Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    09/12/2018    5 recensioni
[Epilogo di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[LietPol Human!AU; Past!RusLiet; Fake!BelaLiet]
---
La fuga da Londra è l’occasione che serve a Toris per tornare a inseguire la felicità che ha tanto desiderato assieme all’unica persona che abbia mai amato veramente, lontano dall’ombra di Ivan e dalla vita di strada che lo ha devastato durante gli anni trascorsi in Inghilterra. Ma i Siberian Cubs potrebbero aver influenzato in maniera permanente il suo destino, sottraendolo per sempre alla possibilità di vivere lontano dal passato che lo ha quasi ucciso e da quei traumi che ancora continuano a perseguitarlo.
---
Estratto da “Chinese Cub”:
«Quello che c’è fra me e lui non ha niente a che vedere con quello che c’è fra me e te. Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.»
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Estonia/Eduard von Bock, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Ucraina
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

4. Caro Toris – Primavera

 

 

21 gennaio 1990

 

Caro Toris,

ho letto la tua lettera con le lacrime agli occhi, le stesse lacrime che ho versato quando ho visto Natalia tornare a casa sana, salva e cresciuta, dopo tutti questi anni. Ovviamente le ho subito riferito il contenuto della tua lettera (nonostante me l’abbia consegnata lei stessa, non l’aveva aperta, come le avevi chiesto tu), e posso dirti che sono io a dover ringraziare te per esserti preso cura di lei e per esserle stato affianco durante questi lunghi anni di lontananza che non sembravano avere fine. L’hai ricondotta fra le mie braccia per ben due volte, e non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quello che hai fatto per la nostra famiglia che è di nuovo tornata calda e sicura come lo era un tempo. E non importa come la prenderai: io continuerò a considerarti il mio caro e amato cognato per tutta la vita! Ormai siamo tutti una famiglia e tale dobbiamo rimanere, anche se saremo distanti.

Come potrai vedere tu stesso, ho inserito nella busta della lettera anche il nostro nuovo indirizzo. Non ci siamo ancora trasferite, ma lo faremo entro pochi mesi. Anche dopo l’incidente di Chernobyl, non mi sono mossa da casa nostra, perché non ci sono stati pericoli di contaminazione in questa zona del Paese, questo almeno è quello che ci hanno assicurato. In ogni caso, non me ne sarei andata lo stesso, anche se mi avessero costretta, anche se si fosse rivelato pericoloso rimanere. Dovevo restare qua per offrire a Natalia una casa in cui tornare. Durante questi anni mi sono sentita come una fiaccola sempre accesa per indicare la via a chi vuole fare ritorno, e abbandonare il nostro paese avrebbe significato abbandonare mia sorella. Non avrei mai potuto fare una cosa simile. Ora che Natalia è tornata, però, ho deciso che è tempo per entrambe di cambiare vita, così andremo a vivere lontane dalla campagna, in una cittadina un po’ più grande dove lei potrà di nuovo sentirsi libera e indipendente, senza le dure restrizioni della nostra società siberiana, e io potrò comunque starle accanto godendomi in tranquillità gli anni della mia vecchiaia. Potrà non sembrare, ma l’età si fa sentire anche per me, e la vita di campagna si stava facendo decisamente troppo pesante e solitaria da sopportare. Cambiare aria farà sicuramente bene a entrambe, e non vedo l’ora di scoprire cosa il futuro avrà in serbo per noi.

Devo però darti una brutta notizia. Nemmeno io so dove possa trovarsi Feliks. Ha lasciato la Siberia il giorno dopo la vostra partenza, come Eduard e Raivis, senza però dirci quale sarebbe stata la sua destinazione, e da allora non ho più avuto sue notizie. Mi auguro con tutto il cuore che Eduard possa essere in grado di aiutarti (porgi i miei saluti anche a lui, nel caso dovessi rincontrarlo presto o dovessi scrivergli prima di me), e che anche tu sia in grado di trovare quella vita felice che tanto meriti dopo tutti questi anni di cordoglio.

Spero di rivedere presto tutti quanti voi, e di poter tornare a trascorrere mille altri giorni assieme come una vera famiglia. Mi siete diventati tutti molto cari.

