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Knockin' on Heaven's door
"Confusion will be my epitaph
As I crawl a
cracked and broken path
If we make it, we can all sit back and
laugh
But I fear tomorrow I'll be crying"
[Epitaph – King Crimson]
12 Maggio, Villa Stark
Tic
toc.
Tic
toc.
Si
ripromise di contare di nuovo fino a trenta.
Inspirò.
Espirò.
Tic
Toc.
Tic
Toc.
Arrivò
a centoventi. Perse il controllo del suo respiro, adesso fuori tempo
rispetto al ticchettio snervante dell'orologio. Perché si
ostinava
ad avere un'anticaglia ticchettante sul comodino?
Tic
toc.
Tic
toc.
Forse
per scandire meglio le sue notti insonni, per dare loro una
dimensione e dei contorni misurabili senza dover per forza aprire gli
occhi nel buio e rischiare di incontrare il nulla.
Tic
toc. Tic toc.
Il
fioco riverbero azzurrino proveniente dal suo petto
rischiarò il
quadrante.
Le
2:17.
La
voce di suo padre continuava a rimbombargli in testa.
"Cosa
stai facendo?"
Si
era rigirato quella domanda in testa per ore, analizzandola da ogni
angolazione, scandendola con mille sfumature differenti, e ancora non
riusciva a trovare una risposta che lo soddisfacesse e che lo
lasciasse in pace col dolore lancinante ai moncherini che gli
impediva di riscivolare nel sonno.
Cosa
stava facendo?
Stava
lavorando al suo retaggio, affinché non andasse perduto. No,
si
corresse, era il suo retaggio che stava divorando lui, una vena
intossicata alla volta.
Stava
aspettando troppe cose e ne stava rimandando altrettante.
Tic
Toc. Tic Toc.
Le
2:20.
Stava
perdendo tempo in ogni modo possibile.
Si
rivoltò nel letto in un moto di frustrazione e
ciò gli strappò un
lamento per le ferite insolitamente sensibili. Si era abituato ad
avere qualche crisi notturna, ma adesso si sentiva come se avesse due
rozzi chiodi infissi nei moncherini al posto delle protesi. E
più
rimaneva sdraiato, più aveva l'impressione che un peso gli
schiacciasse il petto rubandogli il respiro, mentre il materasso
sembrava cosparso di vetri acuminati.
Trasse
un profondo respiro prima di sollevarsi a sedere in un sol movimento,
stringendo i denti per il coro di protesta che sembrò
levarsi da
ogni cellula del suo corpo. Piantò saldamente i piedi a
terra e si
alzò chiedendosi se le gambe avrebbero retto, in quelle
condizioni e
rinunciando al bastone. Protestarono vivacemente, ma ressero,
così
uscì zoppicando dalla sua camera in cerca d’aria
fresca, sollievo
e distrazioni.
Vagò
per un po’ a vuoto per l'enorme villa, irrequieto e
accompagnato
solo dal rumore metallico della protesi che impattava col marmo
freddo. Più camminava, più si sentiva sul punto
di rovinare a
terra, ma allo stesso tempo era incapace di stare fermo: gli sembrava
di avere costantemente un'ombra che si aggirava ai margini della sua
visuale, incalzandolo a muoversi. Ad ogni passo il moncherino
gridava, risvegliando ricordi ora fin troppo chiari, ma non si
arrestò, volendo scacciarli e riuscendo solo ad evocarli in
modo
sempre più vivido.
Le
sue gambe volevano guidarlo verso la camera di Pepper, ma
contrastò
pervicacemente quella tentazione. Non voleva che lo vedesse in quello
stato, e non sapeva spiegarsi se fosse per amor proprio o per evitare
di causarle altro dolore o, ancora, per timore di ciò che
sarebbe
potuto accadere una volta lì. Ad ogni modo, si tenne a
distanza
dalla sua porta.
Finì
per recuperare la chiave nell’armadietto
dell’atrio, imboccando
poi la porta dello studio di suo padre. La chiuse dietro di
sé,
poggiandosi al legno vecchio per non farla riaprire ed esitando ad
accendere la luce. Mosse un passo incerto, allungando a tentoni una
mano davanti a sé mentre si abituava pian piano al buio,
interrotto
solo dalla lama di luce che filtrava dallo stipite difettoso. Si
lasciò avvolgere dal tenue sentore della carta ingiallita e
del
legno vecchio che permeava l’aria, quasi tangibile
nell’oscurità.
Premette infine l’interruttore e la lampadina
sfrigolò, gettando
una luce traballante che si stabilizzò dopo qualche secondo,
rivelando le ben note sagome che popolavano lo studio ancora
sottosopra dopo la sua ultima incursione. In un angolo erano impilati
i documenti che, prima o poi, avrebbe dovuto consegnare allo SHIELD;
nell’altro erano ammucchiati quelli che invece si era
ripromesso di
distruggere e che erano invece rimasti lì a impolverarsi.
Alcuni
fascicoli sulla Stark Expo del ’74 erano poggiati su uno
sgabello
in una risma ordinata, probabilmente riportati lì da Pepper
dopo il
suo lavoro di documentazione.
Si
avvicinò lentamente alla scrivania e vi poggiò
distrattamente la
mano, seguendo le venature del legno con le dita. Il suo
sguardò
vagò sul muro di rilegature che colorava la libreria, senza
soffermarsi su nessuna in particolare. Iniziava ad accusare delle
fitte più insistenti, così si inclinò
contro la scrivania,
alleviando il peso dalla gamba e stringendo il bordo con le dita
sane, le labbra tirate involontariamente in una smorfia.
Trovò
finalmente la forza di indirizzare lo sguardo al baule lì
accanto, e
la sua mano meccanica corse al reattore, picchiettando leggermente
sulla sua superficie liscia. Prima di poterci ripensare si
scostò
dal suo sostengo, s’inginocchio con un gemito a malapena
soffocato
e fece scattare le chiusure metalliche, che opposero una flebile
resistenza prima di cedere, permettendogli di aprire il coperchio con
un cigolio sommesso di cardini a lungo non oliati.
Rimase
per un attimo disorientato dalla mole di colori, forme e figure
familiari che intravvide a colpo d’occhio sulla superficie
ben
stipata del contenitore: un vestito lì, la cornice di un
quadro là,
una scatola di scarpe qua. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a
richiuderlo e lasciar riposare il passato e i ricordi.
Sollevò
delicatamente un vestito estivo a motivi floreali, ben riposto in
cima a una pila di indumenti, e passò il pollice sui piccoli
rilievi
dei fiordalisi ricamati finemente sulla stoffa chiara. Gli parve di
sentire una scia appena accennata di acqua di colonia, assieme alle
note ovattate di una melodia conosciuta. Si lasciò sfuggire
un tenue
sospiro mentre ripiegava con accortezza il vestito per riporlo
accanto a lui, lisciando poi con una carezza le pieghe del lino
leggero. Passò a svuotare il baule con obbligata lentezza,
soffermandosi di tanto in tanto a rigirarsi in mano un oggetto
conosciuto, lasciando che evocasse qualche stralcio di ricordo. Dopo
una buona ventina di minuti portò alla luce la sua vecchia
cesta di
giocattoli sul fondo, con sopra un pezzo di cartone rigido a
mo’ di
coperchio. La tirò fuori con qualche scossone, cercando di
trattenere uno starnuto per la polvere che gli stava già
facendo
lacrimare l’occhio, ma finì comunque per
lasciarselo sfuggire
assieme alla cesta, che rovinò a terra e si
rovesciò con un
disordinato fracasso di plastica.
Osservò
con disappunto la selezione di quei pochi giocattoli sparpagliati
che, quando suo padre aveva deciso di punto in bianco che non era
più
un bambino, era riuscito a mettere in salvo con l’aiuto di
sua
madre. Prese tra due dita il modellino elettrico di una Shelby da
corsa che all’epoca aveva passato giornate intere a
modificare e
gli venne da sorridere appena nel pensare alle sue auto in garage:
non era poi cambiato molto, sotto quel punto di vista. Il suo sorriso
si affievolì nel passare in rassegna il resto dei giocattoli
sparpagliati di fronte a lui, individuando quasi all’istante
il
motivo per cui se ne stava inginocchiato per terra nello studio di
suo padre alle tre di notte, cercando di ignorare il dolore al volto
e ai moncherini fattosi man mano sempre più insopportabile.
Il
robottino rosso era rivolto a faccia in su, con la testa ovoidale e
coperta dalla maschera argentata che faceva capolino da sotto
un’astronave, le corte tenaglie ancora piegate in un qualche
gesto
ora privo di significato. Nel soffermarsi su quel dettaglio, una
spiacevole tensione gli attraversò il braccio artificiale,
qualcosa che teoricamente non avrebbe dovuto percepire. Si
sfregò il
rivestimento metallico, come a scacciare la pressione che sentiva
appena sopra il gomito, e si costrinse a prendere il robot. Gli
sembrò più pesante di quanto fosse ragionevole
pensare e più
piccolo di quanto ricordasse, tra le sue mani adulte, segnate e ora
asimmetriche. Lasciò la presa con quella meccanica, che
aveva
cominciato a stringerlo con troppa forza rischiando di deformarlo.
Liberò il respiro che non si era accorto di aver trattenuto
e
rilassò il volto inconsciamente corrucciato, sciogliendo la
tensione
delle sopracciglia aggrottate. Tenne lo sguardo fisso sul rosso vivo
del robot, quasi ipnotizzato.
