Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    09/12/2018    2 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"«Ben, ti prego...» riprovò Semir, con un filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi preoccupare. Ti fidi di me, socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un po’, Semir, non ti preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi di corsa dalla stanza, fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere."

Dolore



GIORNO 29.

Come ormai ogni mattina, Ben arrivò in ospedale trafelato.
Margaret gli aveva detto che sarebbe andata con lui, ma l’ispettore non aveva voluto aspettare e si era precipitato fuori di casa, mentre la ragazza gli gridava alle spalle che lo avrebbe raggiunto il prima possibile.
Quando imboccò il corridoio deserto, vide la figura di Schneider allontanarsi a passo svelto nella direzione opposta e accelerò per fermarlo.
«Ben, santo Cielo, mi hai spaventato!» esclamò il medico, voltandosi, non appena l’altro lo ebbe raggiunto.
«Scusa.» fece Ben, ansimando per riprendersi dalla corsa che aveva fatto, senza nemmeno avere un motivo per cui correre.
«Sei arrivato di corsa? Va tutto bene?».
«Sì, volevo solo sapere se ci sono novità.».
Chris sorrise. Quel ragazzo gli faceva tenerezza. Da quando era accaduto ciò che era accaduto, non era trascorso un solo giorno senza che lui passasse dall’ospedale a chiedere come stesse l’amico o per andarlo a trovare. Pensò che il suo paziente fosse decisamente fortunato ad avere un amico come lui.
«In realtà sì, il tuo amico sta molto meglio. Reagisce più prontamente agli stimoli, parla senza troppa fatica. Ha dolore ovunque, è normale, ma per il resto non mi sarei mai aspettato una ripresa così rapida.».
Ben sospirò e finalmente un sorriso si dipinse anche sul suo viso.
«Allora ogni tanto qualcosa funziona.» commentò, ringraziando il medico con lo sguardo.
«Ora nella stanza ci sono la bambina e la nonna.» lo informò Schneider e gli occhi del poliziotto si illuminarono.
«Davvero? Ma è meraviglioso! Sono così contento che Aida finalmente veda suo papà... e farà bene anche a lui, sicuramente.».
Seguì un attimo di silenzio, poi Ben si rabbuiò di nuovo e il dottore se ne accorse immediatamente.
«Che cosa c’è, Ben?» domandò, in apprensione.
«Chris, io oggi dovrò spiegare a Semir come stanno le cose, non credo che accetterà ancora il mio silenzio.».
Il medico annuì «Fallo, Ben. Capisco che tu non possa tenerlo all’oscuro di quello che è successo. Solo, assicurati prima che lo possa sopportare. Se vedi che va in tachicardia o manifesta qualsiasi anomalia fisica, per favore, fermati e chiamami. Va bene?».
«Sì... sì, Chris, grazie. A dopo.» lo salutò Ben.
Schneider gli sorrise e si allontanò, dirigendosi verso la sala operatoria.

Quando la porta si era aperta e Aida aveva fatto il suo ingresso sorridente nella stanza, a Semir era sembrato che l’atmosfera grigia dell’ospedale diventasse immediatamente luminosa e serena.
Aida, la sua bambina. Era davanti a lui e stava bene.
«Papà!» esclamò lei, catapultandosi verso il letto del padre a braccia aperte.
Poi, però, vedendo tutti i macchinari che lo circondavano, si fermò improvvisamente.
«Papà, ma se ti abbraccio ti faccio male?».
Semir sorrise.
«Cucciolo... vieni qui...».
Aida si avvicinò piano, sporgendosi appena oltre il bordo del letto per dare almeno un bacio sulla guancia al papà.
Lui avrebbe voluto abbracciarla, prenderla e stringerla forte, ma non poté fare nulla di tutto ciò. Era disteso, riusciva a muovere giusto la testa e le mani, anche se ogni movimento era un dolore continuo.
«Come stai, cucciolo?» mormorò, con voce bassissima.
«Io bene papi, ma tu? Hai dormito così tanto... ora come stai?».
«Bene... meglio, non ti preoccupare...».
Solo in quel momento Semir si accorse che nella stanza c’era qualcun altro.
Helen, la mamma di Andrea. Doveva aver accompagnato la nipotina e ora assisteva alla scena un po’ in disparte, addossata al muro, senza parlare.
Sembrava invecchiata di dieci anni.
E mentre Aida gli parlava, imperterrita, di che cosa aveva fatto aspettando che lui si svegliasse, l’ispettore non poté fare a meno di continuare a fissare quegli occhi tristi, che lo guardavano senza sapere che cosa dire. Quegli occhi chiari e sbiaditi manifestavano dolore, troppo dolore. E il sorriso debole che la signora aveva dipinto sul viso era finto, terribilmente tirato, come se ormai da giorni lei si fosse abituata a mostrarlo pur senza avere niente per cui sorridere.
«Papi... papà, ma mi stai ascoltando?».
La voce squillante di Aida lo riscosse dai suoi pensieri e Semir tornò a guardare la figlia, distogliendo lo sguardo dalla suocera, che ancora non aveva proferito parola.
«Sì... Sì, Aida, ti ascolto.».
La bambina mostrò una smorfia indecisa. Il taglio sulla sua fronte era ormai guarito, ma ancora era coperto da un cerotto colorato.
Semir non sapeva come avesse fatto a non farsi del male con il crollo di quell’edificio, ma vederla sorridere e chiacchierare a macchinetta lo aveva decisamente sollevato.
Però era sola. Si trattenne a fatica dal chiederle dove fosse sua sorella. Ma doveva sapere...
«Aida, ora dovremmo lasciar riposare il tuo papà, sai?» intervenne Helen, parlando per la prima volta da quando era entrata nella stanza.
La bambina sbuffò.
«Però posso andare a salutare la mamma?».
Semir perse un battito. Aveva visto Kate sparare ad Andrea. Aveva visto quel lago di sangue. Era stato convinto che sua moglie fosse morta. E adesso...
«A... Andrea sta... sta...» balbettò, con gli occhi spalancati.
In risposta, da parte della suocera, ottenne soltanto un profondo sospiro e un cenno impercettibile del capo, che lo mandarono ancora più in confusione.
«Helen... per favore...» mormorò Semir, guardandola negli occhi, sperando che almeno lei gli spiegasse qualcosa.
Ma l’anziana signora scosse solo il capo e non rispose.
«Riposati, Semir.» disse poi, piano, uscendo dalla stanza.
La bambina lo salutò con un sorriso, poi seguì la nonna oltre la soglia della camera.