Sii felice e vivi sereno, mi raccomando.

 

 

Con tutto il mio amore,

 

tua Katyusha

 

* * *

 

4 febbraio 1990

 

Caro Toris,

che bello poterti di nuovo sentire dopo tutti questi anni! Lo scorso novembre ho assistito in televisione alla caduta del Muro, e ho subito pensato sia a te che a Natalia. Hai ragione, ora i tempi stanno davvero cambiando, si prospetta un periodo ricco di rivoluzioni per tutti noi e, cosa più importante, io sono di nuovo un uomo libero! Quando ho saputo degli assalti agli uffici della Stasi ho fatto i salti di gioia, per davvero, come se mi fossi liberato di un enorme peso, delle ultime catene che mi tenevano legato alla mia vecchia vita e ai dolori del mio passato. Per il resto, per me gli anni passati qua in Finlandia sono stati ricchi di esperienze, mi hanno guidato nella costruzione di una vita nuova e onesta, hanno saputo mostrarmi come inseguire uno scopo più nobile a cui dedicare il mio lavoro. Mi hanno dato l’occasione di espiare tutti gli errori che ho compiuto quando ho vissuto a Londra, e non mi pentirò mai di aver compiuto questa scelta, anche se non si è sempre rivelata facile da portare avanti.

Sono felice di sapere che sia tu che Natalia state bene e che avete trascorso un periodo a Berlino senza troppe difficoltà. Siete stati entrambi molto coraggiosi a intraprendere quella scelta, molto più di me, perché so quanto deve essere stata dura vivere in Germania Est. Sono stato molto in pena durante tutti questi anni, chiedendomi se separarci fosse stata la scelta più giusta, e sapere che ora anche tu potrai iniziare a godere di una vita serena mi riempie di gioia. Teniamoci in stretto contatto, perché probabilmente ora io viaggerò attraverso tutta l’Europa e sarà difficile trovarmi in un luogo fisso. Pensavo innanzitutto di tornare a trovare la mia famiglia in Estonia (chissà se mi riconosceranno e se si ricorderanno ancora di me?), poi di fare un salto in Siberia per ringraziare Katyusha di persona (le dobbiamo tutti molto) e, una volta fatto tutto questo, probabilmente mi trasferirò o a Mosca o a Leningrado o forse addirittura negli Stati Uniti. Vivendo qua in Finlandia ho avuto modo di studiare molto e di lavorare nella ricerca delle nuove tecnologie. Mi sono state offerte molte opportunità e voglio davvero sfruttare l’occasione di utilizzare le mie capacità a fin di bene, nella costruzione di una società migliore e a servizio di gente onesta, per rifarmi in questo modo di tutto quello di cui mi sono macchiato quando lavoravo per Ivan.

E ora preparati perché ho delle ottime notizie da darti: so dove si trova Feliks! L’indirizzo lo potrai trovare assieme a questa lettera e, come puoi ben vedere, è tornato a vivere in Polonia, a Varsavia. Ora lavora in un piccolo albergo di famiglia che ha un discreto successo, per questo è stato così facile rintracciarlo. È lì dal Settantasei.

Non avere paura di rincontrarlo. Sono sicuro che anche lui non ha mai smesso di amarti, e che è ansioso quanto te all’idea di tornare assieme, ora che non c’è più nulla che possa ostacolare il vostro legame. Cerca di essere felice da ora in avanti, e di goderti la vita serena per cui hai tanto sofferto e lottato. Incontriamoci di nuovo, facciamo vedere che i Siberian Cubs sono cresciuti e che non sono più prigionieri di alcuna catena!

Anche io ho molte cose da raccontarti, cose che devono essere dette, e spero che in questi anni avremo occasione di poter rincontrarci come semplici vecchi amici.

Salutami tanto Feliks, quando lo incontrerai, e dagli un forte abbraccio anche da parte mia e di Raivis.