Emise
un altro sospiro, più secco, quasi violento. Poi
posò il robottino,
risistemò con rapidità il contenuto del baule al
proprio posto e si
rialzò a fatica, recuperando il giocattolo. Chiuse coperchio
e
chiavistello, spense la luce e si sbatté la porta alle
spalle senza
curarsi di chiuderla a chiave, col robottino ancora stretto in mano.
***
Trovò
rifugio in terrazza e si accontentò di scrutare il cielo dal
basso,
piuttosto che attraversarlo in volo come avrebbe voluto. Cercava
qualche stella, ma era nuvoloso, e la luna dimezzata sbucava solo di
tanto in tanto da un’apertura tra le nubi, lanciando qualche
raggio
perlaceo sulla superficie appena agitata dell’oceano.
Tony
se ne stava poggiato al parapetto, con gli avambracci puntati contro
il cemento e il robottino in piedi lì accanto, come se
stesse
ammirando anche lui il panorama. L’aveva posizionato vicino
al
bordo, ad appena pochi millimetri dal vuoto, ed era lì da
almeno
venti minuti. Si
sfregò il volto in un gesto esausto: stava esitando, ancora
una
volta, come nel sogno. Provava una fitta di rabbia feroce ogni volta
che fissava quell’oggetto, eppure ogni volta che faceva per
spingerlo oltre il bordo lo colpiva un’altra fitta,
più dolorosa,
pericolosamente vicina al punto in cui erano incastrati i frammenti
della bomba.
Non riusciva a capacitarsi di trovarsi lì a
causa
dell’uomo che gli aveva regalato quel giocattolo. Era una
concatenazione di eventi di cui era stato cosciente sin dal momento
in cui si era risvegliato su quel letto d’ospedale, ma
paradossalmente, proprio ora che riusciva a ricordare nel dettaglio
ciò che era accaduto, il tutto aveva assunto contorni
onirici e
ineffabili. L’unica cosa vivida e reale era il dolore ai
moncherini; sapeva che a breve si sarebbe pentito amaramente della
sua passeggiata notturna, ma si ostinava a resistere, concentrandosi
su quella sensazione spiacevole per scacciare il dubbio di non
essersi mai svegliato dopo l’incidente. Ma era lì,
in piedi, e
stava morendo per colpa di Stane.
Sfruttò
quel getto di rabbia e prese un respiro profondo, e con esso anche il
robot, soppesandolo poi nel palmo metallico. Serrò la mano,
e udì
un lieve stridio di plastica in risposta. Un attimo prima di perdere
il controllo e disintegrarlo, lasciò la presa oltre il bordo.
Nel
guardarlo cadere, provò un senso di vertigine che non
scomparve
neanche quando il puntino rosso fu inghiottito dai flutti scuri. Non
era la sensazione piacevole che lo coglieva al decollo, ma piuttosto
quella di precipitare all’infinito, quasi si fosse buttato
lui
stesso dalla scogliera. Per un attimo si chiese se non
l’avesse
fatto davvero, e gli parve di sentire l’abbraccio freddo e
salmastro delle onde sulla pelle. Avvertì un gorgo
spalancarsi al
centro del petto.
Si
scostò bruscamente dal parapetto, reprimendo un conato e
rendendosi
conto solo allora dei brividi che lo scuotevano già da
chissà
quanto. Era zuppo di sudore freddo e gli sembrava che la pressione
nella sua gabbia toracica fosse aumentata, rendendolo dolorosamente
consapevole del reattore che la trapassava e di ogni singola costola.
Si
lasciò cadere seduto sulla cornice dell’aiuola,
accanto alla
ginestra che dondolava tranquilla nella brezza serale. Gli tremavano
le gambe, ma le ignorò e portò il palmo metallico
a coprirsi la
bocca, soffocando un lamento e un respiro strozzato assieme. Non
voleva avere un altro attacco di panico dopo quello che
l’aveva
colto nel sonno, ma il suo corpo sembrava aver deciso altrimenti e
stava cercando di cacciarlo fuori di sé per
l’ennesima volta.
Strizzò l’occhio, imponendosi di controllare il
respiro contando all'indietro, come gli
aveva insegnato a fare Ian, e riuscì a incamerare una
boccata d’aria
appena sufficiente a non fargli oscurare la vista. Di nuovo,
sfruttò
le fitte come appigli, riuscendo ad allontanarsi pian piano dal
vortice, nonostante la corrente che cercava di attirarlo a
sé fosse
ancora ben percepibile e le immagini dell’incubo gli
scorressero in
testa a ripetizione.
Stane
che cadeva, il suo braccio che si allungava seguendo un puro istinto,
il robottino che cadeva a sua volta. Contrasse i pugni, col fiato
corto.
Un
rumore secco che spiccò contro quello soffuso della risacca
lo fece
voltare verso la porta-finestra che si apriva sul terrazzo. Un misto
di piacevole sorpresa e apprensione gli strinse lo stomaco nel vedere
Pepper che chiudeva il vetro dietro di sé, con i capelli
sciolti
scarmigliati dal sonno e dalla brezza leggera e la solita accoppiata
di maglietta e pantaloncini trafugati a lui che usava come pigiama.
«Anche
lei qui, signorina Potts?» la accolse, rivolgendole un
sorriso
appena accennato e cercando di non suonare affannato per non dare a
vedere il suo turbamento.
Il
sollievo di averla lì accanto superava di gran lunga il
senso di
colpa per essere probabilmente la causa della sua insonnia.
«Ho
sentito un rumore e ho pensato che fossi sveglio,» rispose
lei
avvicinandosi e rimanendo in piedi accanto a lui.
Tony
pensò alla scatola che gli era caduta prima
nell’ufficio e alla
ben poca grazia che aveva avuto nel riordinare il baule e nel lasciare
la
stanza. Si accigliò appena, sia per quello, che per il fatto
che
fosse passata almeno mezz’ora. Non si spiegava
perché Pepper
avesse aspettato così tanto prima di raggiungerlo, e
soprattutto se
si fosse dovuta convincere a farlo. Trattenne l’urgenza di
sospirare per le insensate congetture che lo assillavano
puntualmente. Tenerle a bada era estenuante e a volte avrebbe solo
voluto accettarle come vere per avere un momento di pace mentale.
Soffocò quel senso di inadeguatezza che cercava di
sopraffarlo ogni
volta che si trovava vicino a lei e raccolse la voce per parlare di
nuovo:
«Ti
ho svegliata?»
Pepper
esitò nel rispondere e lui percepì
l’ansia impennarsi per un
istante, chiudendogli lo stomaco.
«No,»
disse lei, senza incrociare il suo sguardo.
Si
sedette accanto a lui, con la ginestra che protendeva appena i suoi
rami tra loro in una lieve barriera facilmente travalicabile.
«Quindi
eri già sveglia?» indagò Tony, intuendo
la sua reticenza.
Di
nuovo, non ottenne subito risposta. La osservò sfiorare i
minuti
boccioli gialli con la punta delle dita, in un gesto assente.
«Non
riuscivo a dormire,» confessò poi, in fretta.
«Tu?»
«Sono
rimasto sveglio in laboratorio,» mentì lui.
Sentì
gli occhi di Pepper che lo scrutavano a fondo, cercando di
smascherarlo, ma s’impedì di far trapelare un
qualsiasi cenno di
cedimento. Un conto era essere sinceri, un altro era farla
preoccupare per qualcosa che sfuggiva al controllo di entrambi; non
aveva alcun bisogno di sapere quanto lo stessero tormentando le
ferite in quel momento, né perché il dolore fosse
così accentuato.
Né che l’intossicazione sfiorava ormai il 65%.
Erano rimasti
d’accordo di non parlarne più esplicitamente e in
termini numerici
e percentuali, ma ormai sentiva il palladio che iniziava a chiudergli
i polmoni come una pianta infestante ed era inutile cercare di
camuffare il malessere: Pepper ne era sempre perfettamente cosciente
e aveva solo scelto di rispettare i suoi silenzi al riguardo,
rimanendogli accanto.
Anche
adesso aveva sicuramente captato la sua bugia, ma non insistette, e
gliene fu grato. Si limitò a fargli una carezza sul braccio,
suscitandogli il consueto miscuglio di emozioni che avrebbe potuto
farlo uscire di testa; quel tira e molla inconcludente tra il volersi
ridurre a un atomo invisibile e il voler invece fondersi con la sua
pelle ad ogni minimo contatto.
In
quel breve lasso di tempo si era imposto di superare quella fisima,
ripetendosi che anche quello – soprattutto
quello – faceva parte dell’essere amati, e aveva
raccolto più
vittorie che sconfitte. Il fatto che neanche Pepper si fosse
dimostrata incline ad accelerare i tempi era stato un ulteriore
sprone. Ma adesso non si sentiva assolutamente nelle condizioni di
essere indulgente col proprio corpo, non con i pensieri che si
scontravano con violenza nella sua testa rintronandolo e riportandolo
al momento in cui era stato mutilato e sfigurato.
Si
ritrasse quindi al contatto senza riuscire a frenarsi, e Pepper
lasciò subito scivolare via la mano. Tony notò
come tirò
impercettibilmente le labbra nel farlo, con una singola piega che
andò a intaccarle la fronte. Gli sfuggì un lungo
sospiro che
s’impegnò a rendere il più silenzioso
possibile, per poi
accostarsi di più a lei fino a sfiorarla, sperando che
capisse e che
sopportasse quel suo lato che spesso sfuggiva al suo controllo. Lei
non si mosse e, anzi, si adagiò nel suo calore.
