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Autore: ___MoonLight    10/01/2019    4 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Knockin' on Heaven's door




"Confusion will be my epitaph
As I crawl a cracked and broken path
If we make it, we can all sit back and laugh
But I fear tomorrow I'll be crying"

[Epitaph – King Crimson]





12 Maggio, Villa Stark

Tic toc. Tic toc.
Si ripromise di contare di nuovo fino a trenta.
Inspirò. Espirò.
Tic Toc
. Tic Toc.
Arrivò a centoventi. Perse il controllo del suo respiro, adesso fuori tempo rispetto al ticchettio snervante dell'orologio. Perché si ostinava ad avere un'anticaglia ticchettante sul comodino?
Tic toc
. Tic toc.
Forse per scandire meglio le sue notti insonni, per dare loro una dimensione e dei contorni misurabili senza dover per forza aprire gli occhi nel buio e rischiare di incontrare il nulla.
Tic toc. Tic toc.
Il fioco riverbero azzurrino proveniente dal suo petto rischiarò il quadrante.
Le 2:17.
La voce di suo padre continuava a rimbombargli in testa.
"Cosa stai facendo?"
Si era rigirato quella domanda in testa per ore, analizzandola da ogni angolazione, scandendola con mille sfumature differenti, e ancora non riusciva a trovare una risposta che lo soddisfacesse e che lo lasciasse in pace col dolore lancinante ai moncherini che gli impediva di riscivolare nel sonno.
Cosa
stava facendo?
Stava lavorando al suo retaggio, affinché non andasse perduto. No, si corresse, era il suo retaggio che stava divorando lui, una vena intossicata alla volta.
Stava aspettando troppe cose e ne stava rimandando altrettante.
Tic Toc. Tic Toc.
Le 2:20.
Stava perdendo tempo in ogni modo possibile.
Si rivoltò nel letto in un moto di frustrazione e ciò gli strappò un lamento per le ferite insolitamente sensibili. Si era abituato ad avere qualche crisi notturna, ma adesso si sentiva come se avesse due rozzi chiodi infissi nei moncherini al posto delle protesi. E più rimaneva sdraiato, più aveva l'impressione che un peso gli schiacciasse il petto rubandogli il respiro, mentre il materasso sembrava cosparso di vetri acuminati.
Trasse un profondo respiro prima di sollevarsi a sedere in un sol movimento, stringendo i denti per il coro di protesta che sembrò levarsi da ogni cellula del suo corpo. Piantò saldamente i piedi a terra e si alzò chiedendosi se le gambe avrebbero retto, in quelle condizioni e rinunciando al bastone. Protestarono vivacemente, ma ressero, così uscì zoppicando dalla sua camera in cerca d’aria fresca, sollievo e distrazioni.
Vagò per un po’ a vuoto per l'enorme villa, irrequieto e accompagnato solo dal rumore metallico della protesi che impattava col marmo freddo. Più camminava, più si sentiva sul punto di rovinare a terra, ma allo stesso tempo era incapace di stare fermo: gli sembrava di avere costantemente un'ombra che si aggirava ai margini della sua visuale, incalzandolo a muoversi. Ad ogni passo il moncherino gridava, risvegliando ricordi ora fin troppo chiari, ma non si arrestò, volendo scacciarli e riuscendo solo ad evocarli in modo sempre più vivido.
Le sue gambe volevano guidarlo verso la camera di Pepper, ma contrastò pervicacemente quella tentazione. Non voleva che lo vedesse in quello stato, e non sapeva spiegarsi se fosse per amor proprio o per evitare di causarle altro dolore o, ancora, per timore di ciò che sarebbe potuto accadere una volta lì. Ad ogni modo, si tenne a distanza dalla sua porta.
Finì per recuperare la chiave nell’armadietto dell’atrio, imboccando poi la porta dello studio di suo padre. La chiuse dietro di sé, poggiandosi al legno vecchio per non farla riaprire ed esitando ad accendere la luce. Mosse un passo incerto, allungando a tentoni una mano davanti a sé mentre si abituava pian piano al buio, interrotto solo dalla lama di luce che filtrava dallo stipite difettoso. Si lasciò avvolgere dal tenue sentore della carta ingiallita e del legno vecchio che permeava l’aria, quasi tangibile nell’oscurità. Premette infine l’interruttore e la lampadina sfrigolò, gettando una luce traballante che si stabilizzò dopo qualche secondo, rivelando le ben note sagome che popolavano lo studio ancora sottosopra dopo la sua ultima incursione. In un angolo erano impilati i documenti che, prima o poi, avrebbe dovuto consegnare allo SHIELD; nell’altro erano ammucchiati quelli che invece si era ripromesso di distruggere e che erano invece rimasti lì a impolverarsi. Alcuni fascicoli sulla Stark Expo del ’74 erano poggiati su uno sgabello in una risma ordinata, probabilmente riportati lì da Pepper dopo il suo lavoro di documentazione.
Si avvicinò lentamente alla scrivania e vi poggiò distrattamente la mano, seguendo le venature del legno con le dita. Il suo sguardò vagò sul muro di rilegature che colorava la libreria, senza soffermarsi su nessuna in particolare. Iniziava ad accusare delle fitte più insistenti, così si inclinò contro la scrivania, alleviando il peso dalla gamba e stringendo il bordo con le dita sane, le labbra tirate involontariamente in una smorfia.
Trovò finalmente la forza di indirizzare lo sguardo al baule lì accanto, e la sua mano meccanica corse al reattore, picchiettando leggermente sulla sua superficie liscia. Prima di poterci ripensare si scostò dal suo sostengo, s’inginocchio con un gemito a malapena soffocato e fece scattare le chiusure metalliche, che opposero una flebile resistenza prima di cedere, permettendogli di aprire il coperchio con un cigolio sommesso di cardini a lungo non oliati.
Rimase per un attimo disorientato dalla mole di colori, forme e figure familiari che intravvide a colpo d’occhio sulla superficie ben stipata del contenitore: un vestito lì, la cornice di un quadro là, una scatola di scarpe qua. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a richiuderlo e lasciar riposare il passato e i ricordi. Sollevò delicatamente un vestito estivo a motivi floreali, ben riposto in cima a una pila di indumenti, e passò il pollice sui piccoli rilievi dei fiordalisi ricamati finemente sulla stoffa chiara. Gli parve di sentire una scia appena accennata di acqua di colonia, assieme alle note ovattate di una melodia conosciuta. Si lasciò sfuggire un tenue sospiro mentre ripiegava con accortezza il vestito per riporlo accanto a lui, lisciando poi con una carezza le pieghe del lino leggero. Passò a svuotare il baule con obbligata lentezza, soffermandosi di tanto in tanto a rigirarsi in mano un oggetto conosciuto, lasciando che evocasse qualche stralcio di ricordo. Dopo una buona ventina di minuti portò alla luce la sua vecchia cesta di giocattoli sul fondo, con sopra un pezzo di cartone rigido a mo’ di coperchio. La tirò fuori con qualche scossone, cercando di trattenere uno starnuto per la polvere che gli stava già facendo lacrimare l’occhio, ma finì comunque per lasciarselo sfuggire assieme alla cesta, che rovinò a terra e si rovesciò con un disordinato fracasso di plastica.
Osservò con disappunto la selezione di quei pochi giocattoli sparpagliati che, quando suo padre aveva deciso di punto in bianco che non era più un bambino, era riuscito a mettere in salvo con l’aiuto di sua madre. Prese tra due dita il modellino elettrico di una Shelby da corsa che all’epoca aveva passato giornate intere a modificare e gli venne da sorridere appena nel pensare alle sue auto in garage: non era poi cambiato molto, sotto quel punto di vista. Il suo sorriso si affievolì nel passare in rassegna il resto dei giocattoli sparpagliati di fronte a lui, individuando quasi all’istante il motivo per cui se ne stava inginocchiato per terra nello studio di suo padre alle tre di notte, cercando di ignorare il dolore al volto e ai moncherini fattosi man mano sempre più insopportabile.
Il robottino rosso era rivolto a faccia in su, con la testa ovoidale e coperta dalla maschera argentata che faceva capolino da sotto un’astronave, le corte tenaglie ancora piegate in un qualche gesto ora privo di significato. Nel soffermarsi su quel dettaglio, una spiacevole tensione gli attraversò il braccio artificiale, qualcosa che teoricamente non avrebbe dovuto percepire. Si sfregò il rivestimento metallico, come a scacciare la pressione che sentiva appena sopra il gomito, e si costrinse a prendere il robot. Gli sembrò più pesante di quanto fosse ragionevole pensare e più piccolo di quanto ricordasse, tra le sue mani adulte, segnate e ora asimmetriche. Lasciò la presa con quella meccanica, che aveva cominciato a stringerlo con troppa forza rischiando di deformarlo. Liberò il respiro che non si era accorto di aver trattenuto e rilassò il volto inconsciamente corrucciato, sciogliendo la tensione delle sopracciglia aggrottate. Tenne lo sguardo fisso sul rosso vivo del robot, quasi ipnotizzato.
Emise un altro sospiro, più secco, quasi violento. Poi posò il robottino, risistemò con rapidità il contenuto del baule al proprio posto e si rialzò a fatica, recuperando il giocattolo. Chiuse coperchio e chiavistello, spense la luce e si sbatté la porta alle spalle senza curarsi di chiuderla a chiave, col robottino ancora stretto in mano.