 

 

Tuo amico per sempre,

 

Eduard

 

* * *

 

aprile 1990

 

Ripiego la lettera di Eduard e liscio le piccole pieghe che si sono stropicciate sugli orli già consumati per tutte le volte in cui l’ho aperta e riletta senza sosta, provando sempre lo stesso tepore al petto, lo stesso battito di gioia che ha saputo riaccendere in me quella luce di speranza che ho tanto inseguito durante gli anni più bui. Rinfilo la pagina nella busta tappezzata da timbri e francobolli, dove è conservato anche il foglietto con il nuovo indirizzo di Feliks, e sistemo la lettera assieme a quella di Katyusha, scritta in cirillico, dentro la borsa da viaggio che riposa sulle mie gambe.

Rilasso la schiena contro il sedile del treno, stiracchio le gambe urtando i posti vuoti davanti a me, e abbandono una spalla contro la superficie del finestrino che irradia l’ambiente. Sospiro. Scosto una ciocca dal viso, pettinandola dietro l’orecchio, e mi lascio cullare dal rimbalzare ritmico del treno che corre attraverso gli ultimi scorci di campagna prima dell’arrivo in città.

La cristallina luce del sole splende sulla distesa verde smeraldo tagliata dal passaggio dei binari. Fitti alberi che crescono come tante piccole chiazze di bosco si stagliano contro il cielo di azzurro terso, diviso anch’esso dal passaggio dei cavi della corrente. I tetti delle abitazioni sempre più numerose sbucano all’orizzonte, accanto a edifici più alti – palazzoni prefabbricati di cemento, come quelli di Berlino Est – e ad alcuni cartelloni pubblicitari che preannunciano l’entrata nella periferia.

Il paesaggio scorre ancora, rapido come una pellicola. Il treno supera altri alberi, l’ombra gettata da un angolo di foresta, e sfreccia oltre un cartello a lettere cubitali affacciato ai binari.

 

Warszawa

 

Quella scritta mi punge come una scossetta e provoca un guizzo al cuore, un sussulto che mi fa rimbalzare sul sedile.

Fra poco entreremo in città e ci fermeremo alla stazione di Varsavia. Siamo al capolinea.

Strizzo i pugni sulle gambe, graffiando i pantaloni, inspiro a fondo per rallentare il battito che pulsa dritto nelle orecchie, ma un nodo di tensione blocca l’aria in gola. Brividi d’ansia mi scuotono, la paura attorciglia lo stomaco e spande una sensazione fredda e sgradevole attraverso la pancia e le guance, nonostante il tepore dei raggi solari a scaldarmi il viso. Varsavia ormai è vicina. Ancora pochi minuti e la mia vita potrebbe cambiare per l’ennesima volta.

Dei passi superano il mio scompartimento. Alcuni passeggeri che si sono già alzati attraversano il corridoio, si abbottonano le giacche, sfilano le borse dal portabagagli sopra le loro teste e trascinano le valigie dirigendosi alle uscite del vagone. Due bambini corrono davanti ai loro genitori e spariscono oltre i sedili. Un uomo si gira, raccoglie la valigia dalla mano di sua moglie e le parla in polacco, si sposta per farla passare e le sostiene la schiena mentre lei gli cammina davanti urtando i braccioli delle poltroncine.

Io resto seduto, preferisco aspettare che il treno arrivi in stazione prima di alzarmi. Ho paura che le gambe tremanti non riescano a reggermi abbastanza a lungo.

Abbasso le palpebre, massaggio la fronte dolorante dopo l’intera notte insonne passata a rigirarmi nel letto e dopo le undici ore di viaggio senza sosta da Berlino, e stringo la borsa al petto, aggrappandomi all’unico peso che mi dà l’impressione di sostenermi e di impedirmi di cadere nello spazio vuoto spalancato sotto i miei piedi.