Cercò la sua mano
artificiale, stavolta, e stavolta Tony si sforzò di
accettare quel
gesto, come sempre disorientato dal conflitto tra l’assenza
di
tatto e il vedere ciò che avrebbe dovuto sentire,
risvegliando
un’ombra di percezione nel suo arto inanimato. Non
osò muoversi,
come sempre paralizzato dal timore di farle involontariamente male,
ma quel contatto mediato era più gestibile di uno diretto.
«Giuro
che ci sto provando,» mormorò frustrato, come
unica spiegazione, e
sentì il sospiro di Pepper solleticargli la pelle in tutta
risposta.
«Va
bene così, Tony. Ne abbiamo parlato,» lo
rassicurò, inclinando il
volto verso di lui.
Lui
non rispose, ma tirò appena lo bocca in
un’espressione poco
convinta. Pepper era sembrata in un certo senso più esitante
a
venire in contatto fisico con lui; non che non lo ricercasse, anzi,
non gli era mai stata così vicina, ma vi era una sorta di
reticenza
di fondo da parte sua che non riusciva a collocare. E non riusciva a
capire se ciò nascesse dalla volontà di
rispettare i suoi spazi, o
da un ripensamento sulle sue scelte. Quasi a voler fugare quel
dubbio, inghiotti la sua ansia e allentò per un istante il
freno che
si era imposto: si chinò verso di lei, per poi esitare
volutamente a
pochi millimetri dalle sue labbra – non che sarebbe mai
riuscito a
incontrarle davvero. Fu lei a colmare la distanza causandogli un
sussulto interiore, con tanta naturalezza da farlo vergognare di aver
dubitato di lei. Non appena sentì le sue labbra allontanarsi
le
seguì d’istinto, prolungando un poco quel breve
contatto che gli
rimescolava i pensieri spingendo sotto la superficie quelli
più
cupi. Avrebbe voluto raggomitolarsi in quei singoli istanti per ore,
mettendo in sospeso tutto ciò che gli impediva di ricercarli
più
spesso.
Quando
interruppe il bacio, fu solo perché sentì il
cuore sul punto di
entrare in fibrillazione, e rimase comunque vicino a lei, chiedendosi
in sottofondo se fosse tutto così facile perché
in quel momento non
era nel pieno controllo di se stesso, o se si trattasse invece del
caso il contrario. Quei pensieri avrebbero finito per farlo impazzire
davvero, anche se aveva il sospetto che gli incubi ci sarebbero
riusciti prima.
Il
ricordo di Pepper fasciata da quel lungo vestito verde di tanti anni
prima fece di nuovo capolino nella sua mente, quasi a rassicurarlo.
Le sorrise appena, suscitando un’espressione confusa sul suo
volto,
impegnata com’era a cercare di decifrare i suoi comportamenti
contraddittori, e spostò lo sguardo sull’oceano
increspato e
delimitato dal serpente di luci che rincorreva la Pacific Highway
sulla costa.
«Ti
ricordi Venezia?» si decise a chiedere, incurante di quanto
suonasse
strana quella domanda.
Poté
quasi percepire nell’aria la perplessità di
Pepper, ma quando
parlò il suo tono rimase neutro, con solo una punta di
curiosità a
ravvivarlo:
«Certo.
Perché?»
Tony
scrollò le spalle, confuso a sua volta, e sfuggì
il suo sguardo
coprendosi poi con la mano il lato sinistro del volto in una tenue
difesa, accusando l'assenza della benda.
«Niente.
Ci sarei voluto tornare,» disse evasivo.
Non
riuscì ad aggiungere altro, né a nascondere il
rimpianto che
trapelò dalla sua voce e che espresse molto più
di quanto avrebbe
voluto. Sentì Pepper irrigidirsi appena e ad accostarsi a
lui come
di riflesso, cogliendo all’istante i sottintesi di
quell’affermazione e le possibilità che escludeva.
«Magari
quest’estate,» la sentì dire poi, a voce
bassa ma ferma, con
quella tenacia che non la abbandonava mai.
Tony
si trovò a stringerla delicatamente a sé,
ignorando ancora le
proteste insensate della sua mente e accogliendo con silenziosa
gratitudine quelle parole, forse banali, forse illusorie, ma dolci
per le sue orecchie. La morsa al petto non si allentò, ma
divenne
sopportabile. Pepper era sempre in grado di riaprire la porta sul
futuro ogni volta che lui la chiudeva.
«Vuoi
rientrare?» le chiese dopo un po’.
Lei
si riscosse dal torpore, sollevando la testa fino ad allora poggiata
sulla sua spalla.
«Tu
vuoi rientrare?»
Tony
considerò per qualche secondo la domanda. Si
trovò a non voler
interrompere quel momento, per quanto una parte di sé
avrebbe
accolto volentieri il rifugio del proprio letto. Dopo
quell’incubo
si sentiva più vulnerabile che mai, come se qualcuno gli
avesse di
nuovo aperto il petto per mettere a nudo non solo il suo cuore, ma
anche tutto ciò di invisibile in cui galleggiava. Ma
c’era solo
Pepper a guardarlo, e non aveva motivo di nascondersi ai suoi occhi,
anche se non era in grado o non voleva esprimersi a parole; non ora,
almeno.
“Forse
domani. Forse quest’estate.”
«Sto
bene qui,» rispose infine, rivolgendole un sorriso mesto e
appena
accennato.
«Anch’io,»
concluse Pepper, tornando a guardare l’oceano buio e
poggiandosi di
nuovo a lui.
Tony
fece lo stesso, seguendo distratto il moto lontano delle onde,
punteggiate da riflessi che gli rievocava ricordi altrettanto
distanti.
"Non
sarebbe un brutto posto per morire," quel pensiero repentino
sfuggì al suo controllo assieme alla lacrima che gli
rigò il volto,
muta e invisibile nella penombra della terrazza.
***
13 Maggio, 4:15, Villa Stark
Forse
non avrebbe dovuto lasciarlo solo.
Pepper
si rigirò ancora nel letto, attorcigliandosi sempre
più nelle
pieghe del lenzuolo esattamente come stava facendo la sua mente coi
pensieri. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo confuso e
sofferente di Tony e le sembrava di non essere riuscita a decifrarlo
del tutto, o forse di non averci provato affatto.
Sapeva
che, quando la cercava in modo così diretto ed esplicito,
seppur
esitante, nascondeva sempre un turbamento più profondo che
metteva
momentaneamente in secondo piano tutto ciò che lo avrebbe
spinto a
ritrarsi in un’altra situazione. Era una presa di coscienza
dolorosa, accompagnata dalla consapevolezza che in ogni gesto che
Tony le rivolgeva, per quanto piccolo, vi fossero una premura e
un’intensità ben percepibile, come se tentasse
sempre di
racchiudervi tutto ciò che poteva nel timore di non poterlo
ripetere. E lei faceva lo stesso, attanagliata da un timore simile
che si diramava però in direzioni più variegate.
Si
chiedeva se, o meglio quanto,
le sarebbe mancato seguire con la punta delle dita il filo diritto
della sua mandibola, o sentire il suo pizzetto pizzicarle la guancia,
o passargli una mano tra le ciocche morbide, o accogliere le sue
labbra calde e ferme con le proprie. Era l’unica stilla di
paura
che la faceva esitare e che a volte bloccava sul nascere un gesto
troppo audace o ne interrompeva uno che avrebbe potuto imprimersi
troppo a fondo nella sua memoria.
Ritornava
comunque troppo spesso col pensiero a quegli attimi
sull’aereo,
quando aveva ceduto a quel bacio trattenuto per mesi; e a quello di
qualche giorno dopo, quando Tony l’aveva infine accettato,
dando
ufficialmente il via a un qualcosa che nessuno dei due sapeva o
voleva definire o etichettare. Da quel momento avevano preso a
orbitare l'uno attorno all'altro in modo quasi inconsapevole, come
due magneti, ma coi poli rivolti troppo spesso dal lato sbagliato che
creavano un'invisibile e tangibile forza repulsiva tra loro.
Riuscivano a contrastarla quel tanto che bastava per ritagliarsi dei
momenti di quieta normalità, ma aveva sempre
l’impressione che
fossero solo pagliuzze rubate a ciò che sarebbe potuto
essere e che
non sarebbe mai stato.
Quella
realizzazione la colpì in profondità, rubandole
il fiato per un
istante. Sapeva che Tony aveva ripreso a lavorare notte e giorno al
nuovo
reattore, esattamente come le aveva promesso, così come
sapeva che
non aveva ottenuto risultati. Gliela leggeva nello sguardo, quella
frustrazione mista ad amarezza che lo coglieva ogni volta che usciva
con passo falsamente baldanzoso dal laboratorio, che pesava in modo
indelebile nelle parole che gli sfuggivano di tanto in tanto, andando
a scoprire le corde sanguinanti che tentava in tutti i modi di
nasconderle; come quella sera. E più ripensava alla
malcelata
sofferenza nel suo sguardo smarrito, alle sue parole malinconiche e a
quel bacio che, piuttosto che un'altra conferma, le era sembrato una
domanda,
più si convinceva che non avrebbe assolutamente
dovuto lasciarlo solo.
Il
singolo fotogramma che tormentava ancora le sue notti, quello della
luce
azzurrina del reattore scissa dal petto del suo proprietario, le
balenò davanti agli occhi in un monito cupo.
