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Autore: Adeia Di Elferas    07/12/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Alessandro VI ricontrollò una volta ancora le firme dei diciassette Cardinali che avevano sottoscritto la bolla con cui sollevava Caterina Sforza e i di lei primi quattro figli maschi dal titolo di signora di Imola e Forlì.

Voleva che tutto fosse in regola, inattaccabile, che nessuno potesse trovare un cavillo per dichiarare quell'atto non valido. Lei sarebbe stata solo la prima. Aveva pronte invettive contro tutti i signori della Romagna e le bolle sarebbero state firmate e sigillate una dopo l'altra.

Aveva voluto fortemente che la Tigre fosse tra le prime, a essere dichiarata un'usurpatrice, perché, a differenza di tanti porporati e di tanti altri potenti d'Italia, lui l'aveva conosciuta e sapeva di cosa era capace.

Quel 9 marzo, con quella bolla, stava cercando di porre fine al regno della Leonessa di Romagna una volta per tutte.

Quando lui non era ancora papa e lei era la moglie dello smidollato Conte Girolamo Riario, Rodrigo aveva avuto ben modo di scontrarsi con la Sforza, e all'epoca ella non era che una donna di vent'anni sì e no. Adesso che aveva sulle spalle altri due mariti, uno squadrone di figli e uno Stato che era riuscita a salvare da rivolte popolari, congiure e guerre... Ebbene, se non avesse dovuto guardarsi da lei, da chi altri avrebbe dovuto?

“Va bene, va bene...” disse piano, al suo segretario: “Abbiamo già scritto a mio figlio?”

L'altro annuì e assicurò: “Una missiva a mezzo staffetta rapida questa mattina, Vostra Santità.”

Il papa annuì, stanco, e poi disse che si sarebbe ritirato nei suoi alloggi per qualche ora, per meditare. La verità era che si sentiva appesantito, in quei giorni. L'enormità di quello che stava facendo, spinto, se ne rendeva conto anche troppo, dalla brama di potere di suo figlio Cesare, lo stava quasi schiacciando.

Quello era il momento della verità. Si sarebbero giocati tutto nel giro di pochi mesi. Era giunto il giorno, per i Borja, di fondare un impero o naufragare nel tentativo.

Arrivato nella sua camera da letto, Rodrigo andò all'inginocchiatoio. Non lo usava da mesi. Forse da anni... Piegò le gambe, a fatica, le ginocchia che stridevano sotto il peso del suo corpo appesantito dagli anni. Giunse le mani e chiuse gli occhi. Alla fine, sentendosi ridicolo, in quella posizione, tornò ad alzarsi, seppur a fatica.

Puntando l'indice contro il crocifisso d'oro appeso al muro, l'uomo disse, minaccioso: “Vedi di far filare tutto liscio, tu. Ricordati che io sono il papa, e Dio deve aiutare il suo santo pontefice.” e detto ciò, per distendere i nervi tesi di quella giornata, Alessandro VI si mise comodo sul divanetto davanti al camino e, dopo qualche minuto di sonnolenza, si assopì.

 

Alessandro Orfeo ringraziò con un cenno del capo e si sedette, dicendo poi: “Non c'era bisogno che vi scomodaste a venire fino a qui... Se volevate parlarmi, potevate chiamarmi alla vostra rocca.”

Caterina si era accomodata su una poltrona abbastanza comoda davanti al camino, ben prima che l'ambasciatore gliene desse il permesso e, adesso, nel sentirlo parlare a quel modo, i suoi occhi saettarono verso di lui come due dardi.

Sapeva che quell'uomo aveva fatto quella proposta – all'apparenza del tutto innocente – al solo scopo di avere più occasioni di spiare la vita di Ravaldino e, proprio per quello, la Sforza aveva deciso di incontrarlo solo o a palazzo Riario, o in quell'alloggio che era riuscita a fargli ottenere a un prezzo decisamente modico.

“Non preoccupatevi per me. Fare due passi in città non mi fa che bene, e mi permette di mantenere il contatto con la gente.” rispose la Contessa, senza inflessioni particolari.