Dopo la prima lettera che ho inviato a Feliks, quella in cui ho scritto riguardo gli anni in Germania e i miei sentimenti nei confronti di Ivan, e in cui confessavo di voler riallacciare i legami con lui, gliene ho spedita un’altra dove lo avvertivo che sarei giunto a Varsavia oggi, apposta per incontrarlo. Non ho ricevuto alcuna risposta, a nessuna delle due lettere, ma ho deciso lo stesso di mettermi in viaggio, anche a costo di non trovare nessuno in stazione ad aspettarmi, anche a costo di andare di persona all’indirizzo che mi ha spedito Eduard e di presentarmi davanti a Feliks, anche se lui decidesse di chiudermi la porta in faccia, anche se mi gridasse di non volermi mai più rivedere e che ormai fra di noi è finita, che era finita fin da quando ho deciso di separarmi da lui dopo la partenza dalla Siberia, che ormai la nostra storia assieme è stata un’occasione sprecata. Nonostante la paura che sia troppo tardi, fissa come un chiodo nel cuore, ho deciso che devo correre questo rischio, che voglio correre questo rischio, e che non lascerò che questi anni di solitudine siano stati vani. Ieri ho fatto i bagagli, ho chiuso la casa a Berlino per non tornarci mai più, e sono partito senza nemmeno sapere se Varsavia sarebbe stata la mia destinazione finale, senza sapere cosa mi succederà se Feliks decidesse di allontanarmi definitivamente dalla sua vita. È stata l’azione più impulsiva e coraggiosa di tutta la mia vita, e ho deciso che la porterò fino in fondo. Questa volta non mi lascerò sfuggire la felicità dalle mani. La inseguirò fino alla fine e stringerò la presa per non farla scappare mai più.

Sfilo la mano dalla borsa stretta al petto e raggiungo il tatuaggio sul lato sinistro del collo. Strofino la pelle sotto il bavero della giacca, gratto via la sensazione di prurito e disagio che si è riaccesa come una brace, e respiro a fondo per placare i brividi di agitazione che mi scuotono le braccia e le ginocchia.

La corsa del treno rallenta, altri fasci di binari si aggiungono alla rotaia su cui stiamo viaggiando noi, i cavi della tensione s’infittiscono, e una lunga piattaforma di cemento sostituisce il paesaggio verdeggiante che confina con la periferia di Varsavia. Il treno stride, un piccolo sobbalzo lo fa rallentare ancora, e le prime persone compaiono sulla piattaforma, affianco alle colonne portanti e a un altro cartello che ripete la scritta “Warszawa”, la nostra destinazione.

Sono arrivato.

 

.

 

Compio l’ultimo passo lungo i gradini che scendono dal vagone e balzo sulla piattaforma della stazione. Stringo la presa sulla maniglia della valigia rimbalzata contro la gamba e finisco urtato dalle persone che stanno scendendo dietro di me. Mi metto in disparte, all’ombra di una delle colonne che salgono per sostenere le tettoie, rimbocco il colletto della giacca contro il tatuaggio, in un gesto inconscio, e lascio che tutti mi camminino affianco strusciando le spalle sulle mie e riversandosi sulla superficie di cemento dove attende altra gente o in piedi o seduta sulle panchine.

Una ragazza con i capelli rossi salta giù dai gradini del vagone, molla il suo bagaglio, e corre con un sorriso verso un ragazzo che la sta aspettando. Lui spalanca le braccia, la accoglie stringendola a sé, e le fa compiere una mezza piroetta. Ridono entrambi, le loro voci si mescolano a quelle della folla, e il fiume di persone inghiotte i loro profili. Un altro passeggero appena sceso solleva un braccio e richiama l’attenzione di un signore con i baffi che gli risponde con un cenno del capo. Una coppia di anziani si lascia abbracciare da un bambino corso in mezzo alle gambe di tutti quegli sconosciuti solo per accoglierli; la vecchia signora si inginocchia e raccoglie il piccolo fra le braccia, stampandogli una serie di baci sulle guance. Un altro uomo si infila il capello in testa e sventola anche lui un saluto sopra le persone che lo circondano. Lo raggiunge una donna che gli getta le braccia al collo e che si tira sulle punte dei piedi per baciarlo sulle labbra.

La folla si addensa, il vociare si mescola allo schiocco dei passi sul cemento e allo stridere degli altri treni giunti in stazione. Altre persone scendono dai vagoni, si uniscono alla gente in attesa sulla piattaforma fino a che non riesco più a riconoscere quelli che arrivano e quelli che aspettano.