***


Trovò rifugio in terrazza e si accontentò di scrutare il cielo dal basso, piuttosto che attraversarlo in volo come avrebbe voluto. Cercava qualche stella, ma era nuvoloso, e la luna dimezzata sbucava solo di tanto in tanto da un’apertura tra le nubi, lanciando qualche raggio perlaceo sulla superficie appena agitata dell’oceano.
Tony se ne stava poggiato al parapetto, con gli avambracci puntati contro il cemento e il robottino in piedi lì accanto, come se stesse ammirando anche lui il panorama. L’aveva posizionato vicino al bordo, ad appena pochi millimetri dal vuoto, ed era lì da almeno venti minuti. Si sfregò il volto in un gesto esausto: stava esitando, ancora una volta, come nel sogno. Provava una fitta di rabbia feroce ogni volta che fissava quell’oggetto, eppure ogni volta che faceva per spingerlo oltre il bordo lo colpiva un’altra fitta, più dolorosa, pericolosamente vicina al punto in cui erano incastrati i frammenti della bomba. 
Non riusciva a capacitarsi di trovarsi lì a causa dell’uomo che gli aveva regalato quel giocattolo. Era una concatenazione di eventi di cui era stato cosciente sin dal momento in cui si era risvegliato su quel letto d’ospedale, ma paradossalmente, proprio ora che riusciva a ricordare nel dettaglio ciò che era accaduto, il tutto aveva assunto contorni onirici e ineffabili. L’unica cosa vivida e reale era il dolore ai moncherini; sapeva che a breve si sarebbe pentito amaramente della sua passeggiata notturna, ma si ostinava a resistere, concentrandosi su quella sensazione spiacevole per scacciare il dubbio di non essersi mai svegliato dopo l’incidente. Ma era lì, in piedi, e stava morendo per colpa di Stane.
Sfruttò quel getto di rabbia e prese un respiro profondo, e con esso anche il robot, soppesandolo poi nel palmo metallico. Serrò la mano, e udì un lieve stridio di plastica in risposta. Un attimo prima di perdere il controllo e disintegrarlo, lasciò la presa oltre il bordo.
Nel guardarlo cadere, provò un senso di vertigine che non scomparve neanche quando il puntino rosso fu inghiottito dai flutti scuri. Non era la sensazione piacevole che lo coglieva al decollo, ma piuttosto quella di precipitare all’infinito, quasi si fosse buttato lui stesso dalla scogliera. Per un attimo si chiese se non l’avesse fatto davvero, e gli parve di sentire l’abbraccio freddo e salmastro delle onde sulla pelle. Avvertì un gorgo spalancarsi al centro del petto.
Si scostò bruscamente dal parapetto, reprimendo un conato e rendendosi conto solo allora dei brividi che lo scuotevano già da chissà quanto. Era zuppo di sudore freddo e gli sembrava che la pressione nella sua gabbia toracica fosse aumentata, rendendolo dolorosamente consapevole del reattore che la trapassava e di ogni singola costola.
Si lasciò cadere seduto sulla cornice dell’aiuola, accanto alla ginestra che dondolava tranquilla nella brezza serale. Gli tremavano le gambe, ma le ignorò e portò il palmo metallico a coprirsi la bocca, soffocando un lamento e un respiro strozzato assieme. Non voleva avere un altro attacco di panico dopo quello che l’aveva colto nel sonno, ma il suo corpo sembrava aver deciso altrimenti e stava cercando di cacciarlo fuori di sé per l’ennesima volta. Strizzò l’occhio, imponendosi di controllare il respiro contando all'indietro, come gli aveva insegnato a fare Ian, e riuscì a incamerare una boccata d’aria appena sufficiente a non fargli oscurare la vista. Di nuovo, sfruttò le fitte come appigli, riuscendo ad allontanarsi pian piano dal vortice, nonostante la corrente che cercava di attirarlo a sé fosse ancora ben percepibile e le immagini dell’incubo gli scorressero in testa a ripetizione.
Stane che cadeva, il suo braccio che si allungava seguendo un puro istinto, il robottino che cadeva a sua volta. Contrasse i pugni, col fiato corto.
Un rumore secco che spiccò contro quello soffuso della risacca lo fece voltare verso la porta-finestra che si apriva sul terrazzo. Un misto di piacevole sorpresa e apprensione gli strinse lo stomaco nel vedere Pepper che chiudeva il vetro dietro di sé, con i capelli sciolti scarmigliati dal sonno e dalla brezza leggera e la solita accoppiata di maglietta e pantaloncini trafugati a lui che usava come pigiama.
«Anche lei qui, signorina Potts?» la accolse, rivolgendole un sorriso appena accennato e cercando di non suonare affannato per non dare a vedere il suo turbamento.
Il sollievo di averla lì accanto superava di gran lunga il senso di colpa per essere probabilmente la causa della sua insonnia.
«Ho sentito un rumore e ho pensato che fossi sveglio,» rispose lei avvicinandosi e rimanendo in piedi accanto a lui.
Tony pensò alla scatola che gli era caduta prima nell’ufficio e alla ben poca grazia che aveva avuto nel riordinare il baule e nel lasciare la stanza. Si accigliò appena, sia per quello, che per il fatto che fosse passata almeno mezz’ora. Non si spiegava perché Pepper avesse aspettato così tanto prima di raggiungerlo, e soprattutto se si fosse dovuta convincere a farlo. Trattenne l’urgenza di sospirare per le insensate congetture che lo assillavano puntualmente. Tenerle a bada era estenuante e a volte avrebbe solo voluto accettarle come vere per avere un momento di pace mentale. Soffocò quel senso di inadeguatezza che cercava di sopraffarlo ogni volta che si trovava vicino a lei e raccolse la voce per parlare di nuovo:
«Ti ho svegliata?»
Pepper esitò nel rispondere e lui percepì l’ansia impennarsi per un istante, chiudendogli lo stomaco.
«No,» disse lei, senza incrociare il suo sguardo.
Si sedette accanto a lui, con la ginestra che protendeva appena i suoi rami tra loro in una lieve barriera facilmente travalicabile.
«Quindi eri già sveglia?» indagò Tony, intuendo la sua reticenza.
Di nuovo, non ottenne subito risposta. La osservò sfiorare i minuti boccioli gialli con la punta delle dita, in un gesto assente.
«Non riuscivo a dormire,» confessò poi, in fretta. «Tu?»
«Sono rimasto sveglio in laboratorio,» mentì lui.
Sentì gli occhi di Pepper che lo scrutavano a fondo, cercando di smascherarlo, ma s’impedì di far trapelare un qualsiasi cenno di cedimento. Un conto era essere sinceri, un altro era farla preoccupare per qualcosa che sfuggiva al controllo di entrambi; non aveva alcun bisogno di sapere quanto lo stessero tormentando le ferite in quel momento, né perché il dolore fosse così accentuato. Né che l’intossicazione sfiorava ormai il 65%. Erano rimasti d’accordo di non parlarne più esplicitamente e in termini numerici e percentuali, ma ormai sentiva il palladio che iniziava a chiudergli i polmoni come una pianta infestante ed era inutile cercare di camuffare il malessere: Pepper ne era sempre perfettamente cosciente e aveva solo scelto di rispettare i suoi silenzi al riguardo, rimanendogli accanto.
Anche adesso aveva sicuramente captato la sua bugia, ma non insistette, e gliene fu grato. Si limitò a fargli una carezza sul braccio, suscitandogli il consueto miscuglio di emozioni che avrebbe potuto farlo uscire di testa; quel tira e molla inconcludente tra il volersi ridurre a un atomo invisibile e il voler invece fondersi con la sua pelle ad ogni minimo contatto.
In quel breve lasso di tempo si era imposto di superare quella fisima, ripetendosi che anche quello –
soprattutto quello – faceva parte dell’essere amati, e aveva raccolto più vittorie che sconfitte. Il fatto che neanche Pepper si fosse dimostrata incline ad accelerare i tempi era stato un ulteriore sprone. Ma adesso non si sentiva assolutamente nelle condizioni di essere indulgente col proprio corpo, non con i pensieri che si scontravano con violenza nella sua testa rintronandolo e riportandolo al momento in cui era stato mutilato e sfigurato.
Si ritrasse quindi al contatto senza riuscire a frenarsi, e Pepper lasciò subito scivolare via la mano. Tony notò come tirò impercettibilmente le labbra nel farlo, con una singola piega che andò a intaccarle la fronte. Gli sfuggì un lungo sospiro che s’impegnò a rendere il più silenzioso possibile, per poi accostarsi di più a lei fino a sfiorarla, sperando che capisse e che sopportasse quel suo lato che spesso sfuggiva al suo controllo. Lei non si mosse e, anzi, si adagiò nel suo calore. Cercò la sua mano artificiale, stavolta, e stavolta Tony si sforzò di accettare quel gesto, come sempre disorientato dal conflitto tra l’assenza di tatto e il vedere ciò che avrebbe dovuto sentire, risvegliando un’ombra di percezione nel suo arto inanimato. Non osò muoversi, come sempre paralizzato dal timore di farle involontariamente male, ma quel contatto mediato era più gestibile di uno diretto.
«Giuro che ci sto provando,» mormorò frustrato, come unica spiegazione, e sentì il sospiro di Pepper solleticargli la pelle in tutta risposta.
«Va bene così, Tony. Ne abbiamo parlato,» lo rassicurò, inclinando il volto verso di lui.
Lui non rispose, ma tirò appena lo bocca in un’espressione poco convinta. Pepper era sembrata in un certo senso più esitante a venire in contatto fisico con lui; non che non lo ricercasse, anzi, non gli era mai stata così vicina, ma vi era una sorta di reticenza di fondo da parte sua che non riusciva a collocare. E non riusciva a capire se ciò nascesse dalla volontà di rispettare i suoi spazi, o da un ripensamento sulle sue scelte. Quasi a voler fugare quel dubbio, inghiotti la sua ansia e allentò per un istante il freno che si era imposto: si chinò verso di lei, per poi esitare volutamente a pochi millimetri dalle sue labbra – non che sarebbe mai riuscito a incontrarle davvero. Fu lei a colmare la distanza causandogli un sussulto interiore, con tanta naturalezza da farlo vergognare di aver dubitato di lei. Non appena sentì le sue labbra allontanarsi le seguì d’istinto, prolungando un poco quel breve contatto che gli rimescolava i pensieri spingendo sotto la superficie quelli più cupi. Avrebbe voluto raggomitolarsi in quei singoli istanti per ore, mettendo in sospeso tutto ciò che gli impediva di ricercarli più spesso.
Quando interruppe il bacio, fu solo perché sentì il cuore sul punto di entrare in fibrillazione, e rimase comunque vicino a lei, chiedendosi in sottofondo se fosse tutto così facile perché in quel momento non era nel pieno controllo di se stesso, o se si trattasse invece del caso il contrario. Quei pensieri avrebbero finito per farlo impazzire davvero, anche se aveva il sospetto che gli incubi ci sarebbero riusciti prima.
Il ricordo di Pepper fasciata da quel lungo vestito verde di tanti anni prima fece di nuovo capolino nella sua mente, quasi a rassicurarlo. Le sorrise appena, suscitando un’espressione confusa sul suo volto, impegnata com’era a cercare di decifrare i suoi comportamenti contraddittori, e spostò lo sguardo sull’oceano increspato e delimitato dal serpente di luci che rincorreva la Pacific Highway sulla costa.
«Ti ricordi Venezia?» si decise a chiedere, incurante di quanto suonasse strana quella domanda.
Poté quasi percepire nell’aria la perplessità di Pepper, ma quando parlò il suo tono rimase neutro, con solo una punta di curiosità a ravvivarlo:
«Certo. Perché?»
Tony scrollò le spalle, confuso a sua volta, e sfuggì il suo sguardo coprendosi poi con la mano il lato sinistro del volto in una tenue difesa, accusando l'assenza della benda.
«Niente. Ci sarei voluto tornare,» disse evasivo.
Non riuscì ad aggiungere altro, né a nascondere il rimpianto che trapelò dalla sua voce e che espresse molto più di quanto avrebbe voluto. Sentì Pepper irrigidirsi appena e ad accostarsi a lui come di riflesso, cogliendo all’istante i sottintesi di quell’affermazione e le possibilità che escludeva.
«Magari quest’estate,» la sentì dire poi, a voce bassa ma ferma, con quella tenacia che non la abbandonava mai.
Tony si trovò a stringerla delicatamente a sé, ignorando ancora le proteste insensate della sua mente e accogliendo con silenziosa gratitudine quelle parole, forse banali, forse illusorie, ma dolci per le sue orecchie. La morsa al petto non si allentò, ma divenne sopportabile. Pepper era sempre in grado di riaprire la porta sul futuro ogni volta che lui la chiudeva.
«Vuoi rientrare?» le chiese dopo un po’.
Lei si riscosse dal torpore, sollevando la testa fino ad allora poggiata sulla sua spalla.
«Tu vuoi rientrare?»
Tony considerò per qualche secondo la domanda. Si trovò a non voler interrompere quel momento, per quanto una parte di sé avrebbe accolto volentieri il rifugio del proprio letto. Dopo quell’incubo si sentiva più vulnerabile che mai, come se qualcuno gli avesse di nuovo aperto il petto per mettere a nudo non solo il suo cuore, ma anche tutto ciò di invisibile in cui galleggiava. Ma c’era solo Pepper a guardarlo, e non aveva motivo di nascondersi ai suoi occhi, anche se non era in grado o non voleva esprimersi a parole; non ora, almeno.