Si
era già tirata su di scatto nel letto, quando lo squillo del
suo
cellulare ruppe il silenzio notturno.
***
13 Maggio, 4:15, Villa Stark
Tony
maledisse per l’ennesima volta la propria avventatezza mentre
soffocava un gemito nel cuscino, sforzandosi di controllare gli
spasmi che avevano preso a scuoterlo da capo a piedi. Aveva la netta
percezione di ogni singolo osso e muscolo nel suo corpo, tutti
decisamente doloranti o pervasi da una spiacevole sensazione
gelatinosa. Le protesi erano diventate due tizzoni ardenti premute
sui moncherini.
Sapeva
che porle sotto sforzo in una situazione di stress non era mai una
grande idea, ma non aveva pensato di subire delle ripercussioni
così
violente, probabilmente anche amplificate
dall’intossicazione. Non
si spiegava altrimenti l’emicrania che si era aggiunta al
vasto
assortimento di fitte che gli impediva di chiudere occhio,
né il
respiro fattosi più superficiale e accelerato.
“Respira,
ora ti passa. È normale,” tentò di
convincersi ancora.
Ma
sapeva che non era normale: era il palladio che lo stava uccidendo e
che ci teneva a farglielo presente.
Artigliò
il lenzuolo e affondò le unghie nel materasso sottostante
quando
l’ennesimo crampo gli stritolò le ferite,
spezzandogli il respiro
e facendogli desiderare di poter semplicemente svenire. O di avere i
suoi antidolorifici a portata di mano, ma era quasi con disperazione
che aveva constatato che il tubetto sul comodino era vuoto, e di non
essere assolutamente in grado di alzarsi per recuperarne uno dei
tanti sparsi per tutta la casa.
Gettò
uno sguardo all’orologio e quasi desistette dai suoi intenti,
prima
che i suoi pensieri venissero annebbiati da una nuova ondata di
dolore, convincendolo a mettere da parte orgoglio e sensi di colpa.
Attivò il microfono di JARVIS con uno schiocco di dita e
mormorò
rapido un comando. Pochi istanti dopo sentì il cellulare di
Pepper
squillare ovattato nell'altra camera; gli venne da sorridere appena
contro il cuscino nel riconoscere le prime note di Born
To Run,
troncata dopo soli pochi secondi.
La voce di Pepper
risuonò nell'interfono, stranamente vigile nonostante gli
evidenti
strascichi del sonno appena interrotto. Forse, di nuovo, non era
l’unico a non chiudere occhio.
«Tony?
Che succede?»
«Ho
finito gli antidolorifici,» esordì lui, con voce
sforzata e
saltando i convenevoli. «Ne avrei un discreto
bisogno,» si obbligò
a dire poi, con mal riuscita leggerezza, per poi affondare di nuovo
la faccia nel cuscino per smorzare un respiro traballante.
Ci
fu un breve silenzio dall’altro capo, sinonimo di una
preoccupazione che non avrebbe voluto suscitare.
«Dove
sono?» gli arrivò poi, e captò un
fruscio di lenzuola in
sottofondo mentre già si alzava senza esitazioni.
«In
laboratorio. Non ricordo dove,» troncò un lamento
contro i denti e
sperò che la chiamata fosse finita in tempo per non captarlo.
Sentì
dei passi felpati lungo il corridoio, affrettati; arrivarono di
fronte alla sua porta, s'interruppero brevemente e poi proseguirono,
diretti al piano inferiore.
Tony
cacciò la testa sotto al cuscino, in attesa. Non era certo
la prima
volta che gli capitava di aver bisogno del suo aiuto a orari
improbabili, ma era stato ormai molto tempo fa, prima delle protesi e
soprattutto prima che il loro rapporto scivolasse in territori non
ancora del tutto esplorati. Sentì un persistente velo
d’ansia
posarsi sulle sue spalle, assieme al desiderio soppresso di averla
accanto.
Poco
più di un minuto dopo udì la maniglia che
scattava, e il materasso
si abbassò appena quando Pepper si sedette sulla sponda del
letto.
Non trovò la forza di smuovere il cuscino dalla faccia,
nell'irrazionale convinzione che potesse servire ad attutire almeno
il mal di testa. Riconobbe, ovattato, il rumore del tubetto di
plastica degli antidolorifici che veniva posato sul comodino, seguito
da quello del vetro di un bicchiere. Lui non reagì, timoroso
di
turbare la relativa quiete che si era creata nella sua scatola
cranica. Sentì la sua mano che gli sfiorava la spalla,
delicata,
come a verificare che fosse sveglio.
«Grazie,»
articolò, sempre senza muoversi, con la voce appena udibile
contro
la stoffa.
Un
refolo d'aria più fresca gli sfiorò il volto
quando Pepper scostò
il cuscino; non si ribellò, non ne aveva comunque la forza.
Inquadrò
i suoi occhi stanchi, ma illuminati di apprensione, e pensò
che
avrebbe anche potuto resistere fino al mattino, invece di farla
svegliare di nuovo nel cuore della notte, per altro facendola
spaventare a morte. Cercò di rivolgerle un sorriso
rassicurante, ma
sapeva che non l'avrebbe convinta, soprattutto perché quello
che gli
attraversò il voltò dovette assomigliare
più a uno spasmo.
Apprezzò il fatto che Pepper non avesse iniziato a
tempestarlo di
domande su come si sentisse, facendolo sentire ancora più
sotto
pressione di quanto non fosse.
Si
fece forza e si tirò su sul gomito sano, il volto contratto
in una
maschera sofferente che non riuscì a stemperare. Pepper lo
sorresse,
prendendo atto di quanto fosse provato, e lo aiutò a
poggiarsi
contro la testiera. Gli offrì il bicchiere con la pasticca e
lui la
ingollò a fatica, con la nausea fino ad allora sopita che
tornava a
farsi sentire. Si affrettò a distendersi prima che
peggiorasse, di
nuovo prono e mezzo abbracciato al cuscino, con il volto premuto
contro la federa dal lato cieco in modo da continuare a guardarla.
Pepper
aveva seguito attentamente ogni suo movimento, stavolta senza
intervenire: avevano raggiunto un'intesa piuttosto buona sui momenti
in cui aveva bisogno di aiuto. Colse un istante di esitazione da
parte sua, prima che si mettesse seduta accanto a lui con la schiena
rivolta verso il suo fianco, le ginocchia ripiegate sotto il mento.
Lui
accolse in silenzio quella vicinanza, troppo intento a immaginare che
il medicinale appena assunto prendesse a sciogliere i dolorosi nodi
di tensione che costellavano il suo corpo, ma sapeva che era troppo
presto perché facesse effetto. In compenso, i suoi pensieri
si
stavano facendo sempre più ingarbugliati e poco razionali,
aprendo
la strada a un ventaglio di azioni possibili che di norma non gli
sarebbero mai passate per la testa. Si chiese cosa sarebbe successo
se avesse allungato un braccio a cingere la vita di Pepper,
stringendola e attirandola a sé; si chiese cosa sarebbe
successo se,
invece, avesse chiesto a lei di fare lo stesso; si chiese, ancora,
cosa sarebbe successe se l’avesse cacciata via,
risparmiandole
quello spettacolo pietoso a cui si sentiva obbligata ad assistere. Si
sentiva di nuovo sotto una pressa che lo stritolava, impedendogli di
respirare e acuendo ogni sensazione spiacevole. Percepì in
gola il
retrogusto salino delle lacrime e si sforzò di inghiottirle.
«Pep,
vai a dormire,» mormorò a fatica, senza troppe
speranze di venire
ascoltato.
«Gli
antidolorifici ci metteranno un po' a fare effetto. Aspetto che ti
riaddormenti,» replicò infatti lei, con ferma
naturalezza.
«Non
ce n’è bisogno. Sono abituato,»
s’impuntò lui, lasciandosi
sfuggire suo malgrado un sibilo quando mosse inavvertitamente i
moncherini.
«Io
no,» tagliò corto lei a voce più bassa,
facendolo accigliare.
Non
aveva intenzione di demordere, ma ogni sua protesta fu zittita quando
sentì la mano di Pepper che gli affondava tra i capelli,
prendendo
ad accarezzarli.
«Questo
è un colpo basso,» gli sfuggì in un
mugolio arrendevole,
inclinando involontariamente la testa a seguire quel movimento.
Poté
percepirla sorridere appena anche senza guardarla, e soppresse quella
maledetta vocina che gli urlava senza sosta di sottrarsi, riuscendo a
ridurla a un semplice ronzio di sottofondo, non del tutto ignorabile
ma comunque indistinto. Pepper aveva intuito abbastanza rapidamente
che quella era una sorta di zona franca, per lui molto più
gestibile
dal punto di vista fisico, forse perché per dieci anni era
stato
abituato a farsi sistemare puntualmente i capelli da lei prima di
conferenze o meeting, quando si presentava dopo una notte brava con
un’acconciatura ben poco consona a un incontro formale. Fatto
sta
che quel gesto lo sprofondava in uno stato di beatitudine completa. In
quei momenti Pepper avrebbe potuto chiedergli di dipingere
l’armatura di rosa shocking e avrebbe acconsentito senza
battere
ciglio.
Nessuna
donna gli aveva mai riservato delle carezze così delicate,
che
superavano la sua pelle per arrivare lì, tra il reattore il
cuore,
dove si condensavano in una stretta piacevole e rassicurante che
sembrava guidare i suoi battiti. Si concentrò quindi su
quella
sensazione piacevole, sulle sue dita che gli districavano le ciocche
più lunghe sulla fronte e che sembravano fare lo stesso coi
suoi
pensieri, trovando il capo di ognuno ed evitando che si annodassero
di nuovo tra loro.