Rimango immobile, lontano dagli altri, lontano dalle voci e lontano dai loro passi che rischiano di trascinarmi via come una corrente. Chiudo gli occhi, mi isolo dalla confusione della stazione ferroviaria, e inspiro il profumo di Varsavia, l’odore acre e ferroso della stazione, simile quello della cenere di sigaretta, ma anche quello più dolce del vento primaverile che attraversa gli alberi e che soffia sulle guance, intiepidendole assieme ai raggi del sole. Mi riempio del profumo della terra di Feliks, di quell’aroma dolce e speziato in cui amavo immergermi quando accostavo il viso alla sua nuca, abbandonandomi alla morbidezza dei suoi capelli e lasciandomi trascinare in un altro mondo dove avrei anche potuto morire felice. È la prima volta dopo anni che sento realmente profumo di casa. Un profumo che gonfia il cuore di speranza e nostalgia, e che mi fa fluttuare sopra la folla, teso verso il cielo simile a una distesa di lucido smalto azzurro.

Riapro gli occhi, trascinato dalla speranza che ha lo stesso profumo dei fiori appena sbocciati, la stessa dolcezza di questo vento che mi sfiora le labbra, e lo stesso calore del sole che splende sulla stazione.

La folla è ancora attorno a me. Altre persone si abbracciano, le ultime rimaste sui vagoni scendono dai gradini, un altro signore anziano col bastone si fa aiutare a poggiare i piedi sulla banchina, altre si prendono per mano e attraversano la piattaforma per raggiungere l’uscita reggendo il peso dei bagagli.

Mi giro. Altra folla. Un mare di facce sconosciute. Compio un paio di passi in avanti, salgo sulle punte dei piedi evitando la spalla di un uomo che mi passa affianco, porto una mano davanti alla fronte e aguzzo lo sguardo in cerca di una presenza familiare, di un viso che riconosco, oltre tutti queste facce estranee. Resto in questa posizione fino a che non mi fanno male le caviglie, fino a che le punte dei piedi non bruciano e traballano, fino a che le gambe tese non riescono più a reggere il mio peso. Mi abbandono, torno con i talloni a terra e mi lascio schiacciare dal peso dello sconforto precipitato sulle spalle. Non c’è nessuno ad aspettarmi. Nessuno che mi correrà incontro sventolando un saluto sopra la testa, nessuno che mi accoglierà con un sorriso, nessuno che spalancherà le braccia per stringermi a sé.

Stringo la mano sul bagaglio, rilasso le dita, e sospiro. Abbandono il capo fra le spalle, restando chino nel mio triste e scuro angolino d’ombra, e lascio che le persone mi fluiscano affianco, superandomi come se fossi invisibile.

Alla fine è andata così. Feliks mi ha davvero abbandonato, ha sul serio deciso di non darmi più alcuna possibilità. La nostra storia è davvero finita. L’ho perso per sempre.

Qualcosa mi tocca la spalla, picchietta due volte. «Ehi, Siberian Cub.»

Quella voce mi pizzica l’udito, brucia attraverso le orecchie. Un rovente tuffo al cuore fa schioccare una scossa attraverso la schiena, ghiacciandomi come una statua e stringendo un anello di vertigini attorno alla testa. È la stessa sensazione stroncante che ho provato anni fa nel sentire la voce di Gilbert al bar di Berlino Est, quel tuffo nel passato che mi ha catapultato fra le strade di Londra. Ma questa volta è diverso. È una sensazione che mi fa implorare di non aver sentito male.

Mi giro.

I raggi del sole coronano il profilo di Feliks, splendono sui suoi capelli biondi, illuminano quei furbi e verdi occhi felini che bucano l’anima come un tempo, e tingono le guance sfiorate dal piccolo sorriso che gli tiene incurvate le labbra. Lui ritira il braccio che ha teso per toccarmi la spalla e giunge le mani dietro la schiena, flette il capo di lato e tiene il fianco leggermente flesso in quella posa che tante volte gli ho visto assumere anche quando era giovane. Sopra gli abiti indossa un semplice cappotto primaverile che gli arriva alle ginocchia. Non ha più la minigonna, o gli stivaletti, o la giacca di pelle. È diverso ma è sempre lui. Un Feliks più adulto ma sempre con quel fine viso da ragazzina, con quel sorriso dolce come il suo profumo che non ho mai dimenticato e che ora mi travolge in una soffocante ondata di malinconia.