“Non avete paura per la vostra incolumità? Vi ho vista dalla finestra arrivare completamente sola, ma non mi pare accorto, per una donna nella vostra posizione, esporsi a un simile rischio...” fece Orfeo, giungendo le mani in grembo e accigliandosi.

Voleva carpire il più possibile la mentalità della Tigre e, non solo, voleva conoscere meglio il suo rapporto con i forlivesi e il suo senso del pericolo. Ognuna di queste caratteristiche interessavano quasi morbosamente al Moro che, sempre più spesso nel corso degli anni, si era chiesto come avesse fatto sua nipote a sopravvivere a tutte le avversità che le si erano poste davanti senza mai perdere del tutto il favore popolare.

“So difendermi, se è questo che volete sapere. E la mia gente sa quello di cui sono capace.” tagliò corto Caterina, cominciando a cercare nel tascone del suo abito la lettera che voleva mostrare all'ambasciatore: “Ma veniamo al motivo per cui sono qui. Leggetela.”

Alessandro si sporse un po' in avanti e, illuminato tanto dal fuoco del piccolo camino, quanto dal sole pallido che entrava dalla finestra alle sue spalle, prese la missiva tra le dita, chiedendo: “Chi vi scrive? E perché devo leggere?”

“Fatelo e basta.” ordinò la donna, mettendosi in attesa.

Il milanese scorse subito il nome del mandante: Achille Tiberti, che aveva inviato il messaggio direttamente da Cesena. Più andava avanti con la lettura, più il viso di Orfeo si faceva cereo e i suoi occhi indugiavano ora sul foglio, ora sulla Leonessa, cercando di capire cosa lei si aspettasse da lui.

Tiberti, con parole abbastanza dure, accusava Milano di immobilità, mentre la Francia si legava sempre più saldamente a Venezia, creando, a suo dire, una vera e propria lega. Inoltre puntava il dito in modo deciso contro il papa, che avrebbe fatto sposare a breve – o forse aveva già fatto celebrare il matrimonio, chi poteva dirlo con certezza – suo figlio Cesare a una certa Charlotte d'Albret, procurandogli anche un titolo nobiliare, preparandolo, in poche parole, a divenire l'araldo di Luigi XII in Italia. Per concludere, si insinuava la complicità di Firenze che, pur non muovendo una foglia, avrebbe avvallato l'alleanza veneto-francese ai danni del Duca di Milano senza che questi, pur al corrente del pericolo, ne facesse parola con la Sfora, né cercasse un modo concreto di allestire la propria difesa.

“Allora? È vero quello che c'è scritto?” chiese la Contessa, quando Alessandro voltò il foglio per controllare se vi fosse scritto qualcosa anche sul retro.

“Io non so che dire, io...” farfugliò l'ambasciatore, passandosi la lettera da una mano all'altra.

“Per Dio, Orfeo! Voi vivete a Milano! Siete un uomo di fiducia di mio zio! Dovete sapere se queste cose sono vere o meno!” esclamò la donna, alzandosi in piedi e prendendo a camminare nervosamente per la piccola stanza: “Che razza di alleanza è, quella che mi propone mio zio, se poi non mi mette al corrente nemmeno di una cosa del genere? Cosa pensa di fare? Di darmi ordini e basta?”

“Il Duca di Milano è convinto che la situazione con la Francia sia tutt'altro che irrecuperabile, e dunque pensa sia prematuro, arrischiare contromosse...” prese a dire l'uomo, appoggiando al tavolino la missiva, quasi che a tenerla ancora tra le dita potesse scottarlo: “Senza contare che costui che vi scrive, questo... Achille Tiberti... Insomma, potete realmente fidarvi di quel che vi dice? Non credete che voglia solo spaventarvi, per convincervi a passare dalla parte dei plausibili vincitori e quindi di Venezia?”

“Non sono venuta qui per farmi dire da voi di chi mi devo fidare e di chi no. Sono qui solo per sapere cosa passa per la mente di mio zio!” rimbeccò la donna, con voce decisa.

A quel punto l'ambasciatore allargò le braccia e sospirò: “Se è questo, quello che volete sapere, mi spiace di non potervi aiutare. Quel che pensa vostro zio, solo vostro zio il Duca può saperlo.”