Ben entrò cautamente, quasi temesse di disturbare l’amico che, invece, era perfettamente vigile e lo stava aspettando.
«Ehi socio.» esordì, occupando la sedia accanto al letto su cui l’altro era disteso «Come stai oggi?».
«Meglio...».
«Hai visto Aida? Era contentissima di poterti venire a trovare, finalmente.» continuò il più giovane.
Ma Semir non lo ascoltava, seguiva il filo dei propri pensieri, senza occuparsi di che cosa l’amico stesse dicendo.
«Ben... Andrea... io pensavo fosse... fosse morta...».
Ben sospirò. Aveva sperato per un attimo di poter evitare quel discorso, di poterlo rimandare ancora almeno per un giorno, ma in cuor suo sapeva bene che il collega avrebbe voluto subito sapere tutto.
«Semir... tu hai subìto tanti interventi e l’ultima volta che ti sei svegliato e abbiamo parlato poi ti sei sentito male... hai rischiato di non risvegliarti più.».
«Ben, ti prego... io devo... devo sapere...».
Il ragazzo sospirò ancora.
«Semir, io...».
«Per favore.» lo interruppe Semir «Per favore, voglio... voglio sapere tutto. Tutto. Posso sopportarlo... davvero… sono pronto.».
Ben tacque per un istante lunghissimo.
Pronunciare quelle parole avrebbe fatto male a lui, nemmeno poteva immaginare quindi che cosa avrebbe provato l’amico ascoltandole.
Eppure, doveva dirglielo. Doveva dirgli tutto, per quanto fosse orribile, per quanto facesse male... lui aveva il diritto di sapere ogni cosa.
Prese un bel respiro, ben conscio del fatto che non esistessero le parole giuste.
Poi parlò, e sperò che quella conversazione finisse in fretta, perché l’avrebbe certamente detestata.
«Semir... allora, Andrea non è morta, ma è arrivata in ospedale che aveva perso davvero molto sangue ed era gravemente debilitata. È stata operata, ma poi non si è più svegliata.».
Semir annuì, sforzandosi con tutto se stesso di mantenere la calma «Quanto... quanto tempo è passato?».
«Tredici giorni... è in coma da tredici giorni.» rispose Ben, provando a mantenere un tono calmo e convincente, nonostante ciò che aveva da dire non fosse assolutamente tranquillizzante «I medici non sono positivi. Loro dicono che... pensavano che il suo cuore avrebbe smesso di battere già il giorno dell’intervento, pensavano che non avrebbe superato la notte. Continuano a ripetere che è solo questione di giorni. Però lei è ancora viva, Semir, e combatte. Quindi magari dovremmo sperare che...».
«Vai avanti, Ben.» lo interruppe il turco.
Ben si morse il labbro, lanciando un’occhiata fugace ai monitor posizionati attorno al letto dell’amico.
«Lily è... Lily è...».
Si bloccò.
Non riusciva a continuare.
L’elettrocardiografo accelerò appena il suo ritmo e Ben lanciò uno sguardo terrorizzato verso il collega, che però continuava a fissarlo, in attesa.
«Ben, ti prego... vai avanti.».
«Lily è rimasta... lei è rimasta schiacciata dalle pietre... cioè, quando i soccorsi l’hanno tirata fuori lei era... era...».
Ben si bloccò di nuovo, senza trovare la forza di andare avanti.
Vide Semir stringere le mani a pugno, sforzarsi di continuare a respirare in modo regolare, nonostante il suo battito cardiaco stesse accelerando inevitabilmente.
«Ben... dillo...».
Il più giovane annuì per farsi forza da solo.
Prese un respiro.
Attese ancora qualche attimo.
«Non ce l’ha fatta, Semir. Lei è morta prima che i soccorsi potessero fare qualsiasi cosa e... Semir, mi dispiace così tanto...».
Il silenzio si fece spesso, ingombrante.
Ma se Ben non era riuscito ad evitare che i suoi occhi diventassero lucidi, quelli di Semir erano ancora perfettamente asciutti.
L’elettrocardiografo decelerò, i battiti si regolarizzarono, nonostante Ben non comprendesse come ciò fosse possibile.
Semir continuò a stringere i pugni, senza dire niente.
Senza reagire.
Poi, rilassò appena le mani e puntò gli occhi negli occhi dell’amico.
«Vai avanti, Ben.».
Il ragazzo scosse il capo, indicando di non avere niente da aggiungere.
«Ben, non... non sono stupido... non sento... non sento più le gambe...» fece Semir, continuando a guardarlo.
Ben annuì. Avrebbe preferito comunicargli almeno quella notizia il giorno successivo. Ma sapeva che ormai non avrebbe potuto scappare.
«È a causa della colonna sotto cui eri bloccato quando ti abbiamo trovato. Ha causato un trauma grave e il medico ha detto che... che probabilmente non potrai più camminare.».
L’amico annuì piano, ma rimase impassibile.
I suoi occhi erano ancora asciutti.
Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo forzatamente normale.
«Socio...» disse Ben, dopo un altro attimo interminabile di silenzio «Ascoltami, io vorrei che tu...».
«Ben, per favore.» lo interruppe Semir, riuscendo a evitare ancora per qualche breve istante che la voce gli si incrinasse «Lasciami... lasciami solo...».
«Semir, io credo che...».
«Ben, ti prego. Vai... lasciami solo.».
Il ragazzo sospirò piano.
Poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza, richiudendosi piano la porta alle spalle.