Tremo. I brividi discendono le braccia, le dita schiacciano la maniglia della valigia fino a che le falangi non perdono sensibilità. Lascio cadere il bagaglio ai miei piedi e la valigia emette un tonfo secco, lo stesso del mio cuore che picchia un ultimo battito soffocante. Mi porto le mani alla bocca e trattengo un sospiro che attraversa il petto in una sfrecciata di gioia, paura e confusione.

Non è possibile...

Feliks socchiude le palpebre, solleva un sopracciglio, e flette il sorriso in un piccolo broncio da finto offeso. «Be’, non mi riconosci?» Il vento gli soffia attraverso, scuote i lembi del cappotto attorno alle gambe, sparge il suo forte profumo di fiori e vaniglia, e agita le punte dei capelli biondi, scoprendo il tatuaggio dei Siberian Cubs sul lato sinistro del collo. Feliks raccoglie una ciocca, la arriccia fra le dita e sfrega con l’unghia che non è più smaltata di rosa. Giochicchia con i capelli e china lo sguardo, mostrando la stessa timidezza di quando era ragazzo. «Non sarò mica invecchiato così tanto, no? Guarda che mi offendo.»

Le prime brucianti lacrime sgorgano prima ancora che io riesca a rendermi conto di aver cominciato a piangere, scendono a bagnarmi le guance, e scivolano attraverso le mani premute sulla bocca. Mi copro la faccia, nascondo i primi singhiozzi che mi scuotono e che vibrano fra le labbra, e dentro di me sorge il terrore soffocante di sollevare i palmi, di riaprire gli occhi, e di scoprire che me lo sto immaginando, che Feliks non è qui davanti a me, che la sua immagine è solo l’ennesimo fantasma, l’ennesima illusione.

Strofino le lacrime che continuano comunque a scorrere, riapro le palpebre gonfie e brucianti, e mi affaccio alla luce che splende sulla piattaforma della stazione. Feliks è ancora davanti a me. Le punte delle dita strette alla ciocca di capelli che rigira fra le unghie, il suo sguardo che mi sfiora, le sue labbra che mi sorridono, il profilo snello e sottile – solo un po’ più alto – incorniciato da una corona di luce bianca e fresca come questa primavera che ci circonda.

Vorrei piangere ancora, vorrei ridere dalla disperazione, cadere ai suoi piedi in mezzo a tutta questa gente, anche a costo di farmi calpestare. Continuo a singhiozzare e a bagnare le mani di lacrime, a svuotarmi di tutta quella sofferenza di cui posso finalmente liberarmi.

Feliks stringe la mano sull’anca, flette il capo sull’altra spalla, e si sforza per nascondere il sorriso di gioia dietro il piccolo broncio. «Non mi saluti nemmeno?»

Singhiozzo ancora. Trattengo una risata insorta dal cuore gonfio di gioia, svuotato di tutta l’ansia che mi ha stritolato durante tutto il viaggio. «S-scusa.» Altro singhiozzo. «Sono...» Sorrido. Lascio che la luce del sole sciolga tutto il dolore che ho deciso di lasciarmi alle spalle. «Sono a casa.» E questa parola ha un sapore buonissimo. Casa. Feliks.

Anche Feliks sorride. Mi riaccoglie nella sua vita. «Bentornato.»

Strofino via le ultime lacrime dal viso e spalanco le braccia, mi getto io a raccoglierlo e a stringerlo di nuovo nella mia vita. Feliks salta e si aggrappa a me, strizza le dita sulla mia giacca e tuffa il viso contro la mia spalla, sfiorandomi il viso con i capelli. Il suo respiro mi tocca, morbido come una carezza. Ci abbracciamo come succedeva sempre a Londra, quando lui attraversava la strada lasciando sventolare la gonna e facendo tintinnare i bracciali, e si tuffava fra le mie braccia segnate dai lividi e coperte dalle maniche della giacca di pelle nera.

