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Autore: heartbreakerz    28/12/2018    2 recensioni
[ Sousuke/Makoto + Rin, Idol!verse AU ]
In seguito a un incidente, il corpo del modello Sousuke Yamazaki viene sfigurato da una brutta cicatrice sulla spalla. Ancora sulla via della riabilitazione, Sousuke è costretto a vedersi sostituito da altri visi, sempre più nuovi e sconosciuti. È davvero questa la fine della sua carriera?
Dal testo: “Cinquantaquattro, cinquantacinque. Il peso del bilanciere era più di quanto Sousuke potesse sostenere. Le braccia gli tremavano, le mani gli sudavano. Sentiva le dita slittare lungo la liscia barra di metallo, le unghie graffiare febbrilmente l’acciaio per trattenere la presa. Solo un sollevamento in più, si ripeteva. Se lo ripeteva da interi minuti. L’anno precedente non ne avrebbe avuto bisogno – cinquantasei, cinquantasette sollevamenti erano all’ordine del giorno. Ora, invece, il cinquantottesimo era una frustata di dolore dritta ai nervi, e il cinquantanovesimo gli toglieva il respiro.”
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Makoto Tachibana, Rin Matsuoka, Sosuke Yamazaki
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Idol!verse AU'
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Questa fic è stata scritta per l'event di We are out for prompt. Il prompt è basato su un'idea di Chara,  che ringrazio anche per il supporto morale!

Questa non sarà una long, bensì una specie di raccolta di oneshot che accompagnano la vita di Sousuke, Makoto e molti altri personaggi. Per chi fosse interessato, in questo universo è ambientata anche “Intervista, in via ipotetica” (Nao/Natsuya), e probabilmente in seguito ci saranno altre coppie/triadi/relazioni che verranno esplorate. Tutte le fic possono essere trovate nella raccolta generica di questo universo.

Spero che la storia vi piaccia!




 

 

Who wants to live forever

Cinquantaquattro, cinquantacinque. Il peso del bilanciere era più di quanto Sousuke potesse sostenere. Le braccia gli tremavano, le mani gli sudavano. Sentiva le dita slittare lungo la liscia barra di metallo, le unghie graffiare febbrilmente l’acciaio per trattenere la presa. Solo un sollevamento in più, si ripeteva. Se lo ripeteva da interi minuti. L’anno precedente non ne avrebbe avuto bisogno – cinquantasei, cinquantasette sollevamenti erano all’ordine del giorno. Ora, invece, il cinquantottesimo era una frustata di dolore dritta ai nervi, e il cinquantanovesimo gli toglieva il respiro.

Sulla soglia dei sessanta, le braccia gli cedettero. La barra era troppo pesante e le sue braccia troppo deboli. Non riusciva più a risollevarla – ogni attimo era un respiro più breve, una fitta di dolore ancora più intensa, un basso ansito che nessuno avrebbe sentito. Nessuno, pensava, e nemmeno nella sua mente riusciva a nascondere la vergogna di quella supplica.

Sousuke non voleva essere sentito, ma il bilanciere era bloccato sul suo sterno e premeva verso il basso, contro la sua cassa toracica, contro il movimento sempre più fiacco dei suoi respiri. Avrebbe potuto continuare a pregare che nessuno si accorgesse di lui – sperando che le sue braccia ritrovassero la loro forza; che i suoi muscoli smettessero di tremare, e i suoi nervi tornassero saldi come un tempo – eppure ciò avrebbe significato un destino ancor peggiore: uno svenimento, se fosse stato fortunato; il soffocamento, se nessuno si fosse accorto di niente.

Ma qualcuno se ne accorse.

Una voce bassa, curiosamente vibrante, arrivò da dietro la porta. Ci fu un cigolio e poi la stanza vuota si tinse delle note musicali di una canzone vecchia, di quelle che Rin adorava ascoltare durante i momenti di riposo in seguito a un workout. Qualcosa dei Rolling Stones, avrebbe detto Sousuke, ben sapendo che Rin si sarebbe bloccato lì, sul posto, a boccheggiare come un pesce, sconvolto dall’aver sentito qualcuno confondere i suoi amati Queen con un altro gruppo.

«Who wants to live forever, huh?» disse Sousuke, senza fiato. Se gliene fosse rimasto un goccio, probabilmente avrebbe riso, amaro, per la scelta calzante della colonna sonora.

