esternare perplessità e malcelato timore.

Vi fu ancora silenzio, fino al momento in cui non fece capolino – da un accesso secondario e retrostante il periptero – la dèa, o la donna, preceduta da un'emanazione benevola e potente. Gli indumenti candidi e il luccichio dei gioielli mi esortarono a socchiudere le palpebre.

Eravamo soltanto noi tre, eccetto i servitori che se ne stavano in disparte e un paio di ancelle che accompagnavano Saori Kido.

Avevo il cuore in gola, non era da me sentirmi così nervoso, né rammentavo di aver provato un simile disagio prima d'ora. La tensione si affievolì solo quando la donna si avvicinò a me: mi fissò ed ebbi la sensazione di essere nudo e inerme dinanzi a lei. Sentii le ciglia inumidirsi poiché gli occhi si erano velati di lacrime. Malgrado ciò mi stavo riscuotendo dal malore che stava per sopraggiungere.

Le labbra ben disegnate della fanciulla si schiusero distendendosi in un sorriso:

“Non dovrà scusarsi con me” disse. “Dovrei essere io a fare ammenda nei vostri confronti: nei riguardi dei Santi, tutti. Mi sono dimostrata debole e parziale. Ho riflettuto molto dopo quell'episodio... e nessuno è responsabile di nulla se non il destino stesso. Tutti siamo vittime ma non vi sono carnefici e né eletti.”

Il Sommo rimosse la maschera che solitamente gli celava il volto ed era molto più rassicurante vederlo così: corrugò le folte sopracciglia rossicce, aggrottò la fronte, e mi osservò con quegli occhi verdi, così acuti da brillare come smeraldi sul volto nobile e affabile. Non potei esimermi dal ricambiare quello sguardo, rimanendo a bocca aperta per lo stupore.

“Ho ponderato in merito alle tue considerazioni, Custode della Dodicesima Casa. E sono giunto alla conclusione che nelle tue parole vi era discernimento. Pertanto, io e Athena, abbiamo convenuto che sia lecito ammettere il tuo discepolo nella rosa dei candidati che concorreranno per le Sacre Vestigia d'Oro di Libra. In tal modo gli sarà data quell'opportunità che il destino sembrava avergli precluso.”

“Sarai tu a informare il Santo di Lacerta affinché si prepari ad affrontare questa nuova prova” soggiunse Athena.

Ero consapevole della gioia che Misty non avrebbe, mai e poi mai, fatto trapelare dal volto o dalle sue parole nel momento in cui avrebbe appreso una simile notizia. Un'ambizione che reputava irrealizzabile anche nelle più rosee previsioni, un sogno vago e distante di cui una volta soltanto aveva fatto menzione nei suoi discorsi. Annuii in risposta, riscuotendomi da quei pensieri. Non avevo parole adeguate per esprimere la mia gratitudine nei confronti delle persone che, io per primo, avevo considerato ingrate.

“Va bene ” replicai, senza palesare i miei sentimenti...

 

 

 

   
 
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