“Vi credete molto furbo, Orfeo, ma dovreste trattarmi da alleata, non da nemica. Dite a mio zio che facendo così, resterà davvero solo.” soffiò la Tigre, irrigidendosi e andando risoluta verso la porta, dopo aver recuperato dal tavolo la lettera di Tiberti.

“State pensando di affidarvi del tutto a Firenze, vero? Adesso che avete la cittadinanza, grazie al defunto Medici, vi credete intoccabile. Ma non avete capito quanto Firenze poco vi stimi e quanto poco sia disposta ad aiutarvi?” fece a quel punto Alessandro, quasi inseguendola fino all'uscio.

“Non abbiamo altro da dirci, per oggi. Passate una buona giornata.” lo liquidò la Sforza, rendendosi conto una volta di più di quanto fosse impossibile cercare un dialogo con Ludovico, soprattutto se per interposta persona.

Quando tornò alla rocca, ancora innervosita per lo scambio di battute acide e minacciose avuto con il milanese, Cesare Feo la raggiunse, porgendole una lettera: “Mia signora, da Francesco Fortunati, è arrivata poco fa.”

Caterina lo ringraziò e, senza aspettare di essere in camera per leggerla, l'aprì e la scorse in fretta. Il suo uomo di fiducia le annunciava che era in cammino verso Forlì, per dirle quando accaduto durante la sua permanenza a Firenze. Il modo vago in cui aveva accennato agli 'affari con messer Lorenzo' le fece capire subito che la sua speranza di avere almeno per le mani i soldi di Giovanni entro l'estate era sfumata.

Ripiegò la lettera, con gesti tanto secchi da rischiare di strapparla, e poi la infilò in tasca, assieme a quella di Achille.

“Madre...” la voce di Bianca, alle sue spalle, la colse di sorpresa: “State bene?” le domandò la figlia.

La Contessa annuì, senza dire nulla, e la ragazza, un po' intimorita dallo sguardo duro della donna, ci mise qualche secondo, prima di decidersi a parlare di nuovo.

“Sto andando adesso da Giovannino, se volete venire anche voi...” spiegò la Riario: “Prima ero da Galeazzo, che, ecco...”

“Che?” la Sforza strinse gli occhi, sentendo il tono titubante della giovane.

“Ebbene...” Bianca non voleva mettersi a ridere, perché il fratello era rimasto un po' male, per quanto accaduto, ma non trattenne un sorriso nel raccontare: “Si stava addestrando nel cortile, e ha preso un colpo al volto e gli è caduto l'ultimo dente da latte. Non ha nemmeno sanguinato, ma, ecco, si era un po' spaventato, almeno finché il cerusico non gli ha detto quello che era, e altri soldati si sono messi a ridere...”

La Leonessa, da un lato, tirò subito un sospiro di sollievo, nel sentire che suo figlio non si era fatto realmente male. Dall'altro, però, quella notizia, all'apparenza molto frivola, le aveva lasciato un retrogusto molto strano. Sentire che Galeazzo, il suo erede designato, quello per cui stava cercando di ottenere una buona condotta, avesse perso appena quel giorno l'ultimo dente deciduo le aveva messo prepotentemente davanti agli occhi la verità: era ancora un ragazzino. Era forte, solido, sia di fisico sia di mente, ma aveva ancora tredici anni.

“Allora, volete venire anche voi da Giovannino? Vi aspetto..?” riprese la Riario, smettendo di sorridere, in risposta allo sguardo corrucciato della madre.

“No, no... Ho... Ho degli affari da sbrigare.” rifiutò Caterina, che, sentendosi braccata da ogni parte e senza una base solida a cui appoggiarsi, voleva solo tenersi occupata e non pensare a nulla per un po'.

Andare dal suo figlio più piccolo, in un giorno del genere, sapeva che l'avrebbe riportata indietro a circa un anno prima, quando il tempo di partorirlo si stava avvicinando. Erano state settimane benedette, sotto molti punti di vista, e Giovanni era al suo fianco, a darle forza e coraggio.