Forse domani. Forse quest’estate.”
«Sto bene qui,» rispose infine, rivolgendole un sorriso mesto e appena accennato.
«Anch’io,» concluse Pepper, tornando a guardare l’oceano buio e poggiandosi di nuovo a lui.
Tony fece lo stesso, seguendo distratto il moto lontano delle onde, punteggiate da riflessi che gli rievocava ricordi altrettanto distanti.
"Non sarebbe un brutto posto per morire," quel pensiero repentino sfuggì al suo controllo assieme alla lacrima che gli rigò il volto, muta e invisibile nella penombra della terrazza.


***


13 Maggio, 4:15, Villa Stark

Forse non avrebbe dovuto lasciarlo solo.
Pepper si rigirò ancora nel letto, attorcigliandosi sempre più nelle pieghe del lenzuolo esattamente come stava facendo la sua mente coi pensieri. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo confuso e sofferente di Tony e le sembrava di non essere riuscita a decifrarlo del tutto, o forse di non averci provato affatto.
Sapeva che, quando la cercava in modo così diretto ed esplicito, seppur esitante, nascondeva sempre un turbamento più profondo che metteva momentaneamente in secondo piano tutto ciò che lo avrebbe spinto a ritrarsi in un’altra situazione. Era una presa di coscienza dolorosa, accompagnata dalla consapevolezza che in ogni gesto che Tony le rivolgeva, per quanto piccolo, vi fossero una premura e un’intensità ben percepibile, come se tentasse sempre di racchiudervi tutto ciò che poteva nel timore di non poterlo ripetere. E lei faceva lo stesso, attanagliata da un timore simile che si diramava però in direzioni più variegate.
Si chiedeva se, o meglio
quanto, le sarebbe mancato seguire con la punta delle dita il filo diritto della sua mandibola, o sentire il suo pizzetto pizzicarle la guancia, o passargli una mano tra le ciocche morbide, o accogliere le sue labbra calde e ferme con le proprie. Era l’unica stilla di paura che la faceva esitare e che a volte bloccava sul nascere un gesto troppo audace o ne interrompeva uno che avrebbe potuto imprimersi troppo a fondo nella sua memoria.
Ritornava comunque troppo spesso col pensiero a quegli attimi sull’aereo, quando aveva ceduto a quel bacio trattenuto per mesi; e a quello di qualche giorno dopo, quando Tony l’aveva infine accettato, dando ufficialmente il via a un qualcosa che nessuno dei due sapeva o voleva definire o etichettare. Da quel momento avevano preso a orbitare l'uno attorno all'altro in modo quasi inconsapevole, come due magneti, ma coi poli rivolti troppo spesso dal lato sbagliato che creavano un'invisibile e tangibile forza repulsiva tra loro. Riuscivano a contrastarla quel tanto che bastava per ritagliarsi dei momenti di quieta normalità, ma aveva sempre l’impressione che fossero solo pagliuzze rubate a ciò che sarebbe potuto essere e che non sarebbe mai stato.
Quella realizzazione la colpì in profondità, rubandole il fiato per un istante. Sapeva che Tony aveva ripreso a lavorare notte e giorno al nuovo reattore, esattamente come le aveva promesso, così come sapeva che non aveva ottenuto risultati. Gliela leggeva nello sguardo, quella frustrazione mista ad amarezza che lo coglieva ogni volta che usciva con passo falsamente baldanzoso dal laboratorio, che pesava in modo indelebile nelle parole che gli sfuggivano di tanto in tanto, andando a scoprire le corde sanguinanti che tentava in tutti i modi di nasconderle; come quella sera. E più ripensava alla malcelata sofferenza nel suo sguardo smarrito, alle sue parole malinconiche e a quel bacio che, piuttosto che un'altra conferma, le era sembrato una domanda, più si convinceva che non avrebbe
assolutamente dovuto lasciarlo solo.
Il singolo fotogramma che tormentava ancora le sue notti, quello della luce azzurrina del reattore scissa dal petto del suo proprietario, le balenò davanti agli occhi in un monito cupo.
Si era già tirata su di scatto nel letto, quando lo squillo del suo cellulare ruppe il silenzio notturno.