Rin non parve altrettanto divertito. «Di certo non tu, dannazione!» esclamò, e corse all’avanti, pronto ad afferrare la barra dei pesi con entrambe le mani. Le sue erano stabili: ci vollero pochi attimi – un piccolo sforzo, un leggero sbuffo – e poi il bilanciere tornò in equilibrio sulle aste d’appoggio, e il respiro di Sousuke riprese a fluire con più facilità.

Gli ci vollero alcuni minuti prima che l’adrenalina si calmasse e il sangue tornasse a pompare a un ritmo sostenibile.  Allora, lentamente, Sousuke si mise a sedere. Il suo petto continuava a sollevarsi e abbassarsi, sollevarsi e abbassarsi, come se fosse alla fine di una lunga maratona. Ma probabilmente una maratona non sarebbe più riuscito a concluderla – non in quelle condizioni.

«—hi.» Rin fece schioccare le dita davanti al suo viso. «Ohi, Sousuke.»

Sousuke si limitò a scuotere la testa. «Sto bene» disse lentamente. Se parlava abbastanza piano non gli era difficile nascondere il dolore dalla sua voce. «Non preoccuparti.»

«Non stai bene» lo interruppe rapidamente Rin. «La tua spalla, scemo. È appena guarita, non sforzarla così tanto.»

«Sto bene, ti ho detto.»

«E io ti ho detto che non è vero.» Il tono di Rin aveva cominciato a infiammarsi. Non che Sousuke potesse biasimarlo, dopo ciò a cui Rin aveva appena assistito. «Cos’avresti fatto se non fossi entrato in questo momento, eh? Hai presente quanto—merda, Sousuke!» esplose poi Rin, dopo aver lanciato un’occhiata ai pesi attaccati alla sbarra. «Hai una mezza idea di quanto pesino questi dischi?»

«Ne ho un’idea piuttosto completa.»

Rin lo freddò con un’occhiata. «Non sei simpatico, Sousuke.»

«Non mi interessa esserlo.»

«Sousuke.» La voce di Rin era esasperata, e Sousuke quasi se ne dispiacque. Non era la prima volta che affrontavano quell’argomento, e probabilmente non sarebbe stata neanche l’ultima. Da qualche tempo, Rin sembrava essersi addossato il compito di controllare il benestare di Sousuke, mandandogli messaggi anche dopo giornate pesanti, creandosi un ritaglio di tempo, la sera, per visitare la palestra, lì dove a Sousuke era stato vietato l’ingresso,  e lì dove Rin, puntualmente, lo beccava. Se un tempo erano stati colleghi, compagni di allenamenti e amici, ora Sousuke si sentiva un vecchio cullato da un badante. Pressato dalle sue eccessive attenzioni.

Asfissiato.

«Ti ho detto che sto bene, Rin» mormorò nuovamente, cercando di chiudere l’argomento. Non avrebbe funzionato, non con Rin, ma se avesse insistito abbastanza, se gli avesse fatto capire di voler essere lasciato in pace, prima o poi Rin avrebbe lasciato perdere.

«Sì? Stai bene, non è vero?» continuò Rin sarcastico. «E allora, dimmi, cosa ci fai qui, alle dieci passate, rischiando di soffocare sotto a un cavolo di bilanciere?»

Sousuke non rispose. Si alzò invece dalla panca e si avvicinò alla grande finestra in vetro che copriva l’intera parete est della stanza. Fuori il cielo era già buio, ma la città era piena di luci. Partivano dal basso, dalla strada, e si facevano sempre più intense nel salire verso l’alto. La luce più forte – la più fastidiosa – arrivava da un grande cartellone pubblicitario. Per esso non avevano badato a spese: era piazzato in alto, sul tetto dell’edificio di fronte alla palestra, e ne occupava l’intera lunghezza. Il cartellone in sé era così grande che, persino da quella distanza, Sousuke riusciva a cogliere quasi ogni dettaglio.

Al centro c’era un ragazzo – un ragazzo voltato di spalle, con i capelli castani spettinati, il capo inclinato e un’espressione magistralmente sconvolta sul viso parzialmente nascosto. Attorno a lui vi erano cinque, sei mani; mani di donne, smaltate e inanellate, aggrappate ai vestiti del ragazzo, pronte a strapparglieli di dosso. E con i vestiti mezzi lacerati, la camicia abbassata in trasversale lungo la schiena, era facile intravedere i muscoli della schiena del ragazzo.