Passandosi nervosamente due dita sopra al nodo nuziale, la donna rimarcò: “Perdonami, Bianca, devo occuparmi di molte, oggi.”

La figlia chinò il capo, per salutarla e così la Tigre fu libera di congedarsi. Non dovette pensare a lungo a cosa fare. Andò dritta filata al cantiere della cittadella. I lavori intensivi avevano fatto sì che la costruzione fosse già a buon punto, ma due braccia in più servivano sempre.

Passando di continuo accanto al Paradiso – che giaceva immobile e inutilizzato in mezzo alle pietre da costruzione e ai sacchi di sabbia, per suo espresso volere – la Contessa non rimase ferma un istante, aiutando i manovali a portare da un lato all'altro del cantiere tutti i materiali necessari, stremandosi nel fisico, per permettere alla sua mente di avere un po' di requie.

 

C'era silenzio, nella stanza di Violante Bentivoglio, eccezion fatta per il respiro pesante di Pandolfo che, come ogni volta in cui non aveva di meglio da fare, era andato da lei per adempire a quello che chiamava un suo 'santo dovere'.

Dalla nascita di Sigismondo, non appena aveva messo a tacere – usando anche aperte minacce – i medici che seguivano la moglie nel puerperio, aveva cominciato a pretendere la sua compagnia sempre più spesso, nella speranza, diceva lui, di concepire un altro figlio maschio, in modo da dare maggiore stabilità al suo Stato.

La donna lo sopportava, senza ostilità, e senza trasporto. Il Malatesta, dal canto suo, cercava di scioglierla un po' di più. Malgrado tutto, c'erano stati momenti, nel corso del loro matrimonio, in cui aveva avuto l'impressione di non dispiacere del tutto alla moglie. Poi le cose non avevano fatto altro che precipitare e riuscire a ricostruire un'intesa già labile in partenza si stava trasformando in una sfida senza precedenti.

Quando qualcuno bussò alla porta, Violante deglutì, fondamentalmente felice che qualcuno fosse arrivato a interromperli, mentre Pandolfo, restandole addosso, senza dare la minima impressione di volersi spostare per alcun motivo, chiese, con il fiato corto: “Chi diamine è? Che volete? Ho da fare!”

Il suo cancelliere, da dietro la porta, gridò di rimando: “Si tratta di notizia gravissima!”

Il signore di Rimini, che in un primo momento aveva pensato che fosse qualche grana dei veneziani, a cui aveva di recente domandato il saldo delle ultime rate – mai pagate dal Doge – della sua condotta, e un aumento della paga, sperando che la portassero a diecimila ducati, aveva continuato a dedicarsi alla moglie.

Violante, che aveva colto nel tono urgente del cancelliere qualcosa di davvero preoccupante, avrebbe tanto voluto dirgli di smetterla, di lasciarla in pace, e di andare a sentire cosa stesse succedendo, ma quando ci provò, sentì la gola tanto secca da non riuscire a spiccicare parola.

“Vi prego, mio signore! È cosa gravissima!” ripeté il cancelliere, battendo ancora alla porta.

Sbuffando, ma cominciando anche lui a preoccuparsi, il Pandolfaccio smise finalmente di muoversi e cercare il corpo della moglie. Deglutì e asciugandosi distrattamente qualche goccia di sudore dalla fronte, si staccò da lei, evitando anche di guardarla, mentre si ricopriva chiudendosi subito su se stessa come un riccio, e prese la vestaglia.

La chiuse in modo approssimativo, giusto per non mostrarsi completamente nudo al suo cancelliere e andò alla porta: “Si può sapere che accidenti volete? Non avevate capito che ero a letto con mia moglie?”

L'altro abbassò lo sguardo. Non gli era sfuggita, attraverso lo spiraglio aperto della porta, l'immagine triste di madonna Violante, stretta nelle coperte con lo sguardo vacuo, ma non poteva pensare a quel genere di cose, in quel momento.

“Devo darvi questo.” disse il cancelliere, allungando al suo signore un breve messaggio: “Si tratta di un resoconto delle nostre spie, da Roma. Sono pessime nuove e il Consiglio si sta chiedendo cosa fare. Vi avviso che sono tutti terrorizzati e aspettano una vostra parola.”