***


13 Maggio, 4:15, Villa Stark

Tony maledisse per l’ennesima volta la propria avventatezza mentre soffocava un gemito nel cuscino, sforzandosi di controllare gli spasmi che avevano preso a scuoterlo da capo a piedi. Aveva la netta percezione di ogni singolo osso e muscolo nel suo corpo, tutti decisamente doloranti o pervasi da una spiacevole sensazione gelatinosa. Le protesi erano diventate due tizzoni ardenti premute sui moncherini.
Sapeva che porle sotto sforzo in una situazione di stress non era mai una grande idea, ma non aveva pensato di subire delle ripercussioni così violente, probabilmente anche amplificate dall’intossicazione. Non si spiegava altrimenti l’emicrania che si era aggiunta al vasto assortimento di fitte che gli impediva di chiudere occhio, né il respiro fattosi più superficiale e accelerato.

Respira, ora ti passa. È normale,” tentò di convincersi ancora.
Ma sapeva che non era normale: era il palladio che lo stava uccidendo e che ci teneva a farglielo presente.
Artigliò il lenzuolo e affondò le unghie nel materasso sottostante quando l’ennesimo crampo gli stritolò le ferite, spezzandogli il respiro e facendogli desiderare di poter semplicemente svenire. O di avere i suoi antidolorifici a portata di mano, ma era quasi con disperazione che aveva constatato che il tubetto sul comodino era vuoto, e di non essere assolutamente in grado di alzarsi per recuperarne uno dei tanti sparsi per tutta la casa.
Gettò uno sguardo all’orologio e quasi desistette dai suoi intenti, prima che i suoi pensieri venissero annebbiati da una nuova ondata di dolore, convincendolo a mettere da parte orgoglio e sensi di colpa. Attivò il microfono di JARVIS con uno schiocco di dita e mormorò rapido un comando. Pochi istanti dopo sentì il cellulare di Pepper squillare ovattato nell'altra camera; gli venne da sorridere appena contro il cuscino nel riconoscere le prime note di
Born To Run, troncata dopo soli pochi secondi. La voce di Pepper risuonò nell'interfono, stranamente vigile nonostante gli evidenti strascichi del sonno appena interrotto. Forse, di nuovo, non era l’unico a non chiudere occhio.
«Tony? Che succede?»
«Ho finito gli antidolorifici,» esordì lui, con voce sforzata e saltando i convenevoli. «Ne avrei un discreto bisogno,» si obbligò a dire poi, con mal riuscita leggerezza, per poi affondare di nuovo la faccia nel cuscino per smorzare un respiro traballante.
Ci fu un breve silenzio dall’altro capo, sinonimo di una preoccupazione che non avrebbe voluto suscitare.
«Dove sono?» gli arrivò poi, e captò un fruscio di lenzuola in sottofondo mentre già si alzava senza esitazioni.
«In laboratorio. Non ricordo dove,» troncò un lamento contro i denti e sperò che la chiamata fosse finita in tempo per non captarlo.
Sentì dei passi felpati lungo il corridoio, affrettati; arrivarono di fronte alla sua porta, s'interruppero brevemente e poi proseguirono, diretti al piano inferiore.
Tony cacciò la testa sotto al cuscino, in attesa. Non era certo la prima volta che gli capitava di aver bisogno del suo aiuto a orari improbabili, ma era stato ormai molto tempo fa, prima delle protesi e soprattutto prima che il loro rapporto scivolasse in territori non ancora del tutto esplorati. Sentì un persistente velo d’ansia posarsi sulle sue spalle, assieme al desiderio soppresso di averla accanto.
Poco più di un minuto dopo udì la maniglia che scattava, e il materasso si abbassò appena quando Pepper si sedette sulla sponda del letto. Non trovò la forza di smuovere il cuscino dalla faccia, nell'irrazionale convinzione che potesse servire ad attutire almeno il mal di testa. Riconobbe, ovattato, il rumore del tubetto di plastica degli antidolorifici che veniva posato sul comodino, seguito da quello del vetro di un bicchiere. Lui non reagì, timoroso di turbare la relativa quiete che si era creata nella sua scatola cranica. Sentì la sua mano che gli sfiorava la spalla, delicata, come a verificare che fosse sveglio.
«Grazie,» articolò, sempre senza muoversi, con la voce appena udibile contro la stoffa.
Un refolo d'aria più fresca gli sfiorò il volto quando Pepper scostò il cuscino; non si ribellò, non ne aveva comunque la forza. Inquadrò i suoi occhi stanchi, ma illuminati di apprensione, e pensò che avrebbe anche potuto resistere fino al mattino, invece di farla svegliare di nuovo nel cuore della notte, per altro facendola spaventare a morte. Cercò di rivolgerle un sorriso rassicurante, ma sapeva che non l'avrebbe convinta, soprattutto perché quello che gli attraversò il voltò dovette assomigliare più a uno spasmo. Apprezzò il fatto che Pepper non avesse iniziato a tempestarlo di domande su come si sentisse, facendolo sentire ancora più sotto pressione di quanto non fosse.
Si fece forza e si tirò su sul gomito sano, il volto contratto in una maschera sofferente che non riuscì a stemperare. Pepper lo sorresse, prendendo atto di quanto fosse provato, e lo aiutò a poggiarsi contro la testiera. Gli offrì il bicchiere con la pasticca e lui la ingollò a fatica, con la nausea fino ad allora sopita che tornava a farsi sentire. Si affrettò a distendersi prima che peggiorasse, di nuovo prono e mezzo abbracciato al cuscino, con il volto premuto contro la federa dal lato cieco in modo da continuare a guardarla.
Pepper aveva seguito attentamente ogni suo movimento, stavolta senza intervenire: avevano raggiunto un'intesa piuttosto buona sui momenti in cui aveva bisogno di aiuto. Colse un istante di esitazione da parte sua, prima che si mettesse seduta accanto a lui con la schiena rivolta verso il suo fianco, le ginocchia ripiegate sotto il mento.
Lui accolse in silenzio quella vicinanza, troppo intento a immaginare che il medicinale appena assunto prendesse a sciogliere i dolorosi nodi di tensione che costellavano il suo corpo, ma sapeva che era troppo presto perché facesse effetto. In compenso, i suoi pensieri si stavano facendo sempre più ingarbugliati e poco razionali, aprendo la strada a un ventaglio di azioni possibili che di norma non gli sarebbero mai passate per la testa. Si chiese cosa sarebbe successo se avesse allungato un braccio a cingere la vita di Pepper, stringendola e attirandola a sé; si chiese cosa sarebbe successo se, invece, avesse chiesto a lei di fare lo stesso; si chiese, ancora, cosa sarebbe successe se l’avesse cacciata via, risparmiandole quello spettacolo pietoso a cui si sentiva obbligata ad assistere. Si sentiva di nuovo sotto una pressa che lo stritolava, impedendogli di respirare e acuendo ogni sensazione spiacevole. Percepì in gola il retrogusto salino delle lacrime e si sforzò di inghiottirle.
«Pep, vai a dormire,» mormorò a fatica, senza troppe speranze di venire ascoltato.
«Gli antidolorifici ci metteranno un po' a fare effetto. Aspetto che ti riaddormenti,» replicò infatti lei, con ferma naturalezza.
«Non ce n’è bisogno. Sono abituato,» s’impuntò lui, lasciandosi sfuggire suo malgrado un sibilo quando mosse inavvertitamente i moncherini.
«Io no,» tagliò corto lei a voce più bassa, facendolo accigliare.
Non aveva intenzione di demordere, ma ogni sua protesta fu zittita quando sentì la mano di Pepper che gli affondava tra i capelli, prendendo ad accarezzarli.
«Questo è un colpo basso,» gli sfuggì in un mugolio arrendevole, inclinando involontariamente la testa a seguire quel movimento.
Poté percepirla sorridere appena anche senza guardarla, e soppresse quella maledetta vocina che gli urlava senza sosta di sottrarsi, riuscendo a ridurla a un semplice ronzio di sottofondo, non del tutto ignorabile ma comunque indistinto. Pepper aveva intuito abbastanza rapidamente che quella era una sorta di zona franca, per lui molto più gestibile dal punto di vista fisico, forse perché per dieci anni era stato abituato a farsi sistemare puntualmente i capelli da lei prima di conferenze o meeting, quando si presentava dopo una notte brava con un’acconciatura ben poco consona a un incontro formale. Fatto sta che quel gesto lo sprofondava in uno stato di beatitudine completa. In quei momenti Pepper avrebbe potuto chiedergli di dipingere l’armatura di rosa shocking e avrebbe acconsentito senza battere ciglio.
Nessuna donna gli aveva mai riservato delle carezze così delicate, che superavano la sua pelle per arrivare lì, tra il reattore il cuore, dove si condensavano in una stretta piacevole e rassicurante che sembrava guidare i suoi battiti. Si concentrò quindi su quella sensazione piacevole, sulle sue dita che gli districavano le ciocche più lunghe sulla fronte e che sembravano fare lo stesso coi suoi pensieri, trovando il capo di ognuno ed evitando che si annodassero di nuovo tra loro.
Era comunque raro che Pepper ricercasse quel contatto con lui in modo così esplicito e prolungato. La solita vocina gli suggeriva che fosse per il senso di repulsione istintiva che provava per lui, ma sapeva, lo
sapeva, che non era altro che un'accortezza nei suoi confronti, proprio per rispettare quegli spazi che faticava così tanto a concederle. Riusciva a superare quei limiti autoimposti solo nei momenti in cui le sue difese erano troppo fiacche per essere efficienti; e in quei casi, Pepper si insinuava con la consueta discrezione tra le falle, cercando di aiutarlo a sanarle dall’interno. 
Sospirò appena, gettando fuori una minima parte della marea di pensieri che minacciava di affogarlo e lasciando che fosse il tocco di Pepper ad avvolgerlo al loro posto. Oltre a quella sottile protezione sentiva ancora l'ombra della paura premere su di lui, nonostante l'incubo fosse finito da un pezzo e il suo ultimo ricordo materiale giacesse sul fondo del mare. Sentì comunque il suo corpo rilassarsi a poco a poco a quelle carezze, inibito dall’antidolorifico che stava lentamente agendo, e senza accorgersene si trovò a fluttuare verso un piacevole dormiveglia. Fece appena in tempo a chiudere la palpebra, che due feroci occhi azzurrini si spalancarono davanti a lui. Si destò con un lieve sussulto, contraendo i muscoli in uno spasmo e trattenendo bruscamente il respiro.
«Tony?» la voce allarmata ma limpida di Pepper lo raggiunse, strappandolo del tutto all’incubo.
«Sto bene,» annaspò, di nuovo con l’orrenda sensazione di avere dell’acqua salmastra nei polmoni.
Percepì Pepper chinarsi appena su di lui e continuò a tenere il volto affondato nel cuscino, sia per nascondere lo sfregio, sia per evitare i suoi occhi.
«Davvero?» gli chiese, con un evidente sottotono retorico.
Tony rimase in silenzio, frenando l’istinto di mentirle di nuovo mentre la propria attenzione era orientata da tutt’altra parte: avrebbe solo voluto che lei riprendesse ad accarezzargli i capelli, ma la sua mano si era invece spostata al centro delle sue spalle, leggera, ma fin troppo vicina al punto in cui la protesi del braccio si ancorava alla pelle. Sentì il cuore schizzargli nel petto al solo pensiero che sfiorasse per sbaglio le ferite, e si irrigidì dolorosamente. Pepper sembrò intuire il problema, perché interruppe il contatto, lasciando solo l’orma del suo calore a lambire il metallo.
«No,» rispose infine lui, con un filo di voce che si sforzò di mantenere stabile.