Era
comunque raro che Pepper ricercasse quel contatto con lui in modo
così esplicito e prolungato. La solita vocina gli suggeriva
che
fosse per il senso di repulsione istintiva che provava per lui, ma
sapeva, lo sapeva,
che non era altro che un'accortezza nei suoi confronti, proprio per
rispettare quegli spazi che faticava così tanto a
concederle.
Riusciva a superare quei limiti autoimposti solo nei momenti in cui
le sue difese erano troppo fiacche per essere efficienti; e in quei
casi, Pepper si insinuava con la consueta discrezione tra le
falle, cercando di aiutarlo a sanarle dall’interno.
Sospirò
appena, gettando fuori una minima parte della marea di pensieri che
minacciava di affogarlo e lasciando che fosse il tocco di Pepper ad
avvolgerlo al loro posto. Oltre a quella sottile protezione sentiva
ancora l'ombra della paura premere su di lui, nonostante l'incubo
fosse finito da un pezzo e il suo ultimo ricordo materiale giacesse
sul fondo del mare. Sentì comunque il suo corpo rilassarsi a
poco a
poco a quelle carezze, inibito dall’antidolorifico che stava
lentamente agendo, e senza accorgersene si trovò a fluttuare
verso
un piacevole dormiveglia. Fece appena in tempo a chiudere la
palpebra, che due feroci occhi azzurrini si spalancarono davanti a
lui. Si destò con un lieve sussulto, contraendo i muscoli in
uno
spasmo e trattenendo bruscamente il respiro.
«Tony?»
la voce allarmata ma limpida di Pepper lo raggiunse, strappandolo del
tutto all’incubo.
«Sto
bene,» annaspò, di nuovo con l’orrenda
sensazione di avere
dell’acqua salmastra nei polmoni.
Percepì
Pepper chinarsi appena su di lui e continuò a tenere il
volto
affondato nel cuscino, sia per nascondere lo sfregio, sia per evitare
i suoi occhi.
«Davvero?»
gli chiese, con un evidente sottotono retorico.
Tony
rimase in silenzio, frenando l’istinto di mentirle di nuovo
mentre
la propria attenzione era orientata da tutt’altra parte:
avrebbe
solo voluto che lei riprendesse ad accarezzargli i capelli, ma la sua
mano si era invece spostata al centro delle sue spalle, leggera, ma
fin troppo vicina al punto in cui la protesi del braccio si ancorava
alla pelle. Sentì il cuore schizzargli nel petto al solo
pensiero
che sfiorasse per sbaglio le ferite, e si irrigidì
dolorosamente.
Pepper sembrò intuire il problema, perché
interruppe il contatto,
lasciando solo l’orma del suo calore a lambire il metallo.
«No,»
rispose infine lui, con un filo di voce che si sforzò di
mantenere
stabile.
Pepper
incassò in silenzio quella risposta, forse sorpresa dalla
sua
schiettezza.
«È
per questo che prima sei uscito?» indovinò senza
troppo sforzo.
«Mi
serviva una boccata d’aria,» replicò
lui, di nuovo evasivo, di
nuovo assediato dalle immagini che non riusciva più ad
arginare, di
nuovo incapace di muoversi e paralizzato dal dolore come lo era stato
su quel tetto. «Tu perché eri sveglia?»
si affrettò a chiedere
prima di venire sopraffatto, sentendosi comunque meschino nel
rivoltare a quel modo la discussione.
«Avevo
troppi pensieri,» rispose lei, senza ritrarsi, e Tony
assorbì
quella che in effetti non era una novità, sebbene non fosse
mai
stata espressa ad alta voce.
«Ne
vuoi parlare?» le propose di getto, e quasi si
stupì di quanto
quelle parole gli fossero venute naturali, nonostante tutto il
coacervo di pensieri e sensazioni che lo assillava in quel momento.
«Non
c’è molto da dire,» svicolò
lei, con un lieve tremito che la
tradì nell’alzare appena le spalle esili, in un
gesto al contempo
rassegnato e noncurante.
«Guarda
che sono un ottimo ascoltatore, quando non sono occupato a parlare di
me stesso,» insistette, usando un tono lievemente scherzoso
per
farle capire che non aveva intenzione di pressarla.
Inclinò
appena il volto per guardarla, seduta lì accanto col profilo
delicato appena visibile nella penombra della camera, le mani strette
sotto le ginocchia a tenerle piegate. Sembrava ancora più
esile di
quanto non fosse, così rannicchiata. Tony passò
in rassegna almeno
una dozzina di approcci tinti da sfumature d’ironia
più o meno
intense per invogliarla a parlare, solo per lasciarsi sfuggire un
profondo, inutile sospiro che prolungò il silenzio.
«Ho
paura. Ma lo sai già,» affermò infine
lei, come se fosse incapace
di trattenersi oltre e allo stesso tempo di aggiungere altro.
Tony
non rispose. Non credeva di poter scacciare delle paure che lui
stesso non riusciva a controllare. Si limitò a girarsi
cautamente su
un fianco per stringersi a lei, quel tanto che bastava per permettere
a entrambi di percepire il calore dell’altro; la
sentì poggiare
cautamente la schiena contro il suo addome, in una silenziosa
ricerca di vicinanza e conforto, la stessa che lui non riusciva quasi
mai ad esternare. Riusciva a sentirla respirare, un movimento lieve a
cui si adeguò d’istinto, sentendolo quasi come
proprio.
«Ho
avuto un incubo,» le confessò infine, a voce
bassa. «Anche se
forse era un dramma in tre atti, o qualcosa del genere,»
minimizzò,
con incerta leggerezza.
Ci
fu una pausa che sembrò addensarsi tra loro.
«E
cosa hai sognato?» dal suo tono intuì che aveva
avuto timore di
chiederlo.
«Molte
repliche, un Transformer mal riuscito e una rivisitazione del Re
Leone,»
sciorinò lui, più spigliato.
Udì
Pepper sbuffare, forse il principio di una risatina.
«Se
non ne vuoi parlare, non devi,» lo rassicurò,
senza alcuna traccia
di rimprovero.
Tony
sbuffò di rimando contro il cuscino, in cerca di un modo in
cui
poterle raccontare ciò che aveva sognato. O meglio, vissuto
di
nuovo. Avrebbe potuto parlarle dello scontro in modo pragmatico,
senza sprecarsi in sentimentalismi inutili, o avrebbe potuto dirle
quanto fosse stato sollevato di saperla al sicuro nonostante la sua
situazione disperata, o avrebbe potuto confessarle
quell’istante di
stolta compassione che l’aveva condannato per sempre. Un
punto
valeva l’altro, ma si trovò a scegliere
l’unico che contasse
veramente:
«Non
è colpa tua,» esordì, cercando il suo
sguardo.
Lei
lo incontrò, gli occhi chiari appena visibili nella
penombra. Riuscì
comunque a leggervi la sorpresa, assieme a un velo
d’apprensione
nel modo in cui tirò impercettibilmente le labbra.
«Cosa?»
tentennò lei, senza nascondere la tensione del riuscire
già ad
immaginare la risposta.
«Quello
che mi è successo,» chiarì Tony,
parlando con lenta cautela,
consapevole di stare toccando un tema molto sensibile e in sospeso da
più di un anno.
Lei
infatti sviò subito il suo sguardo, puntandolo in basso; si
passò
nervosamente le mani lungo le gambe, per poi prendere a torcersi le
dita nella sua consueta esternazione ansiosa.
«Non
che prima avessi alcun dubbio,» si affrettò ad
aggiungere Tony,
sempre con voce pacata. «Ma adesso ho le prove
incontestabili,
sempre che ti fidi del mio inconscio e della mia memoria
rediviva,»
concluse senza mai distogliere lo sguardo, come se ciò
potesse dare
più spessore alle sue parole.
Pepper
non sembrò affatto tranquillizzata e non smise di
tormentarsi le
mani.
«Cosa
hai ricordato?» gli chiese, a metà tra lo
speranzoso e
l’angosciato.
«Ho
sognato l'incidente,» disse lui, vacillando appena nel
parlare. «Non
è la prima volta, ma sono sempre stati sogni confusi o
assurdi…»
s’interruppe, cercando di distogliersi dal dolore ai
moncherini che
era tornato a farsi sentire con più insistenza, quasi in
reazione
all’argomento. «Stavolta c’erano troppi
dettagli, e li ricordo
ancora tutti. Non era solo un sogno,» concluse, con decisione.
Sentì
Pepper agitarsi sul posto, con le mani ora strette attorno alle
caviglie sottili e il mento incuneato tra le ginocchia; i capelli
lisci e appena arricciati sulle punte le schermavano il volto in una
cortina ramata, impedendogli di vedere la sua espressione.
«Anch’io
ricordo cosa è successo quel giorno,»
mormorò infine, atona. «E
lo so che vuoi rassicurarmi, ma io ho
concretamente avuto un ruolo in quello che ti–»
«No,
Pep, stammi a sentire,» la interruppe lui, con improvvisa
veemenza,
e fece perno sui gomiti per sollevarsi, ignorando le fitte lancinanti
che lo colpirono senza però farlo desistere dal suo intento.
«Tony,
non sforzarti,» si allarmò lei, girandosi rapida
verso di lui e
provando a farlo distendere di nuovo.