Il Malatesta lo fissò per un istante, stranito, domandandosi che mai fosse capitato per precipitare tutti in tanta angoscia e poi lo cacciò con un gesto secco della mano, commentando: “Via, via, verrò io a cercarvi, quando avrò capito che sta succedendo.”

Rientrato in camera, Violante deglutì, tirandosi le coperte fino al mento, in un tentativo molto vago e inutile di difendersi da lui. Il marito se ne accorse e dedicò anche a lei un cenno con la mano, come a dirle che non gli importava più nulla di averla lì.

Si concentrò quindi sul messaggio, il lungo naso che quasi sfiorava il foglio, mentre i lunghi capelli, neri, lisci e unti gli coprivano il viso, rendendo difficile alla moglie capire come stesse reagendo a quanto leggeva.

Ciò che le sue spie raccontavano era molto facile da comprendere. Si parlava di bolle papali, emessa una dopo l'altra da Alessandro VI, tutte volte a un unico fine: sollevare uno dopo l'altro tutti i signori della Romagna dal loro incarico di vicari pontifici. Le terre requisite, si aggiungeva, sarebbero andate al figlio del papa, Cesare Borja.

Finito di leggere, non trovando maggiori dettagli su modi e tempistiche di quell'operazione che ai suoi occhi era un sopruso in piena regola, il Pandolfaccio si passò una mano tremante tra i capelli, restando poi immobile, gli occhi scuri fissi davanti a sé e le labbra sottili appena schiuse.

“Cosa succede?” domandò la Bentivoglio che, mossa da un istinto di sopravvivenza più forte di qualsiasi altra cosa, voleva sapere quale fosse la situazione, pronta anche a consigliarlo, se fosse stato necessario per non colare a picco.

Senza aprir bocca, il Malatesta le porse il foglio, e così la donna poté leggere da sé.

Violante, alla fine, si morse il labbro e sussurrò: “Per prima cosa, devi scoprire cosa faranno gli altri signori di Romagna. Siamo tanti, e tra noi ci sono anche persone come la Tigre di Forlì. Devi scoprire cosa faranno loro, e poi decideremo di conseguenza.”

“Devo chiedere a Venezia di proteggermi.” fece l'uomo, scuotendo piano il capo: “Devo mettermi nelle loro mani una volta per tutte e...”

La Bentivoglio, sentendogli dire così, scattò in avanti, non badando alle lenzuola che scivolavano, lasciandola scoperta. Gli prese il viso tra le mani e lo guardò. Erano passati mesi, anzi, ormai anni, dall'ultima volta in cui Pandolfo aveva potuto vederla davvero.

In quei pochi istanti, gli occhi della bolognese erano tornati vivi e presenti, molto diversi dai due pozzi assenti in cui il Malatesta si specchiava quando stava con lei.

“Non devi dire nulla a Venezia. Se parlassi adesso agli uomini del Doge, stai sicuro che Barbarigo ti scaricherebbe all'istante. La guerra con Firenze sta per finire, l'hanno capito tutti: la Serenissima non si accollerà un peso morto come te, se farlo significherà avere sul collo il papa.” gli disse la moglie, parlando veloce, ma in modo molto chiaro: “Tu adesso aspetti, ti informi, scopri che diamine vogliono fare gli altri che sono nella nostra situazione e, appurato questo, quando ci verrà recapitata la bolla piombata, allora vedremo come muoverci.”

Il Pandolfaccio annuì, sentendosi di nuovo con un nocchiero capace di guidarlo fuori dalla tempesta, e, colto dall'entusiasmo, si sporse verso Violante, tentando di baciarla.

Ritirandosi in modo molto evidente, però, la donna non glielo lasciò fare: “Se vuoi che ti aiuti, giacerai con me solo quando, dove e come te lo permetterò io.”