Pepper incassò in silenzio quella risposta, forse sorpresa dalla sua schiettezza.
«È per questo che prima sei uscito?» indovinò senza troppo sforzo.
«Mi serviva una boccata d’aria,» replicò lui, di nuovo evasivo, di nuovo assediato dalle immagini che non riusciva più ad arginare, di nuovo incapace di muoversi e paralizzato dal dolore come lo era stato su quel tetto. «Tu perché eri sveglia?» si affrettò a chiedere prima di venire sopraffatto, sentendosi comunque meschino nel rivoltare a quel modo la discussione.
«Avevo troppi pensieri,» rispose lei, senza ritrarsi, e Tony assorbì quella che in effetti non era una novità, sebbene non fosse mai stata espressa ad alta voce.
«Ne vuoi parlare?» le propose di getto, e quasi si stupì di quanto quelle parole gli fossero venute naturali, nonostante tutto il coacervo di pensieri e sensazioni che lo assillava in quel momento.
«Non c’è molto da dire,» svicolò lei, con un lieve tremito che la tradì nell’alzare appena le spalle esili, in un gesto al contempo rassegnato e noncurante.
«Guarda che sono un ottimo ascoltatore, quando non sono occupato a parlare di me stesso,» insistette, usando un tono lievemente scherzoso per farle capire che non aveva intenzione di pressarla.
Inclinò appena il volto per guardarla, seduta lì accanto col profilo delicato appena visibile nella penombra della camera, le mani strette sotto le ginocchia a tenerle piegate. Sembrava ancora più esile di quanto non fosse, così rannicchiata. Tony passò in rassegna almeno una dozzina di approcci tinti da sfumature d’ironia più o meno intense per invogliarla a parlare, solo per lasciarsi sfuggire un profondo, inutile sospiro che prolungò il silenzio.
«Ho paura. Ma lo sai già,» affermò infine lei, come se fosse incapace di trattenersi oltre e allo stesso tempo di aggiungere altro.
Tony non rispose. Non credeva di poter scacciare delle paure che lui stesso non riusciva a controllare. Si limitò a girarsi cautamente su un fianco per stringersi a lei, quel tanto che bastava per permettere a entrambi di percepire il calore dell’altro; la sentì poggiare cautamente la schiena contro il suo addome, in una silenziosa ricerca di vicinanza e conforto, la stessa che lui non riusciva quasi mai ad esternare. Riusciva a sentirla respirare, un movimento lieve a cui si adeguò d’istinto, sentendolo quasi come proprio.
«Ho avuto un incubo,» le confessò infine, a voce bassa. «Anche se forse era un dramma in tre atti, o qualcosa del genere,» minimizzò, con incerta leggerezza.
Ci fu una pausa che sembrò addensarsi tra loro.
«E cosa hai sognato?» dal suo tono intuì che aveva avuto timore di chiederlo.
«Molte repliche, un Transformer mal riuscito e una rivisitazione del
Re Leone,» sciorinò lui, più spigliato.
Udì Pepper sbuffare, forse il principio di una risatina.
«Se non ne vuoi parlare, non devi,» lo rassicurò, senza alcuna traccia di rimprovero.
Tony sbuffò di rimando contro il cuscino, in cerca di un modo in cui poterle raccontare ciò che aveva sognato. O meglio, vissuto di nuovo. Avrebbe potuto parlarle dello scontro in modo pragmatico, senza sprecarsi in sentimentalismi inutili, o avrebbe potuto dirle quanto fosse stato sollevato di saperla al sicuro nonostante la sua situazione disperata, o avrebbe potuto confessarle quell’istante di stolta compassione che l’aveva condannato per sempre. Un punto valeva l’altro, ma si trovò a scegliere l’unico che contasse veramente:
«Non è colpa tua,» esordì, cercando il suo sguardo.
Lei lo incontrò, gli occhi chiari appena visibili nella penombra. Riuscì comunque a leggervi la sorpresa, assieme a un velo d’apprensione nel modo in cui tirò impercettibilmente le labbra.
«Cosa?» tentennò lei, senza nascondere la tensione del riuscire già ad immaginare la risposta.
«Quello che mi è successo,» chiarì Tony, parlando con lenta cautela, consapevole di stare toccando un tema molto sensibile e in sospeso da più di un anno.
Lei infatti sviò subito il suo sguardo, puntandolo in basso; si passò nervosamente le mani lungo le gambe, per poi prendere a torcersi le dita nella sua consueta esternazione ansiosa.
«Non che prima avessi alcun dubbio,» si affrettò ad aggiungere Tony, sempre con voce pacata. «Ma adesso ho le prove incontestabili, sempre che ti fidi del mio inconscio e della mia memoria rediviva,» concluse senza mai distogliere lo sguardo, come se ciò potesse dare più spessore alle sue parole.
Pepper non sembrò affatto tranquillizzata e non smise di tormentarsi le mani.
«Cosa hai ricordato?» gli chiese, a metà tra lo speranzoso e l’angosciato.
«Ho sognato l'incidente,» disse lui, vacillando appena nel parlare. «Non è la prima volta, ma sono sempre stati sogni confusi o assurdi…» s’interruppe, cercando di distogliersi dal dolore ai moncherini che era tornato a farsi sentire con più insistenza, quasi in reazione all’argomento. «Stavolta c’erano troppi dettagli, e li ricordo ancora tutti. Non era solo un sogno,» concluse, con decisione.
Sentì Pepper agitarsi sul posto, con le mani ora strette attorno alle caviglie sottili e il mento incuneato tra le ginocchia; i capelli lisci e appena arricciati sulle punte le schermavano il volto in una cortina ramata, impedendogli di vedere la sua espressione.
«Anch’io ricordo cosa è successo quel giorno,» mormorò infine, atona. «E lo so che vuoi rassicurarmi, ma io
ho concretamente avuto un ruolo in quello che ti–»
«No, Pep, stammi a sentire,» la interruppe lui, con improvvisa veemenza, e fece perno sui gomiti per sollevarsi, ignorando le fitte lancinanti che lo colpirono senza però farlo desistere dal suo intento.
«Tony, non sforzarti,» si allarmò lei, girandosi rapida verso di lui e provando a farlo distendere di nuovo.
Premette d’istinto una mano contro il suo petto e lui sobbalzò appena, ma non si lasciò arrestare e contrastò senza fatica quella leggera pressione, mettendosi così seduto a fronteggiarla, col cuore a mille e un affanno malcelato. Pepper lo fissava con occhi resi enormi dalla preoccupazione, le mani ora serrate tra loro in grembo come se non sapesse cosa farsene; Tony vi insinuò la sua, rompendo quella morsa e che si trasferì subito alle sue dita. Convogliò tutta la sua forza di volontà nel mettere di nuovo a tacere quell’insidiosa vocina che gli suggeriva quanto potesse essere sgradita per lei quell’improvvisa vicinanza. Il fatto che la flebile luminescenza azzurrina del reattore fosse adesso l’unica fonte di luce non lo aiutava a gestire meglio la situazione.
«Tutto ciò che ho… che ho
perso...» 
Si obbligò a deglutire il blocco d’ansia che gli aveva ostruito la gola, cercando di non fargli pronunciare ad alta voce quei dettagli che sembravano ancora straziarlo fisicamente. 
«Questa,» ricominciò, e batté piano le nocche metalliche sul rivestimento della protesi inferiore, «non so esattamente come sia successo… il mio database ha ancora qualche lacuna.»
Offrì un lieve, stentato sorrisetto di scuse, puntando lo sguardo sulle giunture della protesi, e captò quello di Pepper farsi attento e addolorato assieme, realizzando ciò che si stava apprestando a raccontarle.
«Comunque, è successo molto prima che tu intervenissi,» esitò per una frazione di secondo. «L’ho detto anche a te, che mi ero rotto la gamba… ti ricordi?» tentò, non volendo in realtà risvegliare quelle immagini anche nella sua testa, ma pensando allo stesso tempo che fosse l’unico modo per farle credere che quei fatti fossero reali, non solo un parto onirico del suo inconscio.
Lei annuì rapida ad occhi bassi, stringendo di più la sua mano, passando le dita sulle linee del suo palmo e seguendo i calletti che gli segnavano i polpastrelli, quasi a distrarsi da ciò che stava sentendo.
«Avevo già chiamato i soccorsi. Pensavo che fosse finita,» disse poi, appena udibile.
Tony tacque per un po’, con lo scontro che si svolgeva di nuovo davanti ai suoi occhi, incluso tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare di finire su quel letto d’ospedale. In un modo, o nell’altro. Il pensiero gli ghiacciò le vene, come sempre quando si trovava a considerare anche solo lontanamente l’idea di una morte volontaria. Riprese a parlare, concentrandosi unicamente su quello che stava dicendo.
«Anche questo,» accennò in modo impercettibile al proprio viso, esponendo comunque il lato intatto, «è successo prima che tu sovraccaricassi il reattore. Un proiettile vagante,» fornì come unica, laconica spiegazione.
Non riuscì a entrare più nel dettaglio, né Pepper sembrò incline a insistere. La sua unica reazione fu quella di accostarsi un poco a lui, portandosi sensibilmente dal lato sano del suo volto per evitargli di tenere la testa girata. Le fu grato per quell'accortezza. Poteva fare i conti con un paio di arti di metallo, facilmente nascondibili e comunque non così ripugnanti finché i punti di giunzione rimanevano coperti, ma quello che portava in faccia era un manifesto della sua sconfitta, e non sarebbe mai riuscito ad accettarlo come parte di sé. Aveva davvero provato a rinunciare alla benda, ma era come essere costantemente nudo per metà. Anche adesso apprezzava la premura di Pepper, nonostante non fosse del tutto certo che fosse per puro riguardo verso di lui o se dietro vi fosse una sua reticenza nel vedere lo sfregio che lo deturpava.
Sbuffò piano dal naso, iniziando ad accusare la stanchezza causata dal suo corpo ormai in fiamme e da pensieri altrettanto brucianti.
«E il braccio…» ricominciò infine, solo per interrompersi, rendendosi conto che gli era mancata l’aria nel parlare.
Poté quasi sentire Pepper trattenere a sua volta il respiro, forse pensando che l’avesse colpito una qualche illuminazione, un ricordo nascosto in un vicolo cieco della sua coscienza che smentisse tutto ciò che aveva detto finora, rendendola responsabile dell’accaduto. La rassicurò stringendole le mani, mentre cercava di recuperare la voce, inutilmente.
«Tu non c’entri,» riuscì a dire, energicamente. «Neanche con questo, è solo… accaduto troppo in fretta. Un momento era lì, quello dopo…» inceppò sulla sua stessa lingua, mangiandosi le parole. «Non me ne sono neanche accorto,» mentì, chiudendo involontariamente il pugno metallico in una morsa e sentendosi furioso con se stesso. «Te l’ho già detto, è
merito tuo se sono qui, anche se non mi vuoi credere.»
Lei scosse la testa, scoraggiata, facendo fremere i capelli che le incorniciavano il volto.
«Non è così semplice,» replicò, per poi bloccarsi prima di poter continuare e rivolgergli uno sguardo smarrito, ma anche improvvisamente consapevole.
«No, non lo è,» mormorò lui, con un quieto misto di sorpresa e sollievo nel sentire l’eco involontario delle proprie stesse parole.
«Non riesco a cambiare idea da un momento all’altro solo perché lo dici tu, anche se vorrei,» continuò poi lei con più impeto, quasi a volersi giustificare o difendere, e Tony le impedì di iniziare a gesticolare affannata, trattenendole gentilmente le mani nella propria.
«Pepper
lo so. So quanto è difficile accettare quello che ti dicono gli altri e credere che sia vero e che lo pensino davvero. Fidati dell’esperto,» continuò, sorridendole appena con un velo di mestizia.
