Dal capitolo precedente:
"«Ben, ti
prego...» riprovò Semir, con un
filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata
all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi
preoccupare. Ti fidi di me,
socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un
po’, Semir, non ti
preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi
di corsa dalla stanza,
fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere."
Dolore
GIORNO 29.
Come
ormai ogni mattina, Ben
arrivò in ospedale trafelato.
Margaret gli aveva detto che sarebbe andata con lui, ma
l’ispettore non aveva
voluto aspettare e si era precipitato fuori di casa, mentre la ragazza
gli
gridava alle spalle che lo avrebbe raggiunto il prima possibile.
Quando imboccò il corridoio deserto, vide la figura di
Schneider allontanarsi a
passo svelto nella direzione opposta e accelerò per fermarlo.
«Ben, santo Cielo, mi hai spaventato!»
esclamò il medico, voltandosi, non
appena l’altro lo ebbe raggiunto.
«Scusa.» fece Ben, ansimando per riprendersi dalla
corsa che aveva fatto, senza
nemmeno avere un motivo per cui correre.
«Sei arrivato di corsa? Va tutto bene?».
«Sì, volevo solo sapere se ci sono
novità.».
Chris sorrise. Quel ragazzo gli faceva tenerezza. Da quando era
accaduto ciò
che era accaduto, non era trascorso un solo giorno senza che lui
passasse
dall’ospedale a chiedere come stesse l’amico o per
andarlo a trovare. Pensò che
il suo paziente fosse decisamente fortunato ad avere un amico come lui.
«In realtà sì, il tuo amico sta molto
meglio. Reagisce più prontamente agli
stimoli, parla senza troppa fatica. Ha dolore ovunque, è
normale, ma per il
resto non mi sarei mai aspettato una ripresa così
rapida.».
Ben sospirò e finalmente un sorriso si dipinse anche sul suo
viso.
«Allora ogni tanto qualcosa funziona.»
commentò, ringraziando il medico con lo
sguardo.
«Ora nella stanza ci sono la bambina e la nonna.»
lo informò Schneider e gli
occhi del poliziotto si illuminarono.
«Davvero? Ma è meraviglioso! Sono così
contento che Aida finalmente veda suo
papà... e farà bene anche a lui,
sicuramente.».
Seguì un attimo di silenzio, poi Ben si rabbuiò
di nuovo e il dottore se ne
accorse immediatamente.
«Che cosa c’è, Ben?»
domandò, in apprensione.
«Chris, io oggi dovrò spiegare a Semir come stanno
le cose, non credo che
accetterà ancora il mio silenzio.».
Il medico annuì «Fallo, Ben. Capisco che tu non
possa tenerlo all’oscuro di
quello che è successo. Solo, assicurati prima che lo possa
sopportare. Se vedi
che va in tachicardia o manifesta qualsiasi anomalia fisica, per
favore,
fermati e chiamami. Va bene?».
«Sì... sì, Chris, grazie. A
dopo.» lo salutò Ben.
Schneider gli sorrise e si allontanò, dirigendosi verso la
sala operatoria.
Quando
la porta si era aperta e
Aida aveva fatto il suo ingresso sorridente nella stanza, a Semir era
sembrato
che l’atmosfera grigia dell’ospedale diventasse
immediatamente luminosa e
serena.
Aida, la sua bambina. Era davanti a lui e stava bene.
«Papà!» esclamò lei,
catapultandosi verso il letto del padre a braccia aperte.
Poi, però, vedendo tutti i macchinari che lo circondavano,
si fermò
improvvisamente.
«Papà, ma se ti abbraccio ti faccio
male?».
Semir sorrise.
«Cucciolo... vieni qui...».
Aida si avvicinò piano, sporgendosi appena oltre il bordo
del letto per dare
almeno un bacio sulla guancia al papà.
Lui avrebbe voluto abbracciarla, prenderla e stringerla forte, ma non
poté fare
nulla di tutto ciò. Era disteso, riusciva a muovere giusto
la testa e le mani,
anche se ogni movimento era un dolore continuo.
«Come stai, cucciolo?» mormorò, con voce
bassissima.
«Io bene papi, ma tu? Hai dormito così tanto...
ora come stai?».
«Bene... meglio, non ti preoccupare...».
Solo in quel momento Semir si accorse che nella stanza c’era
qualcun altro.
Helen, la mamma di Andrea. Doveva aver accompagnato la nipotina e ora
assisteva
alla scena un po’ in disparte, addossata al muro, senza
parlare.
Sembrava invecchiata di dieci anni.
E mentre Aida gli parlava, imperterrita, di che cosa aveva fatto
aspettando che
lui si svegliasse, l’ispettore non poté fare a
meno di continuare a fissare
quegli occhi tristi, che lo guardavano senza sapere che cosa dire.
Quegli occhi
chiari e sbiaditi manifestavano dolore, troppo dolore. E il sorriso
debole che
la signora aveva dipinto sul viso era finto, terribilmente tirato, come
se
ormai da giorni lei si fosse abituata a mostrarlo pur senza avere
niente per
cui sorridere.