Il Malatesta non pareva apprezzare quel compromesso, ma quando, studiatamente, la donna gli restituì il messaggio delle spie, il signore di Rimini si sentì la scure del boia pontificio già sopra la testa e così, rigido, si rimise in piedi e ribatté: “Come chiedi tu. Tanto mi era passata la voglia.” e, senza guardarla più, si rivestì in fretta e uscì dalla camera.

 

“Non c'è molto altro da dire.” sospirò Fortunati, radunando le carte, per far ordine sul tavolo della sala della Guerra.

Caterina aveva voluto incontrarlo lì per poter avere sottomano la cartina dell'Italia, in modo da poter ragionare con calma sulle eventuali novità arrivate da Firenze.

Lo sguardo calmo, imperturbabile, di quell'uomo stava seguendo i movimenti delle mani della Tigre, che, senza sosta, indagavano la mappa in ogni suo angolo, creandosi, probabilmente, degli schemi mentali per capire come muoversi da quel momento in poi.

“Ma siete sicuro che Lorenzo arriverà a tanto?” chiese la donna, deglutendo, mentre con indice e medio tornava a sfiorare il nome di Firenze.

Il piovano sospirò. Era in piedi, come la Contessa, dato che lei non aveva proposto di sedersi, e da quando era arrivato in città non aveva fatto altro che parlare. Era stanco, ormai, ma capiva l'ennesima richiesta della Sforza. Perciò, com'era nella sua indole, rispose con tono pacato, paziente.

“Io anni fa potevo dire di conoscere bene vostro cognato.” iniziò a dire: “Ma adesso vi assicuro che non è più l'uomo che era, prima che suo fratello lasciasse Firenze per venire qui.”

“Sarebbe un sì, dunque?” fece la Leonessa, iniziando a spazientirsi, in perfetta antitesi con la serafica calma del suo interlocutore.

“Mi rendo conto che sembra un passo molto azzardato, da parte sua, ma sono convinto che appena avrà in mano i documenti necessari e appena avrà trovato gli uomini giusti da usare, sì, cercherà di farsi dare Giovannino in affidamento.” annuì Francesco, incrociando le braccia sul petto: “Sarebbe l'unico modo legale e pulito che avrebbe per potersi tenere l'eredità.”

“A meno che io non pubblichi il mio matrimonio con Giovanni.” precisò la donna.

“Esatto.” convenne il piovano: “Mettendo a rischio il vostro Stato e la potestà sui vostri figli più grandi, secondo la legge imperiale.”

Caterina fece un paio di respiri molto profondi e poi commentò: “Già il papa vuole strapparmi le mie città... Ci mancherebbe solo l'Imperatore.”

“Quindi preferireste rinunciare a vostro figlio Giovannino?” domandò Fortunati, sinceramente sorpreso di sentirla parlare a quel modo.

La Tigre si passò una mano sulle labbra e poi scosse il capo: “Non potrei. Non voglio separarmi da lui, prima di tutto, e, in secondo luogo, non mi fido di Lorenzo. Per come me ne parlano, è un uomo che potrebbe anche ucciderlo il giorno dopo aver messo le mani sui soldi.”

“Soldi, palazzi, e beni di vario genere.” sottolineò il piovano: “La fortuna di vostro marito è molto ingente.”

La donna si appoggiò al tavolo della mappa e sussurrò, appena udibile: “Sempre che ne rimanga qualcosa, prima che io riesca a ottenere tutto questo...”

“Per il momento Lorenzo non ha intaccato praticamente nulla, a parte un po' di liquidi.” le riferì l'uomo, scurendosi un po' in viso: “Ma se la situazione dovesse protrarsi a lungo, senza uno scritto ufficiale che vi tuteli, immagino che troverebbe il modo di farvi trovare il piatto completamente vuoto.”

“Come suo cugini ha fatto con lui a suo tempo.” fece Caterina, la rabbia che riaffiorava, nel pensare a quando Giovanni ne parlasse ancora con rancore, benché lui e il fratello fossero riusciti, bene o male, a recuperare quanto era stato tolto loro: “Dunque è proprio vero che non si impara mai dagli errori degli altri.”

“Se è per questo, mia signora, sono convinto che non si impari nemmeno dai propri.” furono le parole abbastanza lapidarie di Francesco.