Trattenne momentaneamente quello che stava per dirle solo per lasciare che anche le sue labbra si incurvassero in poco più di un’intenzione di sorriso, che distese comunque i suoi lineamenti fino ad allora corrucciati. Annuì, a prendere atto delle sue parole, per poi guardarlo, intuendo chissà come che non le aveva ancora detto tutto. Lui sospirò appena prima di parlare:
«Non
voglio che tu viva col peso della mia morte sulla coscienza,» riuscì a dire, e la vide sussultare nonostante lo strato di dolcezza in cui aveva cercato di incartare quelle parole, comunque troppo spigolose per non lacerarlo.
«Non accadrà,» ribatté subito lei, ribattendo però a un’altra affermazione e guardandolo con la fiera ostinazione di chi si pone a strenua difesa di un ultimo baluardo.
Tony non rispose, ma districò la mano dalle sue e la usò per guidarla verso di lui, cingendola in un mezzo abbraccio spontaneo e quasi impalpabile in cui lei si adagiò con esitante sorpresa.
«Non è colpa tua,» le ripeté ancora, con la voce che le sfiorava l’orecchio.
Si rifugiò a sua volta in quella parentesi di quiete, nonostante la tensione latente di sentir rispuntare d’un tratto quella vocina maligna che gli avrebbe intimato di sottrarsi. 
«E sono qui apposta per ripetertelo e romperti le scatole finché non ci crederai, come fai tu con me. Il minimo che possa fare è ricambiare il favore, no?» aggiunse, in un guizzo d'autoironia.
La sentì sorridere appena, per poi quasi sciogliersi contro di lui, aspirando a fondo. Non disse una sola parola, ma Tony poteva percepire fisicamente il sollievo che si irradiava da lei, come se avesse infine lasciato cadere un peso a cui si era ormai abituata e i suoi muscoli si fossero rilassati di colpo, tremanti e finalmente consci di tutta la stanchezza accumulata. Anche lui si rilassò, abbandonando la tensione che gli aveva stretto i muscoli fino ad allora e smorzando così i crampi che non gli davano tregua. Si concesse di perdersi ancora per qualche secondo nel profumo di Pepper prima di scostare leggermente il volto da lei, ma continuò a tenerla stretta a sé nel rendersi conto che la sua ansia sembra essersi sopita, almeno in parte. Forse era la spossatezza, forse il semplice fatto di essersi avvicinati gradualmente, lasciandogli tempo di prendere coscienza del suo corpo così com’era, senza quelle zavorre che lo trascinavano costantemente sul fondo; forse quello di stare
davvero migliorando in quel senso, e di aver compiuto qualche passo avanti. Non spese troppo tempo a rimuginarci, preferendo godere appieno di quegli attimi preziosi che doveva sempre conquistarsi.
«Ha sonno, signorina Potts?» la prese in giro dopo un po’, notando che il suo respiro si era fatto più profondo e cadenzato mentre si abbandonava pian piano tra le sue braccia.
«No,» si riscosse lei, con voce un po’ impastata.
«Mente in modo pessimo, per essere stata la mia assistente,» le fece notare, con un mezzo sorriso furbetto.
«Penso di poter perdere qualche ora di sonno per lei.»
A quelle parole Tony cercò di soffocare un verso strozzato, ma ogni tentativo di contenersi fallì miseramente e sfociò in una risatina asfittica che scosse entrambi, suscitando l’estrema perplessità della donna.
«Che c'è di divertente?» chiese spaesata, scostandosi da lui e corrugando le sopracciglia.
«Se te lo dico, mi ammazzi,» sogghignò ancora lui, ora senza fiato, con qualche stilettata qua e là che tentava di ricordargli quanto fosse malmesso in quel momento.
Pepper alzò gli occhi al cielo, ma sorrise, contagiata dal suo inatteso scoppio d’ilarità.
«Tieniti pure i tuoi segreti, allora,» lo punzecchiò senza rancore, per poi accigliarsi quando Tony fece suo malgrado una smorfia sofferente, piegandosi in avanti. «Tony? Stavo scher–»
«Il mio senso dell’umorismo funziona ancora,» la rassicurò lui. «Il resto non tanto. Ho bisogno di una pausa,» si costrinse a dire, sciogliendo l’abbraccio e sdraiandosi con cautela, lasciandosi accompagnare nel movimento da Pepper.
«Meglio?» gli chiese, dopo che si fu accomodato prono, con la faccia di nuovo affondata nel cuscino.
Tony bofonchiò una risposta affermativa, tirando un respiro tremolante nella consapevolezza che quella notte non sarebbe mai riuscito a dormire e che, per quanto si sentisse egoista, non voleva comunque passarla da solo, né in silenzio.
«Pep?» chiamò piano, con voce ovattata, e la sentì girarsi verso di lui, in ascolto. «Ho ricordato anche altre cose,» disse, in tono spento.
«Di che tipo?» chiese lei, chiaramente presa in contropiede dalla sua loquacità notturna.
«Del tipo di cui avrei fatto a meno,» temporeggiò, senza però alcuna intenzione di sottrarsi all’argomento.
Il profondo stato di confusione in cui si era svegliato tornò a farsi sentire, spingendolo alla deriva. Esitò ancora, prima di riprendere a parlare.
«È colpa mia, se ho perso il braccio,» buttò fuori in un sol fiato, e dirlo gli causò un tale spaesamento da fargli credere di essere da tutt’altra parte; forse su un tetto distrutto, o in una grotta buia, o in un obitorio gelido.
«Tony? Che stai dicendo?» lo sbigottimento di Pepper era quasi tangibile.
Probabilmente credeva che stesse delirando, e forse non aveva torto.
«Ho cercato di aiutare Stane,» cercò di spiegare, senza alcun controllo sui suoi pensieri e sul modo in cui si tramutavano in parole.
Vide Pepper fare tanto d’occhi, sgomenta di fronte a quella confessione.
«Stava cadendo, l’ho afferrato e lui ha cercato di trascinarmi con sé,» s’interruppe, col respiro ora irregolare. «Non ci è riuscito solo perché mi sono incastrato, ma lui non mi ha mollato, non…» il rumore rivoltante del suo braccio che cedeva di schianto gli riempì la testa, e premette la bocca contro la federa, impedendosi di continuare e tramutare quei suoni in immagini.
La mano di Pepper tornò a sfiorargli i capelli, silenziosa ma rassicurante. Tesa, anche, turbata da quei ricordi che le aveva appena trasferito.
«Non so perché l’ho fatto,» riprese poi, frastornato. «Ma non l’ho ucciso io,» commentò poi, senza capire neanche lui se con rammarico o sollievo.
«Ti dispiace che sia morto?» chiese Pepper, con quello che assomigliava a incredula disapprovazione.
«No,» replicò subito lui, senza neanche doverci riflettere, con la rabbia che gli pungeva le viscere, lasciandogli però un sapore amaro in bocca. «Mi ha rovinato la vita. Se fosse sopravvissuto, avrei probabilmente finito per ucciderlo davvero,» continuò, a fugare ogni possibile dubbio, mentre i pensieri che aveva avuto durante lo scontro gli si ripresentavano davanti, violenti e brutali.
«Però?» Pepper gli offrì la deviazione di cui aveva bisogno, e la imboccò con sollievo anche se a tentoni, senza alcuna idea di dove l’avrebbe portato.
«Non lo so. Non ci capisco più niente, non so neanche perché me ne freghi così tanto o perché debba rimanere sveglio a pensarci,» sbottò con improvvisa frustrazione, stringendo i denti per la protesta dei moncherini a quel lieve sussulto.
Mentì solo in parte: non aveva davvero idea di come esternare a parole quel conflitto che si era scatenato dentro di sé e che si ostinava a sovrapporre il robottino rosso con la morsa crudele di Iron Monger.
«Era qualcuno di cui ti fidavi,» intervenne Pepper, cautamente, senza rompere il contatto con lui e accompagnando le proprie parole alle carezze che aveva ripreso a fargli. «Un socio, un amico tuo e di tuo padre… è normale sentirsi traditi, ed è normale che ti chieda perché sia successo,» concluse, usando la sua consueta logica ferrea e suonando allo stesso tempo impotente.
Aveva ragione, su tutto, ma ciò non quietava il maremoto in corso dentro di lui, impegnato com'era ad arrovellarsi su quei decenni di fiducia evidentemente fasulla, e poi su quei tre mesi in una grotta che li faceva sgretolare come sabbia al vento, e ancora su quella mezz’ora di scontro che li spazzava via del tutto. Cercava una connessione, un filo rosso, un qualcosa che giustificasse il tutto. Ma quando guardava indietro, incontrava solo lo sguardo severo di suo padre che gli diceva di non perdere tempo.
«C'è stato un periodo in cui chiamavo Stane "zio Obie",» esordì stancamente, col solo desiderio di poter gettar fuori i pezzi di quel puzzle destinato a rimanere irrisolto per poter finalmente chiudere gli occhi e dormire.
Sentì le dita di Pepper stringergli i capelli, sorpresa dalla piega che aveva preso la discussione.
«All’epoca ne capivo più di robotica che di parentele. Fu mia madre a spiegarmi che non era davvero mio zio... anche se non era facile farmi cambiare idea,» aggiunse, divertito.
«Ah, davvero?» commentò ironica Pepper, ma piano, come se temesse di dire qualcosa di sbagliato.
Tony accennò un sorrisino che parve rassicurarla.
«Sono migliorato, credimi. La facevo impazzire,» disse, prima di farsi di nuovo serio. «Stane non le è mai piaciuto,» rifletté, riprendendo il discorso e arricciando il lenzuolo tra le dita metalliche. «Ho fatto un errore stupido e ne ho pagato il prezzo,» concluse poi con durezza.
Gli tornò davanti il ricordo di quel piccolo regalo adesso affondato nel Pacifico, di Stane che glielo porgeva e di come sua madre avesse tenuto le mani sulle sue spalle come a proteggerlo discretamente, forse seguendo un qualche istinto innato. Lui allora aveva percepito solo affetto da entrambe le parti, racchiuso in un robottino rosso e nell’abbraccio materno, troppo piccolo per comprendere le dinamiche degli adulti, ma abbastanza grande da accorgersi dell’enorme vuoto che lo separava da suo padre, una sagoma fissa sullo sfondo della sua vita. Quando pensava a lui, la prima immagine che emergeva era quella della sua schiena, delle spalle diritte e contornate dalla linea austera di un completo scuro.
Stane era stato un rimpiazzo, così come Jarvis: assolutamente insufficiente a colmare il vuoto, ma comunque abbastanza per riuscire a ignorarlo o per gettare un ponte pericolante che a volte lo superasse.
Rimase in silenzio per un po', abbandonandosi alle carezze delicate e incoraggianti di Pepper. Normalmente non si sarebbe mai sognato di parlare in modo così aperto di certe cose. Aveva preferito rinchiuderle in uno stanzino della sua mente, così come aveva sigillato molti dei suoi ricordi materiali dietro la vecchia porta al piano terra. Anche se, più che uno stanzino, quella nella sua mente era una camera blindata a tenuta stagna, di cui aveva rafforzato sempre più le difese. Ultimamente, però, si era sentito sempre più incline a rimuovere un lucchetto e una serratura dietro l'altra, arrivando a mettere di nuovo piede in quel
caveau e scoprendo di avere molte, troppe cose da mettere in ordine prima che fosse troppo tardi. E Pepper era l’unica che riuscisse ad aiutarlo in quel compito gravoso. Poteva quasi sentire la voce burberamente soddisfatta di Ian bofonchiare l’ennesimo "gliel'avevo detto".
«Tony,» lo riscosse Pepper dopo un po' e in modo più acceso, come se avesse cercato di trattenere ciò che stava per dire senza però riuscirci. «Capisco che tu ti penta di aver
provato a salvare Stane, viste le conseguenze.»
Prese un breve respiro prima di continuare, tenendolo in sospeso.