«Papi... papà, ma mi stai ascoltando?».
La voce squillante di Aida lo riscosse dai suoi pensieri e Semir
tornò a
guardare la figlia, distogliendo lo sguardo dalla suocera, che ancora
non aveva
proferito parola.
«Sì... Sì, Aida, ti ascolto.».
La bambina mostrò una smorfia indecisa. Il taglio sulla sua
fronte era ormai
guarito, ma ancora era coperto da un cerotto colorato.
Semir non sapeva come avesse fatto a non farsi del male con il crollo
di
quell’edificio, ma vederla sorridere e chiacchierare a
macchinetta lo aveva
decisamente sollevato.
Però era sola. Si trattenne a fatica dal chiederle dove
fosse sua sorella. Ma doveva
sapere...
«Aida, ora dovremmo lasciar riposare il tuo papà,
sai?» intervenne Helen,
parlando per la prima volta da quando era entrata nella stanza.
La bambina sbuffò.
«Però posso andare a salutare la mamma?».
Semir perse un battito. Aveva visto Kate sparare ad Andrea. Aveva visto
quel
lago di sangue. Era stato convinto che sua moglie fosse morta. E
adesso...
«A... Andrea sta... sta...» balbettò,
con gli occhi spalancati.
In risposta, da parte della suocera, ottenne soltanto un profondo
sospiro e un
cenno impercettibile del capo, che lo mandarono ancora più
in confusione.
«Helen... per favore...» mormorò Semir,
guardandola negli occhi, sperando che
almeno lei gli spiegasse qualcosa.
Ma l’anziana signora scosse solo il capo e non rispose.
«Riposati, Semir.» disse poi, piano, uscendo dalla
stanza.
La bambina lo salutò con un sorriso, poi seguì la
nonna oltre la soglia della
camera.
Ben
entrò cautamente, quasi
temesse di disturbare l’amico che, invece, era perfettamente
vigile e lo stava
aspettando.
«Ehi socio.» esordì, occupando la sedia
accanto al letto su cui l’altro era
disteso «Come stai oggi?».
«Meglio...».
«Hai visto Aida? Era contentissima di poterti venire a
trovare, finalmente.»
continuò il più giovane.
Ma Semir non lo ascoltava, seguiva il filo dei propri pensieri, senza
occuparsi
di che cosa l’amico stesse dicendo.
«Ben... Andrea... io pensavo fosse... fosse
morta...».
Ben sospirò. Aveva sperato per un attimo di poter evitare
quel discorso, di
poterlo rimandare ancora almeno per un giorno, ma in cuor suo sapeva
bene che
il collega avrebbe voluto subito sapere tutto.
«Semir... tu hai subìto tanti interventi e
l’ultima volta che ti sei svegliato
e abbiamo parlato poi ti sei sentito male... hai rischiato di non
risvegliarti
più.».
«Ben, ti prego... io devo... devo sapere...».
Il ragazzo sospirò ancora.
«Semir, io...».
«Per favore.» lo interruppe Semir «Per
favore, voglio... voglio sapere tutto.
Tutto. Posso sopportarlo... davvero… sono
pronto.».
Ben tacque per un istante lunghissimo.
Pronunciare quelle parole avrebbe fatto male a lui, nemmeno poteva
immaginare
quindi che cosa avrebbe provato l’amico ascoltandole.
Eppure, doveva dirglielo. Doveva dirgli tutto, per quanto fosse
orribile, per
quanto facesse male... lui aveva il diritto di sapere ogni cosa.
Prese un bel respiro, ben conscio del fatto che non esistessero le
parole
giuste.
Poi parlò, e sperò che quella conversazione
finisse in fretta, perché l’avrebbe
certamente detestata.
«Semir... allora, Andrea non è morta, ma
è arrivata in ospedale che aveva perso
davvero molto sangue ed era gravemente debilitata. È stata
operata, ma poi non
si è più svegliata.».
Semir annuì, sforzandosi con tutto se stesso di mantenere la
calma «Quanto...
quanto tempo è passato?».
«Tredici giorni... è in coma da tredici
giorni.» rispose Ben, provando a
mantenere un tono calmo e convincente, nonostante ciò che
aveva da dire non
fosse assolutamente tranquillizzante «I medici non sono
positivi. Loro dicono
che... pensavano che il suo cuore avrebbe smesso di battere
già il giorno
dell’intervento, pensavano che non avrebbe superato la notte.
Continuano a
ripetere che è solo questione di giorni. Però lei
è ancora viva, Semir, e
combatte. Quindi magari dovremmo sperare che...».
«Vai avanti, Ben.» lo interruppe il turco.
Ben si morse il labbro, lanciando un’occhiata fugace ai
monitor posizionati
attorno al letto dell’amico.
«Lily è... Lily è...».
Si bloccò.