Premette
d’istinto una mano contro il suo petto e lui
sobbalzò appena, ma
non si lasciò arrestare e contrastò senza fatica
quella leggera
pressione, mettendosi così seduto a fronteggiarla, col cuore
a mille
e un affanno malcelato. Pepper
lo fissava con occhi resi enormi dalla preoccupazione, le mani ora
serrate tra loro in grembo come se non sapesse cosa farsene; Tony vi
insinuò la sua, rompendo quella morsa e che si
trasferì subito alle
sue dita. Convogliò tutta la sua forza di volontà
nel mettere di
nuovo a tacere quell’insidiosa vocina che gli suggeriva
quanto
potesse essere sgradita per lei quell’improvvisa vicinanza.
Il
fatto che la flebile luminescenza azzurrina del reattore fosse adesso
l’unica fonte di luce non lo aiutava a gestire meglio la
situazione.
«Tutto
ciò che ho… che ho perso...»
Si obbligò a deglutire il blocco d’ansia che gli
aveva ostruito la
gola, cercando di non fargli pronunciare ad alta voce quei dettagli
che sembravano ancora straziarlo fisicamente.
«Questa,» ricominciò,
e batté piano le nocche metalliche sul rivestimento della
protesi
inferiore, «non so esattamente come sia successo…
il mio database
ha ancora qualche lacuna.»
Offrì
un lieve, stentato sorrisetto di scuse, puntando lo sguardo sulle
giunture della protesi, e captò quello di Pepper farsi
attento e
addolorato assieme, realizzando ciò che si stava apprestando
a
raccontarle.
«Comunque,
è successo molto prima che tu intervenissi,»
esitò per una
frazione di secondo. «L’ho detto anche a te, che mi
ero rotto la
gamba… ti ricordi?» tentò, non volendo
in realtà risvegliare
quelle immagini anche nella sua testa, ma pensando allo stesso tempo
che fosse l’unico modo per farle credere che quei fatti
fossero
reali, non solo un parto onirico del suo inconscio.
Lei
annuì rapida ad occhi bassi, stringendo di più la
sua mano,
passando le dita sulle linee del suo palmo e seguendo i calletti che
gli segnavano i polpastrelli, quasi a distrarsi da ciò che
stava
sentendo.
«Avevo
già chiamato i soccorsi. Pensavo che fosse
finita,» disse poi,
appena udibile.
Tony
tacque per un po’, con lo scontro che si svolgeva di nuovo
davanti
ai suoi occhi, incluso tutto ciò che avrebbe potuto fare per
evitare
di finire su quel letto d’ospedale. In un modo, o
nell’altro. Il
pensiero gli ghiacciò le vene, come sempre quando si trovava
a
considerare anche solo lontanamente l’idea di una morte
volontaria.
Riprese a parlare, concentrandosi unicamente su quello che stava
dicendo.
«Anche
questo,» accennò in modo impercettibile al proprio
viso, esponendo
comunque il lato intatto, «è successo prima che tu
sovraccaricassi
il reattore. Un proiettile vagante,» fornì come
unica, laconica
spiegazione.
Non
riuscì a entrare più nel dettaglio, né
Pepper sembrò incline a
insistere. La sua unica reazione fu quella di accostarsi un poco a
lui, portandosi sensibilmente dal lato sano del suo volto per
evitargli di tenere la testa girata. Le fu grato per
quell'accortezza. Poteva fare i conti con un paio di arti di metallo,
facilmente nascondibili e comunque non così ripugnanti
finché i
punti di giunzione rimanevano coperti, ma quello che portava in
faccia era un manifesto della sua sconfitta, e non sarebbe mai
riuscito ad accettarlo come parte di sé. Aveva davvero
provato a
rinunciare alla benda, ma era come essere costantemente nudo per
metà. Anche
adesso apprezzava la premura di Pepper, nonostante non fosse del
tutto certo che fosse per puro riguardo verso di lui o se dietro vi
fosse una sua reticenza nel vedere lo sfregio che lo deturpava.
Sbuffò
piano dal naso, iniziando ad accusare la stanchezza causata dal suo
corpo ormai in fiamme e da pensieri altrettanto brucianti.
«E
il braccio…» ricominciò infine, solo
per interrompersi,
rendendosi conto che gli era mancata l’aria nel parlare.
Poté
quasi sentire Pepper trattenere a sua volta il respiro, forse
pensando che l’avesse colpito una qualche illuminazione, un
ricordo
nascosto in un vicolo cieco della sua coscienza che smentisse tutto
ciò che aveva detto finora, rendendola responsabile
dell’accaduto.
La rassicurò stringendole le mani, mentre cercava di
recuperare la
voce, inutilmente.
«Tu
non c’entri,» riuscì a dire,
energicamente. «Neanche con questo,
è solo… accaduto troppo in fretta. Un momento era
lì, quello
dopo…» inceppò sulla sua stessa lingua,
mangiandosi le parole.
«Non me ne sono neanche accorto,» mentì,
chiudendo
involontariamente il pugno metallico in una morsa e sentendosi
furioso con se stesso. «Te l’ho già
detto, è merito
tuo se sono qui, anche se non mi vuoi credere.»
Lei
scosse la testa, scoraggiata, facendo fremere i capelli che le
incorniciavano il volto.
«Non
è così semplice,» replicò,
per poi bloccarsi prima di poter
continuare e rivolgergli uno sguardo smarrito, ma anche
improvvisamente consapevole.
«No,
non lo è,» mormorò lui, con un quieto
misto di sorpresa e sollievo
nel sentire l’eco involontario delle proprie stesse parole.
«Non
riesco a cambiare idea da un momento all’altro solo
perché lo dici
tu, anche se vorrei,» continuò poi lei con
più impeto, quasi a
volersi giustificare o difendere, e Tony le impedì di
iniziare a
gesticolare affannata, trattenendole gentilmente le mani nella
propria.
«Pepper
lo so.
So quanto è difficile
accettare
quello che ti dicono gli altri e credere che sia vero e che lo
pensino davvero. Fidati dell’esperto,»
continuò, sorridendole
appena con un velo di mestizia.
Trattenne
momentaneamente quello che stava per dirle solo per lasciare che
anche le sue labbra si incurvassero in poco più di
un’intenzione
di sorriso, che distese comunque i suoi lineamenti fino ad allora
corrucciati. Annuì, a prendere atto delle sue parole, per
poi
guardarlo, intuendo chissà come che non le aveva ancora
detto tutto.
Lui sospirò appena prima di parlare:
«Non
voglio
che tu viva col peso della mia morte sulla coscienza,»
riuscì a
dire, e la vide sussultare nonostante lo strato di dolcezza in cui
aveva cercato di incartare quelle parole, comunque troppo spigolose
per non lacerarlo.
«Non
accadrà,» ribatté subito lei,
ribattendo però a un’altra
affermazione e guardandolo con la fiera ostinazione di chi si pone a
strenua difesa di un ultimo baluardo.
Tony
non rispose, ma districò la mano dalle sue e la
usò per guidarla
verso di lui, cingendola in un mezzo abbraccio spontaneo e quasi
impalpabile in cui lei si adagiò con esitante sorpresa.
«Non
è colpa tua,» le ripeté ancora, con la
voce che le sfiorava
l’orecchio.
Si rifugiò a sua volta in quella parentesi di
quiete,
nonostante la tensione latente di sentir rispuntare d’un
tratto
quella vocina maligna che gli avrebbe intimato di sottrarsi.
«E sono
qui apposta per ripetertelo e romperti le scatole finché non
ci
crederai, come fai tu con me. Il minimo che possa fare è
ricambiare
il favore, no?» aggiunse, in un guizzo d'autoironia.
La
sentì sorridere appena, per poi quasi sciogliersi contro di
lui,
aspirando a fondo. Non disse una sola parola, ma Tony poteva
percepire fisicamente il sollievo che si irradiava da lei, come se
avesse infine lasciato cadere un peso a cui si era ormai abituata e i
suoi muscoli si fossero rilassati di colpo, tremanti e finalmente
consci di tutta la stanchezza accumulata. Anche lui si
rilassò,
abbandonando la tensione che gli aveva stretto i muscoli fino ad
allora e smorzando così i crampi che non gli davano tregua.
Si
concesse di perdersi ancora per qualche secondo nel profumo di Pepper
prima di scostare leggermente il volto da lei, ma continuò a
tenerla
stretta a sé nel rendersi conto che la sua ansia sembra
essersi
sopita, almeno in parte. Forse era la spossatezza, forse il semplice
fatto di essersi avvicinati gradualmente, lasciandogli tempo di
prendere coscienza del suo corpo così com’era,
senza quelle
zavorre che lo trascinavano costantemente sul fondo; forse quello di
stare davvero
migliorando in quel senso, e di aver compiuto qualche passo avanti.
Non spese troppo tempo a rimuginarci, preferendo godere appieno di
quegli attimi preziosi che doveva sempre conquistarsi.
«Ha
sonno, signorina Potts?» la prese in giro dopo un
po’, notando che
il suo respiro si era fatto più profondo e cadenzato mentre
si abbandonava pian piano tra le sue braccia.
«No,» si riscosse lei, con voce un po’
impastata.
«Mente
in modo pessimo, per essere stata la mia assistente,» le fece
notare, con un mezzo sorriso furbetto.
«Penso
di poter perdere qualche ora di sonno per lei.»