«Ma non dovresti pentirti di aver
voluto salvarlo,» concluse, altrettanto rapidamente.
Tony provò a riflettere su quelle parole, ma rinunciò dopo appena qualche istante, logorato dal mal di testa e dalla rabbia repressa che aveva ripreso a scuoterlo.
«È la stessa cosa,» replicò asciutto. «Il risultato non cambia.»
«Non sto dicendo...» Pepper si interruppe, con un sospiro frustrato. «Tony, se potessi tornare indietro ti impedirei a tutti i costi di farlo... ma probabilmente ti impedirei anche di continuare ad essere Iron Man,» sbottò, e Tony sentì la sua mano contrarsi, tirandogli appena le ciocche come se volesse trattenerlo anche adesso. «Il punto è che sei fatto così. Non riesci semplicemente a tirarti indietro o a lasciare che gli eventi facciano il loro corso se puoi scegliere di fare la cosa giusta,» continuò, con una tale, cristallina convinzione che Tony non poté fare altro che guardarla vacuamente, muto e allo stesso tempo sentendosi riempito da quelle parole.
«Non sono
sempre stato così,» replicò infine, con voce debole. «Non ero poi tanto diverso da Stane,» aggiunse, con la consapevolezza latente che, considerato tutto il dolore che aveva provocato, quel contrappasso che aveva subìto era meritato e fin troppo clemente.
«Tony.» 
Pepper si chinò su di lui, accostandosi al suo volto e catturando il suo sguardo. 
«Non
osare paragonarti a lui. Sei un uomo migliore di quanto lui sia mai stato e sicuramente migliore di quanto credi.»
Lui incrociò con sorpresa i suoi occhi azzurri, trovandoli incolleriti di fronte alla sua affermazione detta a cuor leggero.