Allentiamo la presa soffocante. Ricomincio a respirare, risucchio le ultime lacrime, sbatto le ciglia per dissolvere la patina appannata dal pianto, e incontro gli occhi verdi di Feliks, così vicini da risucchiarmi nel suo sguardo. Gli scosto una ciocca di capelli dal viso. Il mio tocco percorre il profilo morbido e tondo della sua guancia tiepida, raggiunge il collo, si sofferma sul tatuaggio. Anche Feliks posa la mano sul mio viso, mi carezza con quelle dita sottili e calde che si sono strette alle mie tante volte, che scorrevano fra i miei capelli, che stropicciavano le maniche della giacca quando era nervoso, e che mi asciugavano le lacrime dal viso. Solleva il pollice per strofinare via un’ultima lacrima perlacea rotolata sul mio zigomo. Ripete quel gesto che ha compiuto tante volte a Londra, perché fra di noi è sempre stato lui quello forte, quello che mi asciugava le lacrime quando non c’era nessun altro a farlo, quando nemmeno io ne ero in grado.

Il vento di primavera ci circonda, scuote gli alberi piantati oltre il confine della stazione, spinge via una nuvoletta dal sole, e lascia che i suoi raggi ci abbaglino. Un vortice di petali turbina attorno a noi, agita i capelli, e ci risucchia nel suo dolce profumo di rinascita.

Mi tengo stretto a Feliks, intreccio la mano ai suoi capelli, sostengo la nuca, e chino la fronte a occhi chiusi. Lo bacio assaporando il sapore delle lacrime che scivolano fra le nostre labbra, ma la bocca di Feliks è dolce come un tempo. Serba il sapore della mia nuova vita, del nostro futuro assieme. Un futuro che sarà sempre luminoso come questa primavera sbocciata solo per noi e che non sfiorirà mai.

Con un bacio ricomincio la mia vita; con un bacio termina la storia dei Siberian Cubs.

 

 

 

 

 

 

– Fine –

 


N.d.A.

Signori, è stato un viaggio ben più lungo di quello che mi aspettavo.

Siberian Cub era nata come una piccola storiella senza pretese di circa dodici capitoli, e invece poi si è trasformata in un bel malloppo di ventiquattro capitoli più tre spin-off che compongono dieci capitoli complessivi per un totale di trentaquattro capitoli, quasi il triplo rispetto a quelli che mi ero prefissata. E quando mai io riesco a rispettare i limiti che mi auto impongo, nevvero? Quest’anno a Babbo Natale mi sa tanto che chiederò il dono della sintesi. Ma lui scenderà dalla slitta, si accomoderà sul divano, mi farà sedere sulle sue ginocchia, e carezzandomi la testolina mi dirà: “No, Frame, niente dono della sintesi, ché col Miele sei solo al Quarantuno e c’hai ancora cinquecentoottantasei capitoli da scrivere. Tieni: eccoti invece dei cerotti alla caffeina per aiutarti a rimanere sveglia anche quando cominceranno a sanguinarti gli occhi e il cervello ti sbrodolerà dalle orecchie”.

Grazie, Babbo Natale. Grazie.

In ogni caso, la saga dei London Cubs era un progetto a cui tenevo davvero molto, quindi vederla realizzata nella sua interezza è sicuramente un gran bella soddisfazione. ^-^

Ringrazio calorosamente tutti i cari lettori che hanno seguito queste quattro storie, quelli che sono arrivati fino in fondo e che stanno leggendo queste ultime parole, i lettori silenziosi, e in particolar modo quelli che hanno commentato e condiviso le loro opinioni con me. Il vostro sostegno è stato preziosissimo. Miele escluso, questo è stato il mio progetto più longevo, e se sono riuscita a portarlo a termine è stato soprattutto grazie a voi e alle vostre belle parole d’incoraggiamento che mi hanno sempre dimostrato che valeva la pena andare avanti fino in fondo, anche quando fatica e demoralizzazione si facevano sentire.

Grazie infinite a tutti!

Ora scusatemi, ma ho una Seconda Guerra Mondiale da portare avanti... *abbottona l’uniforme, indossa lo zaino, si infila l’elmetto, imbraccia il Carcano 91, ed esce di scena*.

Il Miele torna settimanale! *\(>.<)/* Dopo le vacanze, ovvio...

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_