A
quelle parole Tony cercò di soffocare un verso strozzato, ma
ogni
tentativo di contenersi fallì miseramente e
sfociò in una risatina
asfittica che scosse entrambi, suscitando l’estrema
perplessità
della donna.
«Che
c'è di divertente?» chiese spaesata, scostandosi
da lui e
corrugando le sopracciglia.
«Se
te lo dico, mi ammazzi,» sogghignò ancora lui, ora
senza fiato, con
qualche stilettata qua e là che tentava di ricordargli
quanto fosse
malmesso in quel momento.
Pepper
alzò gli occhi al cielo, ma sorrise, contagiata dal suo
inatteso
scoppio d’ilarità.
«Tieniti
pure i tuoi segreti, allora,» lo punzecchiò senza
rancore, per poi
accigliarsi quando Tony fece suo malgrado una smorfia sofferente,
piegandosi in avanti. «Tony? Stavo scher–»
«Il
mio senso dell’umorismo funziona ancora,» la
rassicurò lui. «Il
resto non tanto. Ho bisogno di una pausa,» si costrinse a
dire,
sciogliendo l’abbraccio e sdraiandosi con cautela,
lasciandosi
accompagnare nel movimento da Pepper.
«Meglio?»
gli chiese, dopo che si fu accomodato prono, con la faccia di nuovo
affondata nel cuscino.
Tony
bofonchiò una risposta affermativa, tirando un respiro
tremolante
nella consapevolezza che quella notte non sarebbe mai riuscito a
dormire e che, per quanto si sentisse egoista, non voleva comunque
passarla da solo, né in silenzio.
«Pep?»
chiamò piano, con voce ovattata, e la sentì
girarsi verso di lui,
in ascolto. «Ho ricordato anche altre cose,» disse,
in tono spento.
«Di
che tipo?» chiese lei, chiaramente presa in contropiede dalla
sua
loquacità notturna.
«Del
tipo di cui avrei fatto a meno,» temporeggiò,
senza però alcuna
intenzione di sottrarsi all’argomento.
Il
profondo stato di confusione in cui si era svegliato tornò a
farsi
sentire, spingendolo alla deriva. Esitò ancora, prima
di
riprendere a parlare.
«È
colpa mia, se ho perso il braccio,» buttò fuori in
un sol fiato, e
dirlo gli causò un tale spaesamento da fargli credere di
essere da
tutt’altra parte; forse su un tetto distrutto, o in una
grotta
buia, o in un obitorio gelido.
«Tony?
Che stai dicendo?» lo sbigottimento di Pepper era quasi
tangibile.
Probabilmente
credeva che stesse delirando, e forse non aveva torto.
«Ho
cercato di aiutare Stane,» cercò di spiegare,
senza alcun controllo
sui suoi pensieri e sul modo in cui si tramutavano in parole.
Vide
Pepper fare tanto d’occhi, sgomenta di fronte a quella
confessione.
«Stava
cadendo, l’ho afferrato e lui ha cercato di trascinarmi con
sé,»
s’interruppe, col respiro ora irregolare. «Non ci
è riuscito solo
perché mi sono incastrato, ma lui non mi ha mollato,
non…» il
rumore rivoltante del suo braccio che cedeva di schianto gli
riempì
la testa, e premette la bocca contro la federa, impedendosi di
continuare e tramutare quei suoni in immagini.
La
mano di Pepper tornò a sfiorargli i capelli, silenziosa ma
rassicurante. Tesa, anche, turbata da quei ricordi che le aveva
appena trasferito.
«Non
so perché l’ho fatto,» riprese poi,
frastornato. «Ma non l’ho
ucciso io,» commentò poi, senza capire neanche lui
se con rammarico
o sollievo.
«Ti
dispiace che sia morto?» chiese Pepper, con quello che
assomigliava
a incredula disapprovazione.
«No,»
replicò subito lui, senza neanche doverci riflettere, con la
rabbia
che gli pungeva le viscere, lasciandogli però un sapore
amaro in
bocca. «Mi ha rovinato la vita. Se fosse sopravvissuto, avrei
probabilmente finito per ucciderlo davvero,»
continuò, a fugare
ogni possibile dubbio, mentre i pensieri che aveva avuto durante lo
scontro gli si ripresentavano davanti, violenti e brutali.
«Però?»
Pepper gli offrì la deviazione di cui aveva bisogno, e la
imboccò
con sollievo anche se a tentoni, senza alcuna idea di dove
l’avrebbe
portato.
«Non
lo so. Non ci capisco più niente, non so neanche
perché me ne
freghi così tanto o perché debba rimanere sveglio
a pensarci,»
sbottò con improvvisa frustrazione, stringendo i denti per
la
protesta dei moncherini a quel lieve sussulto.
Mentì
solo in parte: non aveva davvero idea di come esternare a parole quel
conflitto che si era scatenato dentro di sé e che si
ostinava a
sovrapporre il robottino rosso con la morsa crudele di Iron Monger.
«Era
qualcuno di cui ti fidavi,» intervenne Pepper, cautamente,
senza
rompere il contatto con lui e accompagnando le proprie parole alle
carezze che aveva ripreso a fargli. «Un socio, un amico tuo e
di tuo
padre… è normale sentirsi traditi, ed
è normale che ti chieda
perché sia successo,» concluse, usando la sua
consueta logica
ferrea e suonando allo stesso tempo impotente.
Aveva
ragione, su tutto, ma ciò non quietava il maremoto in corso
dentro
di lui, impegnato com'era ad arrovellarsi su quei decenni di fiducia
evidentemente fasulla, e poi su quei tre mesi in una grotta che li
faceva sgretolare come sabbia al vento, e ancora su quella
mezz’ora
di scontro che li spazzava via del tutto. Cercava una connessione, un
filo rosso, un qualcosa che giustificasse il tutto. Ma quando
guardava indietro, incontrava solo lo sguardo severo di suo padre che
gli diceva di non perdere tempo.
«C'è
stato un periodo in cui chiamavo Stane "zio Obie",»
esordì
stancamente, col solo desiderio di poter gettar fuori i pezzi di quel
puzzle destinato a rimanere irrisolto per poter finalmente chiudere
gli occhi e dormire.
Sentì
le dita di Pepper stringergli i capelli, sorpresa dalla piega che
aveva preso la discussione.
«All’epoca
ne capivo più di robotica che di parentele. Fu mia madre a
spiegarmi
che non era davvero mio zio... anche se non era facile farmi cambiare
idea,» aggiunse, divertito.
«Ah,
davvero?» commentò ironica Pepper, ma piano, come
se temesse di
dire qualcosa di sbagliato.
Tony
accennò un sorrisino che parve rassicurarla.
«Sono
migliorato, credimi. La facevo impazzire,» disse, prima di
farsi di
nuovo serio. «Stane non le è mai
piaciuto,» rifletté, riprendendo
il discorso e arricciando il lenzuolo tra le dita metalliche.
«Ho
fatto un errore stupido e ne ho pagato il prezzo,» concluse
poi con
durezza.
Gli
tornò davanti il ricordo di quel piccolo regalo adesso
affondato nel
Pacifico, di Stane che glielo porgeva e di come sua madre avesse
tenuto le mani sulle sue spalle come a proteggerlo discretamente,
forse seguendo un qualche istinto innato. Lui allora aveva percepito
solo affetto da entrambe le parti, racchiuso in un robottino rosso e
nell’abbraccio materno, troppo piccolo per comprendere le
dinamiche
degli adulti, ma abbastanza grande da accorgersi dell’enorme
vuoto
che lo separava da suo padre, una sagoma fissa sullo sfondo della sua
vita. Quando pensava a lui, la prima immagine che emergeva era quella
della sua schiena, delle spalle diritte e contornate dalla linea
austera di un completo scuro.
Stane
era stato un rimpiazzo, così come Jarvis: assolutamente
insufficiente a colmare il vuoto, ma comunque abbastanza per riuscire
a ignorarlo o per gettare un ponte pericolante che a volte lo
superasse.
Rimase
in silenzio per un po', abbandonandosi alle carezze delicate e
incoraggianti di Pepper. Normalmente
non si sarebbe mai sognato di parlare in modo così aperto di
certe
cose. Aveva preferito rinchiuderle in uno stanzino della sua mente,
così come aveva sigillato molti dei suoi ricordi materiali
dietro la
vecchia porta al piano terra. Anche se, più che uno
stanzino, quella
nella sua mente era una camera blindata a tenuta stagna, di cui aveva
rafforzato sempre più le difese. Ultimamente,
però,
si era sentito
sempre più incline a rimuovere un lucchetto e una serratura
dietro
l'altra, arrivando a mettere di nuovo piede in quel caveau
e scoprendo di avere molte, troppe cose da mettere in ordine prima
che fosse troppo tardi. E Pepper era l’unica che riuscisse ad
aiutarlo in quel compito gravoso. Poteva quasi sentire la voce
burberamente soddisfatta di Ian bofonchiare l’ennesimo
"gliel'avevo
detto".
«Tony,»
lo riscosse Pepper dopo un po' e in modo più acceso, come se
avesse
cercato di trattenere ciò che stava per dire senza
però riuscirci.
«Capisco che tu ti penta di aver provato
a salvare Stane, viste le conseguenze.»
Prese un breve
respiro prima di continuare, tenendolo in sospeso.
«Ma non dovresti
pentirti di aver voluto
salvarlo,» concluse, altrettanto rapidamente.
Tony
provò a riflettere su quelle parole, ma rinunciò
dopo appena
qualche istante, logorato dal mal di testa e dalla rabbia repressa
che aveva ripreso a scuoterlo.