«Non appena hai scoperto cosa stessero facendo davvero con le tue armi hai cercato di rimediare, ignorando chiunque ti dicesse che era una follia, inclusa me e Rhodey. Era quella la cosa la cosa giusta da fare, anche se noi non riuscivamo a capirlo.»
Lui scosse la testa, rintanandosi più a fondo col viso nel cuscino.

«L’ho fatto solo grazie ad Iron Man… se non fossi–»
«L’hai fatto perché volevi farlo,» ribadì lei, senza cedere. «Ciò non cambia che tu prima abbia sbagliato, e noi con te,» aggiunse con palpabile rimorso. «Ma hai anche deciso di offrire al mondo molto di più di cose che esplodono. Non è per questo che hai creato Iron Man?» lo incalzò poi, rimanendo ancora a un soffio dal suo volto.
«L'ho creato per scappare e sopravvivere,» la smentì lui, pragmatico. «Non ti conviene farmi così eroico,» aggiunse, stemperando le sue parole con un mezzo sorriso non così sicuro di sé come avrebbe voluto.
«L'avrai anche creato per quello, ma nessuno ti ha costretto ad esserlo per tutta la vita,» lo rimbeccò lei, prontamente e con un guizzo di vittoria negli occhi.
Stavolta Tony ammutolì, sfuggendoli.
«Ho fatto una promessa,» esalò dopo un po', socchiudendo la palpebra per schermarsi dal suo sguardo vicino e penetrante, che per un attimo si era sovrapposto a uno altrettanto acuto e azzurro. «Non solo a te... ho il brutto vizio di parlare a vanvera, a quanto pare,» specificò, stringendo appena la federa del cuscino tra le dita mentre si lasciava sfuggire un sorriso amaro.
«Cosa hai promesso?» gli chiese lei, evitando col consueto, innato tatto di chiedere a chi l'avesse fatta.
«Di non sprecare la mia vita,» mormorò, senza curarsi di nascondere il tremito che scosse quella frase. «E probabilmente non riuscirò a mantenere né questa, né quella che ho fatto a te. Ma te l’ho detto: ci sto provando,» concluse, obbligandosi a guardarla di nuovo con tutta la fermezza che gli riuscì di recuperare.
«Lo so,» rispose semplicemente lei, prima di posargli un leggero e inaspettato bacio sulle labbra facendogli distintamente mancare un battito.
Pepper recuperò subito distanza, tornando seduta nella posizione di poco prima e riprendendo a giocherellare coi suoi capelli con la massima naturalezza; Tony sospirò appena, con l'impressione di respirare più liberamente e di avere almeno la metà dei pensieri a vorticare nella sua testa. La sagoma del robottino rosso sprofondò lentamente sul fondo dei suoi ricordi, così come l'oggetto materiale tra le onde dell'oceano. Sarebbe riemerso, era inevitabile, ma almeno avrebbe cessato di essere l'estremità di un filo ingarbugliato che forse non era così importante districare.
Finalmente, riuscì a chiudere l'occhio e riuscì a lambire il margine del sonno, cullato dal tocco di Pepper.
«Vuoi che rimanga?» gli arrivò da lontano, da oltre la soglia che aveva appena oltrepassato.
Il suo cuore mancò un altro battito, ma non si mosse, né parlò.
Quel filo, quello teso tra loro, era molto più importante di qualunque altro. 
Di nuovo, gli sembrò che fosse la voce scontrosa di suo padre a riempire il silenzio.

Che cosa stai facendo?”
Stava aspettando. Aspettare era stato un modo per credere che ci sarebbe stato un momento migliore di quello. Per tutto, per un “loro”. Adesso rischiavano di non avere più alcun momento.
Si stava spegnendo a poco a poco divorato dal palladio, dai rimpianti e dai rimorsi che cercava di attenuare sempre più giorno dopo giorno. Sapeva di aver imboccato la strada giusta, e di aver compiuto progressi non trascurabili. Ma non era abbastanza, nonostante si sentisse più vivo e completo che mai e nonostante sapesse di aver portato a termine molto più di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Non era
mai abbastanza. E forse avrebbe dovuto smettere di voler fare di più di così e accettare che ci fossero anche dei limiti non imposti da lui stesso.
Continuò a fingere di dormire e lei ad accarezzargli i capelli come una brezza leggera, trascinandolo sempre più vicino al dormiveglia.
«Stai mantenendo entrambe le promesse,» credette di sentirla dire sottovoce, prima che gli arricciasse un'ultima volta le ciocche sulla fronte tra le dita e ritraesse senza fretta la mano, indugiando poi sulla nuca e sulla base del collo, a voler prolungare quella carezza.
Gli sfuggì un respiro più profondo, che non seppe ricondurre con sicurezza alle parole o al gesto, ma che gli svuotò ancora un po' i polmoni, allentando la rete plumbea che li stringeva.

Forse domani.”
Quel pensiero navigò sulla superficie della sua mente, lasciando una scia d’aspettativa dietro di sé. Percepì Pepper che si alzava alzarsi ai margini della sua coscienza, e quando la serratura della porta scattò galleggiava già nel dormiveglia. Il calore delle sue labbra aleggiò ancora a lungo sulle proprie.
"Domani," stabilì tranquillo, scostando appena il velo del sonno per poi richiuderlo con delicatezza.
Aveva molte cose da fare, ed era l'ultima volta che rimandava.




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Note Dell'Autrice:

Buonsalve a tutti e Buon Anno Nuovo! :D
Miracolosamente, arrivo quasi in orario, cosa che in realtà non mi sarei mai aspettata, vista l'osticità del capitolo. E sì, Knockin' on Heaven's door, perché Stairway to Heaven era troppo scontata, dopo lo scorso capitolo :P
Voilà, l'ennesimo notturno condito con Pepperony tutto per voi <3 Ammetto che questo è stato un capitolo un po' "cercato", per soddisfare sia la mia vena angst che quella fluff, e spero che vi riterrete soddisfatti di entrambe anche voi :)
Vi sono delle ambiguità studiate, molti richiami a capitoli precedenti non sempre esplicitati e una precisa volontà di rendere contraddittori e vaganti i pensieri di Tony, soprattutto sul "tema-Stane". Sono curiosa di sentire i vostri commenti, opinioni e interpretazioni in merito :)
(e riguardo al tutto, il testo della canzone dell'intro gioca un ruolo di discreto rilievo).

Detto ciò, sono veramente al settimo cielo per aver "raccolto" così tanti nuovi lettori e persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, ricordate o preferite <3 Un grazie va quindi a St4rk_yEmyclarinet (grazie per la "doppietta!"), _Atlas_, e T612 per aver recensito lo scorso capitolo e a Flavia_14 e Sissi Malfoy Black per aver recensito quello precedente :) Un grazie speciale a shilyss per aver iniziato a leggere e recensire addirittura dal primo capitolo, facendomi una bellissima sorpresa <3

Spero di aggiornare in tempi umani, ma non penso di riuscire a pubblicare prima di febbraio causa sessione, quindi purtroppo la pacchia è finita :')
Hasta la vista e vi auguro un buon ingresso nel 2019 :D

-Light-

P.S. Il vestito coi fiordalisi di Maria è un blando rimando alla mia one-shot Sonata n°5 «Primavera» (o anche: I Love Rock 'n' Roll).
P.P.S. Il "robottino rosso" è, nello specifico, Robby The Robot, ovvero codesto orrore. Tanto per ribadire il cattivo gusto di Obie.

EDIT: Ringrazio infinitamente la mia carissima Matilde per questo disegno meraviglioso ispirato al capitolo <3 


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