La Contessa sollevò lo sguardo verso di lui. Il suo viso, regolare e sereno, pareva quello di un uomo più maturo della sua età, ma non più vecchio. Lui e la Sforza erano pressoché coetanei, eppure quando lei gli parlava aveva sempre il sospetto che Fortunati ne sapesse un po' più di lei, in ogni campo.

“So che non approvate la presenza di Manfredi alla rocca, ma vi assicuro che è nostro alleato e che tale rimarrà, anche se il papa dovesse davvero strapparci Imola e Forlì.” disse subito la Tigre, prima che il piovano aggiungesse altro.

“La mia unica preoccupazione è che non siate del tutto oggettiva.” si schermì lui che, avendo raccolto più di una volta le confessioni della Contessa, sapeva quali fossero i suoi punti deboli: “Ma mi fido di voi e so che in un momento così delicato saprete discernere tra l'interesse dello Stato e una passione passeggera.”

La donna fece uno sbuffo, un po' a dargli ragione e un po' a farlo tacere e poi chiese: “E per i soldi che la Signoria deve a mio figlio?”

“Dicono che messer Ottaviano abbia abbandonato la campagna ormai da troppo tempo e che quindi non gli sia più dovuta alcuna condotta.” rispose Francesco, sollevando un sopracciglio: “Io, come da voi richiesto, ho spiegato che Boschetti fa le sue veci al fronte e che quindi la condotta è ancora a tutti gli effetti in essere. Hanno risposto dopo giorni, dicendomi che faranno avere il denaro dovuto appena possibile.”

“Questi dannati fiorentini... Parolieri nati, ma quando si arriva ai fatti...” borbottò la Contessa, contrariata: “Giovanni era diverso, ma era un'eccezione. Come voi.”

L'altro ringraziò tacitamente e poi, vedendo come la Tigre si stesse immergendo di nuovo nei suoi pensieri, gli occhi verdi fissi sulla mappa e le dita della mano sinistra intente a giocherellare con il nodo nuziale, memoria del suo ultimo marito, chiese: “Posso fare altro per voi o mi date il permesso di ritirarmi?”

“C'è una cosa ancora, sì.” lo fermò Caterina: “Dovete andare a parlare con Orfeo. Voi siete un uomo, vi ascolterà di più di quanto non faccia con me. Fategli intendere che il mio segretario, Baldraccani, sia troppo influente, a corte... Fategli credere che levarmelo dappresso mi renderebbe più malleabile. Fate in modo che si convinca che farlo andare a Milano sia la cosa migliore.”

“Lo volete mandare per capire meglio che intende fare vostro zio?” chiese Francesco, che voleva sempre capire il fine ultimo di quel genere di missioni.

L'altra annuì e poi sospirò: “E dite qualcosa di simile anche di Tiberti. Lui vorrei davvero togliermelo di torno, ma farlo in modo... Elegante. La sua famiglia ha ancora ottimi agganci a Cesena, e, almeno da quel lato del fronte, vorrei potermi ritenere moderatamente tranquilla.”

Il piovano annuì e ribatté: “Quando volete che lo incontri, l'ambasciatore di Milano?”

“Domani o dopo, non oggi. Facciamo in modo che non colleghi il vostro colloquio di oggi con me con la vostra richiesta di udienza.” rispose la Sforza.

Fortunati si disse concorde e poi, prima di lasciarla sola ai suoi pensieri, soggiunse: “Venendo a Forlì sono passato accanto a Castrocaro. Mi hanno detto che il campo è nelle mani di Giovanni da Casale. Devo aspettarmi di trovarlo qui alla rocca, uno di questi giorni o..?”

“No. No, non credo che lo incontrerete.” disse, secca, la donna.

Il piovano la osservò qualche istante e poi, sommesso, rispose: “Capisco. Avrò il piacere di incontrare solo messer Manfredi, quindi.”

“Precisamente.” fece lei e poi, indicandogli la porta con il capo, cercando di non risultare troppo brusca, lo salutò: “Vi aspetto per la cena. Ora vi prego di lasciarmi sola, ho delle cose su cui ragionare.”

 

 
 
   
 
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