«È
la stessa cosa,» replicò asciutto. «Il
risultato non cambia.»
«Non
sto dicendo...» Pepper si interruppe, con un sospiro
frustrato.
«Tony, se potessi tornare indietro ti impedirei a tutti i
costi di
farlo... ma probabilmente ti impedirei anche di continuare ad essere
Iron Man,» sbottò, e Tony sentì la sua
mano contrarsi, tirandogli
appena le ciocche come se volesse trattenerlo anche adesso.
«Il
punto è che sei fatto così. Non riesci
semplicemente a tirarti
indietro o a lasciare che gli eventi facciano il loro corso se puoi
scegliere
di fare la cosa giusta,» continuò, con
una tale,
cristallina convinzione che Tony non poté fare altro che
guardarla
vacuamente, muto e allo stesso tempo sentendosi riempito da quelle
parole.
«Non
sono sempre
stato così,» replicò infine, con voce
debole. «Non ero poi tanto
diverso da Stane,» aggiunse, con la consapevolezza latente
che,
considerato tutto il dolore che aveva provocato, quel contrappasso
che aveva subìto era meritato e fin troppo clemente.
«Tony.»
Pepper si chinò su di lui, accostandosi al suo volto e
catturando il
suo sguardo.
«Non osare
paragonarti a lui. Sei un uomo migliore di quanto lui sia mai stato e
sicuramente migliore di quanto credi.»
Lui
incrociò con sorpresa i suoi occhi azzurri, trovandoli
incolleriti
di fronte alla sua affermazione detta a cuor leggero.
«Non
appena hai scoperto cosa stessero facendo davvero con le tue armi hai
cercato di rimediare, ignorando chiunque ti dicesse che era una
follia, inclusa me e Rhodey. Era quella
la cosa la cosa giusta da fare, anche se noi non riuscivamo a
capirlo.»
Lui
scosse la testa, rintanandosi più a fondo col viso nel
cuscino.
«L’ho
fatto solo grazie ad Iron Man… se non fossi–»
«L’hai
fatto perché volevi
farlo,» ribadì lei, senza cedere.
«Ciò non cambia che tu prima abbia
sbagliato, e noi con te,» aggiunse con palpabile rimorso.
«Ma hai
anche deciso di offrire al mondo molto di più di cose che
esplodono.
Non è per questo che hai creato Iron Man?» lo
incalzò poi,
rimanendo ancora a un soffio dal suo volto.
«L'ho
creato per scappare e sopravvivere,» la smentì
lui, pragmatico.
«Non ti conviene farmi così eroico,»
aggiunse, stemperando le sue
parole con un mezzo sorriso non così sicuro di sé
come avrebbe
voluto.
«L'avrai
anche creato per quello, ma nessuno ti ha costretto ad esserlo per
tutta la vita,» lo rimbeccò lei, prontamente e con
un guizzo di
vittoria negli occhi.
Stavolta
Tony ammutolì, sfuggendoli.
«Ho
fatto una promessa,» esalò dopo un po',
socchiudendo la palpebra
per schermarsi dal suo sguardo vicino e penetrante, che per un attimo
si era sovrapposto a uno altrettanto acuto e azzurro. «Non
solo a
te... ho il brutto vizio di parlare a vanvera, a quanto
pare,»
specificò, stringendo appena la federa del cuscino tra le
dita
mentre si lasciava sfuggire un sorriso amaro.
«Cosa
hai promesso?» gli chiese lei, evitando col consueto, innato
tatto
di chiedere a chi l'avesse fatta.
«Di
non sprecare la mia vita,» mormorò, senza curarsi
di nascondere il
tremito che scosse quella frase. «E probabilmente non
riuscirò a
mantenere né questa, né quella che ho fatto a te.
Ma te l’ho
detto: ci sto provando,» concluse, obbligandosi a guardarla
di nuovo
con tutta la fermezza che gli riuscì di recuperare.
«Lo
so,» rispose semplicemente lei, prima di posargli un leggero
e
inaspettato bacio sulle labbra facendogli distintamente mancare un
battito.
Pepper
recuperò subito distanza, tornando seduta nella posizione di
poco
prima e riprendendo a giocherellare coi suoi capelli con la massima
naturalezza; Tony sospirò appena, con l'impressione di
respirare più
liberamente e di avere almeno la metà dei pensieri a
vorticare nella
sua testa. La
sagoma del robottino rosso sprofondò lentamente sul fondo
dei suoi
ricordi, così come l'oggetto materiale tra le onde
dell'oceano.
Sarebbe riemerso, era inevitabile, ma almeno avrebbe cessato di
essere l'estremità di un filo ingarbugliato che forse non
era così
importante districare.
Finalmente,
riuscì a chiudere l'occhio e riuscì a lambire il
margine del sonno,
cullato dal tocco di Pepper.
«Vuoi
che rimanga?» gli arrivò da lontano, da oltre la
soglia che aveva
appena oltrepassato.
Il
suo cuore mancò un altro battito, ma non si mosse,
né parlò. Quel
filo, quello teso tra loro, era molto più importante di
qualunque altro.
Di nuovo,
gli
sembrò che fosse la voce scontrosa di suo padre a riempire
il
silenzio.
“Che
cosa stai facendo?”
Stava
aspettando. Aspettare era stato un modo per credere che ci sarebbe
stato un momento migliore di quello. Per tutto, per un
“loro”.
Adesso rischiavano di non avere più alcun momento.
Si
stava spegnendo a poco a poco divorato dal palladio, dai rimpianti e
dai rimorsi che cercava di attenuare sempre più giorno dopo
giorno.
Sapeva di aver imboccato la strada giusta, e di aver compiuto
progressi non trascurabili. Ma non era abbastanza, nonostante si
sentisse più vivo e completo che mai e nonostante sapesse di
aver
portato a termine molto più di quanto chiunque avrebbe
potuto
immaginare. Non era mai
abbastanza. E forse
avrebbe dovuto smettere di voler fare di più di
così e
accettare che ci fossero anche dei limiti non imposti da lui stesso.
Continuò
a fingere di dormire e lei ad accarezzargli i capelli come una brezza
leggera, trascinandolo sempre più vicino al dormiveglia.
«Stai
mantenendo entrambe le promesse,» credette di sentirla dire
sottovoce, prima che gli arricciasse un'ultima volta le ciocche sulla
fronte tra le dita e ritraesse senza fretta la mano, indugiando poi
sulla
nuca e sulla base del collo, a voler prolungare quella carezza.
Gli
sfuggì un respiro più profondo, che non seppe
ricondurre con
sicurezza alle parole o al gesto, ma che gli svuotò ancora
un po' i
polmoni, allentando la rete plumbea che li stringeva.
“Forse
domani.”
Quel
pensiero navigò sulla superficie della sua mente,
lasciando una
scia d’aspettativa dietro di sé.
Percepì Pepper che si alzava
alzarsi ai margini della sua coscienza, e quando la serratura della
porta scattò galleggiava già nel dormiveglia. Il
calore delle sue
labbra aleggiò ancora a lungo sulle proprie.
"Domani,"
stabilì tranquillo, scostando appena il velo del sonno per
poi
richiuderlo con delicatezza.
Aveva
molte cose da fare, ed era l'ultima volta che rimandava.
Buonsalve a tutti e Buon Anno Nuovo! :D
Miracolosamente, arrivo quasi in orario, cosa che in realtà non mi sarei mai aspettata, vista l'osticità del capitolo. E sì, Knockin' on Heaven's door, perché Stairway to Heaven era troppo scontata, dopo lo scorso capitolo :P
Voilà, l'ennesimo notturno condito con Pepperony tutto per voi <3 Ammetto che questo è stato un capitolo un po' "cercato", per soddisfare sia la mia vena angst che quella fluff, e spero che vi riterrete soddisfatti di entrambe anche voi :)
Vi sono delle ambiguità studiate, molti richiami a capitoli precedenti non sempre esplicitati e una precisa volontà di rendere contraddittori e vaganti i pensieri di Tony, soprattutto sul "tema-Stane". Sono curiosa di sentire i vostri commenti, opinioni e interpretazioni in merito :) (e riguardo al tutto, il testo della canzone dell'intro gioca un ruolo di discreto rilievo).
Detto ciò, sono veramente al settimo cielo per aver "raccolto" così tanti nuovi lettori e persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, ricordate o preferite <3 Un grazie va quindi a St4rk_y, Emyclarinet (grazie per la "doppietta!"), _Atlas_, e T612 per aver recensito lo scorso capitolo e a Flavia_14 e Sissi Malfoy Black per aver recensito quello precedente :) Un grazie speciale a shilyss per aver iniziato a leggere e recensire addirittura dal primo capitolo, facendomi una bellissima sorpresa <3
Spero di aggiornare in tempi umani, ma non penso di riuscire a pubblicare prima di febbraio causa sessione, quindi purtroppo la pacchia è finita :')
Hasta la vista e vi auguro un buon ingresso nel 2019 :D
-Light-
P.S. Il vestito coi fiordalisi di Maria è un blando rimando alla mia one-shot Sonata n°5 «Primavera» (o anche: I Love Rock 'n' Roll).
P.P.S. Il "robottino rosso" è, nello specifico, Robby The Robot, ovvero codesto orrore. Tanto per ribadire il cattivo gusto di Obie.
EDIT: Ringrazio infinitamente la mia carissima Matilde per questo disegno meraviglioso ispirato al capitolo <3