Quando fu uscito, Ben rimase in piedi di fronte al vetro divisorio, spiando tra le pieghe della tendina che lo ricopriva le reazioni di Semir.
Lo vide stringere il lenzuolo tra le mani, stringere i pugni in modo talmente forte da far diventare le nocche completamente bianche.
Lo vide chiudere gli occhi e poi voltarsi dalla parte opposta, verso il muro.
Così Ben non poteva guardarlo negli occhi. Ma vedeva ogni singolo muscolo del suo corpo in tensione.
Vedeva quei pugni chiusi che si stringevano ancora e ancora.
Poi lo vide sbattere i pugni sul letto con violenza, una, due, tre volte.
E poi aprirli, finalmente, rilassando le mani, rimanendo immobile, con il torace che sussultava appena.
Solo dopo qualche istante si accorse che stava tremando.
Sussultava e tremava, ma continuava a rimanere girato e il collega dai vetri non poteva scorgergli il viso.
Con le lacrime agli occhi, Ben si avvicinò nuovamente alla porta, pronto ad abbassare la maniglia e rientrare nella stanza, ma qualcuno lo fermò.
Un tocco delicato sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi e il giovane ispettore si trovò davanti agli occhi verdi di Margaret, che lo fissavano preoccupati.
«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.» balbettò Ben, allontanando nonostante ciò la mano dalla maniglia.
Maggie scosse il capo, lentamente.
«Lascialo solo... da domani gli starai vicino, ma ora lascialo solo, Ben.».
Ben la guardò negli occhi.
Annuì con un sospiro.
E poi l’abbracciò.
Stettero così, abbracciati in quel corridoio, per un tempo infinito.

 

N.d.A.
Per me è stato il capitolo più difficile da scrivere, spero risulti comunque leggibile.
Purtroppo il mio computer mi ha abbandonato, ho salvato la storia, per fortuna, ma non i banner che avevo preparato... persi, tutti. Mi dispiace, tenevo anche a quelli, facevano in qualche modo parte della storia, ma purtroppo in questo periodo non ho proprio il tempo per ricrearli, quindi da ora in poi niente più immagini, a meno che il mio computer non esca dal letargo (eventualità piuttosto improbabile).
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie

  
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