Dannazione, imprecò Sousuke mentalmente. Non avevano nemmeno rimosso le piccole imperfezioni. I nei che gli decoravano le scapole e la base del collo erano più che visibili, e sul suo viso, nella curva della mascella, appena sotto il lobo dell’orecchio, vi era un leggero segno arrossato tipico di una vecchia cicatrice – forse il taglio di una rasoio, forse il rossore di un’acne giovanile; qualunque fosse la sua origine, Sousuke non era interessato.

No, a Sousuke interessava solo una cosa: quello sarebbe dovuto essere il suo annuncio. La sua pubblicità, il suo lavoro. E lì al centro ci sarebbero dovute essere le sue spalle scoperte, il suo corpo avvolto da stoffe pregiate, strappate da mani eleganti e ingioiellate. Ed invece ecco lì il corpo di un altro—Cristo, la sola idea gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Perché quello non era un altro modello, non era un attore famoso, non era qualcuno da cui Sousuke potesse imparare qualcosa. No, quello era un semplice novizio.

Un novizio preso da una boyband.

Sousuke aveva letto il suo nome da qualche parte. Tachirana, forse Tachibana. Doveva aver debuttato da poco, perché il suo nome gli risultava ancora completamente estraneo. Il suo corpo, invece – quello no. Non era poi tanto diverso da quello di Sousuke: l’unica vera differenza, oltre qualche centimetro in meno di altezza, era l’atmosfera che emanava. Lì dove Sousuke si era costruito un’immagine forte, intensa, fatta di contrasti tra capelli scuri e occhi chiari, voce profonda e tono brusco, Tachibana mirava a qualcosa di più delicato, di più semplice. I suoi occhi verdi, grandi e caldi, parlavano chiaro anche attraverso la fotocamera. I suoi pensieri filtravano sulla carta. Persino a distanza, persino da una gigantografia pubblicitaria, Sousuke riusciva a leggere lo sconcerto nei suoi occhi, la sorpresa nei suoi tratti, il delicato, misero accenno di compiacimento nella piega delle sue labbra, subito nascosto da una sfumatura di timidezza.

Non poteva neanche negarne il fascino, Sousuke. Ma accettarlo? Quella era tutta un’altra storia.

Si portò una mano alla spalla destra. Se allungava le dita un po’ più in basso, sotto la maglia, lungo la scapola, riusciva a sentire l’avvallamento dovuto al taglio di un bisturi e la ruvidità della sua pelle, una volta immacolata, ora graffiata da una profonda cicatrice.

Guardando nuovamente il cartellone davanti a sé, Sousuke non ebbe bisogno di domandarsi perché fosse stato sostituito. Quella brutta cicatrice non avrebbe venduto il prodotto, non sarebbe sembrata affascinante come una schiena pulita, decorata solo di muscoli e nei; e di certo coprirla con trucco e ritocco sarebbe stato uno spreco di tempo e denaro. Ma, si chiedeva allora Sousuke, era davvero lì che finiva il suo valore? Nella perfezione dei suoi muscoli, nella curva elegante delle sue spalle? Nella sua pelle priva di imperfezioni?

Ci voleva così poco perché la sua carriera andasse in rovina?

Per cosa aveva lavorato, allora, in tutti quegli anni, sgobbando tra i fotografi più insofferenti, tra i lavori più esasperanti – tra quelli stessi lavori che di tanto in tanto tornavano a galla e che Sousuke era costretto a liquidare con un falso sorriso? Per cosa si era creato, allora, la sua impeccabile reputazione, fatta di sorrisi sicuri e fermi rifiuti, se era bastato un piccolo inconveniente, una dannata cicatrice, a far crollare ogni suo castello, a farlo sparire silenziosamente, a vederlo sostituito dal primo nuovo arrivato?

«È tempo di andare, Sousuke» annunciò Rin, senza fornirgli risposte. Aveva però lasciato cadere il discorso precedente, e di questo Sousuke glien’era grato.

Così annuì e si allontanò dalla finestra. Girandosi di spalle si ritrovò davanti una stanza completamente vuota. E mentre si piegava per raccogliere la sua borsa, un’altra, ultima domanda sorse silenziosa.

Per cosa—no, per chi aveva lavorato tanto duramente, se ora non c’era più nessuno ad aspettare il suo ritorno?

Sousuke sollevò il capo, stringendo i denti, e il suo sguardo cadde un’ultima volta sul cartellone pubblicitario. Tachibana, proprio lì, al centro, sembrò accoglierlo con un saluto di scherno.

Ma se pensava di aver vinto, oh, se ne sarebbe pentito. Molto presto.

   
 
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