Non riusciva a continuare.
L’elettrocardiografo accelerò appena il suo ritmo
e Ben lanciò uno sguardo
terrorizzato verso il collega, che però continuava a
fissarlo, in attesa.
«Ben, ti prego... vai avanti.».
«Lily è rimasta... lei è rimasta
schiacciata dalle pietre... cioè, quando i
soccorsi l’hanno tirata fuori lei era... era...».
Ben si bloccò di nuovo, senza trovare la forza di andare
avanti.
Vide Semir stringere le mani a pugno, sforzarsi di continuare a
respirare in
modo regolare, nonostante il suo battito cardiaco stesse accelerando
inevitabilmente.
«Ben... dillo...».
Il più giovane annuì per farsi forza da solo.
Prese un respiro.
Attese ancora qualche attimo.
«Non ce l’ha fatta, Semir. Lei è morta
prima che i soccorsi potessero fare
qualsiasi cosa e... Semir, mi dispiace così
tanto...».
Il silenzio si fece spesso, ingombrante.
Ma se Ben non era riuscito ad evitare che i suoi occhi diventassero
lucidi,
quelli di Semir erano ancora perfettamente asciutti.
L’elettrocardiografo decelerò, i battiti si
regolarizzarono, nonostante Ben non
comprendesse come ciò fosse possibile.
Semir continuò a stringere i pugni, senza dire niente.
Senza reagire.
Poi, rilassò appena le mani e puntò gli occhi
negli occhi dell’amico.
«Vai avanti, Ben.».
Il ragazzo scosse il capo, indicando di non avere niente da aggiungere.
«Ben, non... non sono stupido... non sento... non sento
più le gambe...» fece
Semir, continuando a guardarlo.
Ben annuì. Avrebbe preferito comunicargli almeno quella
notizia il giorno
successivo. Ma sapeva che ormai non avrebbe potuto scappare.
«È a causa della colonna sotto cui eri bloccato
quando ti abbiamo trovato. Ha
causato un trauma grave e il medico ha detto che... che probabilmente
non
potrai più camminare.».
L’amico annuì piano, ma rimase impassibile.
I suoi occhi erano ancora asciutti.
Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo forzatamente normale.
«Socio...» disse Ben, dopo un altro attimo
interminabile di silenzio
«Ascoltami, io vorrei che tu...».
«Ben, per favore.» lo interruppe Semir, riuscendo a
evitare ancora per qualche
breve istante che la voce gli si incrinasse «Lasciami...
lasciami solo...».
«Semir, io credo che...».
«Ben, ti prego. Vai... lasciami solo.».
Il ragazzo sospirò piano.
Poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza,
richiudendosi piano la porta
alle spalle.
Quando
fu uscito, Ben rimase in
piedi di fronte al vetro divisorio, spiando tra le pieghe della tendina
che lo
ricopriva le reazioni di Semir.
Lo vide stringere il lenzuolo tra le mani, stringere i pugni in modo
talmente
forte da far diventare le nocche completamente bianche.
Lo vide chiudere gli occhi e poi voltarsi dalla parte opposta, verso il
muro.
Così Ben non poteva guardarlo negli occhi. Ma vedeva ogni
singolo muscolo del
suo corpo in tensione.
Vedeva quei pugni chiusi che si stringevano ancora e ancora.
Poi lo vide sbattere i pugni sul letto con violenza, una, due, tre
volte.
E poi aprirli, finalmente, rilassando le mani, rimanendo immobile, con
il
torace che sussultava appena.
Solo dopo qualche istante si accorse che stava tremando.
Sussultava e tremava, ma continuava a rimanere girato e il collega dai
vetri
non poteva scorgergli il viso.
Con le lacrime agli occhi, Ben si avvicinò nuovamente alla
porta, pronto ad
abbassare la maniglia e rientrare nella stanza, ma qualcuno lo
fermò.
Un tocco delicato sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi e il giovane
ispettore si trovò davanti agli occhi verdi di Margaret, che
lo fissavano
preoccupati.
«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.»
balbettò Ben, allontanando
nonostante ciò la mano dalla maniglia.
Maggie scosse il capo, lentamente.
«Lascialo solo... da domani gli starai vicino, ma ora
lascialo solo, Ben.».
Ben la guardò negli occhi.
Annuì con un sospiro.
E poi l’abbracciò.
Stettero così, abbracciati in quel corridoio, per un tempo
infinito.
N.d.A.
Per me è stato il capitolo più difficile da
scrivere, spero risulti comunque
leggibile.
Purtroppo il mio computer mi ha abbandonato, ho salvato la storia, per
fortuna,
ma non i banner che avevo preparato... persi, tutti. Mi dispiace,
tenevo anche
a quelli, facevano in qualche modo parte della storia, ma purtroppo in
questo
periodo non ho proprio il tempo per ricrearli, quindi da ora in poi
niente più immagini,
a meno che il mio computer non esca dal letargo (eventualità
piuttosto
improbabile).
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie