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Autore: Adeia Di Elferas    31/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'abbraccio che Caterina e Piero si erano scambiati al momento di salutarsi aveva in sé qualcosa di mesto, quasi entrambi avessero paura che quella fosse l'ultima volta.

“Spero di rivederti presto.” sussurrò il Landriani, quando ancora teneva tra le braccia la sorella.

“Cercherò di passare ancora di qui, magari anche prima dell'estate.” disse la Sforza, dandogli un colpetto sulla schiena, a mo' di incoraggiamento: “E nel frattempo ti terrò aggiornato su tutto e spero che tu farai altrettanto con la situazione di questa rocca.”

Il giovane annuì e si separarono. Erano poco lontani dal portone d'ingresso, ultimo limen oltre il quale il castellano non poteva andare.

Lo stalliere arrivò con passo lento, portando per le briglie lo stallone della Contessa e si fermò a un paio di metri di distanza, per dare ai due modo di continuare a parlarsi senza dar loro l'impressione di essere lì per origliare.

“Passata bene la notte?” chiese Piero, notando l'arrivo del suo subalterno con la coda dell'occhio.

Non aveva fatto domande in merito a quella questione, mentre erano a colazione, ma per stemperare un po' il nodo allo gola che gli stava facendo perdere la voce, aveva preferito sviare il discorso, come se bastasse per fargli dimenticare che quel saluto alla sorella poteva essere l'ultimo.

La Tigre, parimenti a lui, accolse con piacere quel cambio di registro e, con un sorriso che la diceva lunga, confermò: “Molto bene, grazie.”

“Ne sono felice.” fece di rimando il castellano e poi, facendo segno allo stalliere di avvicinarsi, aggiunse: “Quando tornerai, se vuoi, farò in modo di fartelo incontrare di nuovo.”

Caterina non disse né no né sì, ma l'insistenza con cui guardò il giovane che si era avvicinato assieme allo stallone lasciò intendere al fratello che quella fosse un silenzioso assenso.

“Per quella questione del grano di cui parlavamo a colazione – disse la Contessa, come ricordandosene all'ultimo momento – ti farò sapere qualcosa non appena l'ambasciatore di Firenze saprà essere più chiaro.”

Landriani annuì: “Certo, nessun problema.”

A quel punto alla Leonessa non restava che partire e così, stringendo con forza la mano del giovane castellano, sentendo improvvisamente il desiderio di restare lì con lui, sia per scappare dalla sua caotica vita, sia per avere qualcuno di familiare e così benevolo accanto, lo salutò una volta per tutte: “Stammi bene, fratello.”

“Stammi bene, sorella.” fece eco lui e l'aiutò a montare in sella.

Mentre la donna varcava il portone e si avviava verso la strada, sotto un cielo grigio che prometteva un bel temporale, Piero si rivolse allo stalliere, dandogli una forte pacca sulla spalla, con una risata: “E bravo. Da quel che ho capito stanotte di sei fatto onore.”

Il ragazzo non disse nulla, ma il rossore sul suo viso e lo scintillare dei suoi occhi diedero conferma alle parole del suo capo.

Con il sorriso che pian piano si spegneva, mentre la sua vita tornava rapidamente al consueto susseguirsi di impegni, Piero gli diede un altro colpetto e poi lo oltrepassò, diretto ai baraccamenti dei soldati.

Caterina gli aveva chiesto una difesa efficiente e impeccabile. Per poterle offrire quel che chiedeva, doveva cominciare fin da subito a mettere in riga i suoi soldati, trasformandoli in un reparto scelto, esattamente come sua sorella voleva.

“Giù dalle brande!” ordinò il Landriani, trovando la truppa già in gran parte sveglia: “Vi voglio pronti tra cinque minuti nel cortile!”

Come di consueto, senza borbottare né tergiversare, i suoi uomini cominciarono a prepararsi, rapidi e ordinati. Piero li teneva d'occhio mentre, a piccoli gruppi, uscivano nel cortile com'era stato loro chiesto di fare. Si sentiva forte e sicuro di sé. Soldati molto più esperti e spesso più vecchi di lui lo rispettavano ed eseguivano i suoi comandi.

Forse Caterina aveva ragione e il papa li avrebbe uccisi tutti e a breve, ma al giovane bastava vedere quanto i suoi soldati lo stimassero per essere ripagato di tutto. Sarebbe morto combattendo, come anche sua sorella aveva deciso di fare, e la sua vita non sarebbe stata vana.

“Sono tutti nel cortile, mio signore.” gli disse uno dei suoi Capitani.

“Bene. Divideteli in gruppi. Oggi ci esercitiamo con il corpo a corpo.” decise Piero, uscendo a sua volta dai baraccamenti, seguito dal suo secondo: “E non ci fermeremo nemmeno se inizierà a piovere. Li voglio pronti a tutto. La prossima guerra potrebbe essere combattuta in inverno, con il freddo e con il mal tempo, quindi dobbiamo essere preparati anche a questo.”

Il Capitano chinò il capo e poi corse a ripetere gli ordini, mentre il castellano, compiaciuto del lavoro svolto fin dal suo arrivo a Forlimpopoli, si mise in un angolo a osservare in silenzio, pronto a correggere, lodare o punire chi lo meritava.

 

“Temevo che piovesse.” disse la Sforza, rispondendo allo sguardo curioso del castellano.

“Capisco.” ribatté lui, capendo benissimo che quella era solo una scusa: “Comunque, adesso che siete tornata, c'è una cosa di cui vorrei parlarvi, anche se non è piacevole...”

“Ditemi tutto.” lo invitò la Contessa, benché avesse ancora indosso il mantello e desiderasse solo andare un momento in camera a cambiarsi, prima di gettarsi in pasto ai doveri di quella giornata.

“Ecco, mi è stato da poco riferito che questa notte vostro figlio Ottaviano è uscito in città e ha avuto una discussione abbastanza accesa con un... Con il proprietario di un postribolo che l'accusa di aver picchiato una delle ragazze e...” cominciò a dire Cesare, cercando le parole migliori per spiegare l'entità dell'accaduto senza scatenare le ire della sua signora.

“Vi avevo detto di non lasciarlo uscire, in mia assenza.” fece notare lei, rigida.

“Mi spiace. Avevo dato l'ordine alle guardie, ma evidentemente messer Ottaviano ha trovato il modo di eluderne la sorveglianza.” si giustificò il castellano, deglutendo.

Colpita da quella notizia – nulla di nuovo, in realtà, per quanto pesante – la Tigre si sedette un momento sulla poltrona che per anni era stata il rifugio diurno di Giacomo e si premette una mano sugli occhi, prima di esclamare, contrariata: “Se un incapace di vent'anni riesce a eludere i controllo delle mie guardie e uscire da Ravaldino, mi pare ovvio che suddette guardie sarebbero del tutto inutili davanti a un nemico che volesse entrare!”

“Ma, ecco, mia signora... Messer Ottaviano è vostro figlio e nessuno si arrischia a contraddirlo, quando...” provò a dire il Feo, ma si zittì, perché la donna aveva sollevato la mano con fare imperioso verso di lui.

“Sappiamo che cos'ha fatto di preciso a questa ragazza?” domandò Caterina, frenando la rabbia, per evitare di prendere decisioni avventate.

Purtroppo sapeva da molto tempo che Ottaviano sapesse far male alle donne che puntava, e aveva sempre fatto finta di niente. Avrebbe dovuto fare di più, ma la sola idea di affrontare la situazione l'atterriva. Le ricordava troppo da vicino quello che Girolamo, in passato, aveva fatto spesso a lei. E anche se il suo primo marito non l'aveva mai colpita solo per farle male, ogni tanto aveva usato la violenza per forzarla e tanto le era bastato. Sapeva che con le altre amanti il Riario sapeva essere anche desiderabile, anzi, aveva saputo per vie traverse, quando ancora viveva a Roma, che c'erano donne che lo cercavano prima che fosse lui a cercare loro. Con lei, però, non c'era mai stato un briciolo di umanità o pietà, era sempre stato come la prima volta.

Sapere il suo primogenito capace di tanto, addirittura più cattivo e manesco del padre, la spaventava. In passato aveva provato a riprenderlo, a sgridarlo, a tagliargli i fondi per impedirgli di frequentare i bordelli della città, ma erano state tutte misure inutili se non a tratti dannose.

“Se ho capito bene – raccontò il castellano, restando trincerato dietro la sua scrivania – l'ha presa a pugni, le ha usato violenza e poi l'ha picchiata di nuovo. È viva, ma non sta certo bene.”

La Sforza si prese qualche istante e poi concluse: “Penserò a un modo per punirlo. Intanto pagate un indennizzo al proprietario del postribolo e... E comprate la ragazza. Appena si sarà rimessa, la manderò a Imola. Dirò al Governatore Corradini di trovarle un buon posto, magari nelle cucine della rocca o qualcosa del genere...”

“Come desiderate, mia signora.” fece subito il castellano, chinando il capo.

Poi, vedendo che la Leonessa restava fissa sulla poltrona, Cesare pensò bene di lasciarla sola con i suoi pensieri e così si dileguò, borbottando qualcosa riguardo gli ordini che gli erano stati dati.

Caterina rimase ancora un po' immobile, cercando di pensare a suo figlio, ma, di fatto, ricordando solo la notte che aveva trascorso a Forlimpopoli. Con un sospiro pesante, si rimise in piedi e diede una scorta alla scrivania del Feo.

Era ingombra da una serie di carte, in disordine, messe in pigne apparentemente casuali, libri contabili e fogli di appunti. La Tigre si trovò a pensare che, rispetto al ruolo di Piero a Forlimpopoli, quello di Cesare lì a Ravaldino era molto differente.

Il Feo era più un contabile e un compilatore che non un uomo d'azione. Un po' per l'età, forse, e un po' perché in quella rocca era la stessa Contessa a fare le reali veci di un castellano. I soldati, le bocche da fuoco e le armi erano tutti sua diretta competenza, mentre a Cesare restava il resto.

A ben pensarci, a mente fredda, passati gli anni, la donna si rese conto che quel ruolo non poteva essere adatto a Giacomo. Quando era stato castellano, era stata lei a badare a tutto, e ora capiva che non era solo perché lui non ne avesse voglia, ma soprattutto perché non ne aveva le capacità.

Con un respiro incerto, Caterina lasciò lo studiolo e andò verso la sua stanza, per cambiarsi e riprendersi un momento, la mente che, finalmente, si metteva a ragionare sulla punizione da dare a Ottaviano.

 

Il quasi ottantenne Agostino Barbarigo si schiarì la voce, raddrizzandosi un po' sul suo scranno e guardando poi Bartolomeo d'Alviano con occhio indagatore: “La vostra richiesta non è da poco.”

“I miei servigi non sono da poco.” disse in fretta il condottiero, cercando di non incespicare con le parole, malgrado la sua lingua malmessa quel giorno non volesse collaborare.

Il Collegio era tutto riunito, ma era come se il Doge stesse discutendo a tu per tu con il suo riottoso comandante. Gli servivano, le spade di Bartolomeo, se ne rendeva conto come non mai. Aveva deciso di allearsi con la Francia, ma non poteva comunque starsene tranquillo. C'erano già troppe voci su possibili traditori, uomini per i quali avrebbe messo una mano sul fuoco che di punto in bianco parevano decisi a rivolgersi a Milano e non più a Venezia...

Se avesse perso l'Alviano, chi avrebbe potuto dare una speranza alla Serenissima, se anche quel rissoso soldato avesse mollato l'osso?

“Non spetterebbe a Venezia, però, questa spesa. Voi siete già stipendiato e quindi...” provò a dire Barbarigo, che sapeva benissimo quanto dovesse tenere strette le cinghie della sua borsa.

I conti della Serenissima erano in seria difficoltà e man mano che la via commerciale verso l'oriente si affievoliva, la situazione peggiorava continuamente. Il Nuovo Mondo, come lo chiamavano, cominciava a prendere una forma nelle idee dei potenti del Vecchio Mondo e Agostino sapeva che quella sarebbe stata la fine, per il suo Stato. Poteva solo cercare di ridurre l'emorragia di denaro causata dall'ultima guerra.

“Millecinquecento ducati.” disse lapidario Bartolomeo, parlando a scatti per evitare di impappinarsi e farsi ridere dietro da tutti: “Per ricostruire l'organico della mia compagnia. Senza, non potrò più stare al vostro servizio.”

Il Doge restò un momento in silenzio e poi occhieggiò verso il suo segretario. Questi, che conosceva perfettamente le possibilità di Venezia, con un cenno impercettibile gli diede un tacito consenso e così Barbarigo strinse le labbra, preparandosi a cedere.

Avrebbe voluto far notare all'Alviano che i Baglioni, con cui aveva avuto tanta fretta di imparentarsi dopo la morte della sua prima moglie, erano abbastanza ricchi da potersi permettere una spesa simile. Tuttavia temeva di adirarlo senza motivo.

Le voci sul caratteraccio di Bartolomeo si sprecavano, ormai, ed era anche abbastanza di dominio pubblico il suo disprezzo per il cognato e la sua avversione nei confronti della moglie.

Forse, anche solo suggerire un aiuto da parte dei perugini sarebbe equivalso a perdere definitivamente il condottiero che, per quanto difficile da gestire, restava il più prezioso nelle schiere veneziane.

“Millecinquecento ducati – annunciò – ma vincolati alle spese per la ricostituzione della vostra compagnia.”

L'Alviano si ritenne soddisfatto. Fece un breve inchino come ringraziamento e poi, senza aspettare altro, voltò le spalle al Doge e, con il suo passo imponente, lasciò la sala del Consiglio.

Una volta all'aria aperta, l'uomo inspirò con forza e sentì l'odore della laguna lo fece tornare indietro negli anni. Quello di Venezia era uno strano sentore, di mare e di porto di fiume, con qualche intuizione speziata e orientale. Però, fatte le dovute differenze, non era poi così diverso dall'odore del lago di Bracciano.

Mentre un piccolo drappello di suoi uomini lo raggiungeva, Bartolomeo deglutì con forza, per sbarrare la strada ai ricordi. Doveva convincersi che il castello di Bracciano non era più casa sua, che gli Orsini non erano più la sua famiglia e che adesso era Pantasilea la moglie da cui doveva tornare e non Bartolomea.

“Appena ci avranno versato i soldi – disse al suo attendente, appena lo raggiunse, non preoccupandosi più di tanto dei suoi difetti di pronuncia – arruoleremo gli elementi che ci mancano e partiremo per l'Umbria.”

 

La sensazione del sangue tra le dita era appiccicosa e calda. Le narici si riempivano del suo tanfo ferroso e vivo, e la carcassa che le stava davanti giaceva immota come un'ombra priva di peso.

In quella luce non riusciva a capire se fosse una bestia, un uomo o cos'altro. Sapeva solo di essere stata lei a ucciderlo.

Guardinga, si abbassò un po', l'odore del sangue ancora più forte, tanto da darle la sensazione di essere in procinto di annegare, come se fosse immersa in un mare scarlatto pronto a risucchiarla.

Toccò con circospezione il corpo senza vita che le stava davanti e si accorse che si trattava di un uomo. Lo girò con un gesto frettoloso, per vederlo in volto e di colpo quella che era stata fino a un momento prima una cella umida e buia si trasformò in una chiesa ampia e luminosa e poté così vedere i connotati del morto.

Non riconobbe il viso tumefatto, né le membra disfatte, ma i capelli biondi sì, lunghi e scompigliati, impastati di sangue e fango, come se fosse appena stato ripescato da un fossato in un giorno di pioggia.

Caterina si risvegliò senza fiato, mettendosi a sedere, svelta come una molla. Sbatté le palpebre qualche volta e finalmente mise a fuoco la stanza. C'era ancora buio, ma l'alba non doveva essere lontana.

Aveva passato la prima parte della notte con un soldato, non riuscendo a trattenersi, per quanto avesse tentato di farlo, ma poi era rimasta come sempre sola, aveva cambiato stanza, e, anche se si era addormentata abbastanza facilmente, aveva trascorse intere ore preda dei fantasmi della sua testa.

Sentiva un tremito lungo tutto il corpo e anche cercando di scacciare la vivida immagine lasciatale dall'incubo non riusciva a scrollarsi di dosso quella strana sensazione, come se l'odore del sangue potesse ancora arrivare alle sue narici, malgrado fosse stata solo un'illusione.

Si mosse un po' nel letto, e avvertì una piccola fitta alla pancia. Era un genere di dolore che riconosceva molto bene. Con il cuore che batteva più rapido, nella speranza di trovare finalmente esaudito il suo voto fatto alla madonna di Loreto, la Contessa scostò le coperte e si accorse di aver sanguinato, e non poco, quasi che il suo corpo volesse finalmente toglierle ogni dubbio e ripagarla per la lunga e tormentata attesa.

Entusiasta, si alzò subito, si cambiò e mandò a chiamare Argentina. Dato che ormai aveva accettato il posto di sua cameriera personale, era giusto che si occupasse lei di quel genere di incombenze.

Le chiese di cambiarle le lenzuola e poi di prepararle la biancheria. Nel frattempo, stando vicino alla finestra con le braccia incrociate, la Leonessa guardò un po' fuori, sentendosi così sollevata da non avvertire nemmeno i crampi all'addome che si erano fatti già abbastanza fastidiosi.

“Quando avrai finito – disse dopo un po' alla serva – cerca il mio medico e digli che è andato tutto per il meglio, lui capirà.”

Anche Argentina credeva di aver capito quale fosse la questione e così, con un sorriso complice, annuì e assicurò: “Riferirò le vostre esatte parole, mia signora.” e poi aggiunse: “Volete che vi porti uno dei vostri decotti per il dolore?”

La Contessa scosse il capo: “Per ora no. Anzi, adesso devo andare, perché ho da fare.”

Passò dallo studiolo del castellano, trovandovi Cesare Feo già intento a dedicarsi alle sue carte e gli disse di convocare alla rocca il prima possibile sia Alessandro Orfeo, sia Andrea Pazzi, perché doveva comunicare loro qualcosa di molto importante.

Un po' sconcertato sia dalla richiesta, sia dalla fretta, l'uomo preferì comunque non fare domande e disse che li avrebbe convocati entro mezzogiorno.

Sistemata quella faccenda, sicura di riuscire a imporsi sui due ambasciatori, la Tigre veleggiò veloce verso la stanza di Ottaviano. Era stato facile, quella mattina, mentre Argentina risistemava il suo letto, immaginarsi una punizione per suo figlio. Non sarebbe stata una cosa violenta, né definitiva, ma l'avrebbe allontanato per un po' e, forse, l'avrebbe aiutato a schiarirsi le idee.

Bussò con forza alla porta, non sentendo risposta per quasi cinque minuti. Solo quando stava per desistere, credendo che il giovane fosse magari già uscito, la voce strascicata del Riario chiese chi lo stesse cercando.

“Sono io.” rispose la madre, a voce abbastanza alta: “Sbrigati ad aprirmi.”

Bastarono pochi secondi e il ragazzo, ancora in abiti da camera, schiuse la porta. La Contessa la spalancò, entrando prima che il figlio potesse dire una parola e poi la richiuse subito.

“Devi partire per Loreto.” gli disse, senza tanti preamboli: “Devi portare un mio ex voto al santuario.”

“Perchè devo andare io?” chiese il giovane, confuso.

“Perché non sei in grado di portarti a letto una donna senza massacrarla, ecco perché.” rispose rigida la madre, senza guardarlo.

Ottaviano, gli occhi ancora cisposi di sonno, si grattò la nuca e, rinunciando in partenza a opporsi o chiedere altre spiegazioni, domandò solo: “Quando devo partire?”

Caterina avrebbe voluto rispondere 'subito', ma sapeva che non dipendeva solo da lei. Prima doveva parlare e convincere Pazzi e Orfeo e solo dopo avrebbe potuto far partire il figlio.

“Dopo domani, non più tardi.” decise, facendo due rapidi conti.

Il Riario, che solo fino a qualche anno prima si sarebbe arrabattato a trovare scuse o a scaricare l'impegno a terzi in qualche modo, annuì un paio di volte e poi disse solo: “Va bene.”

In qualche modo sentiva che quella richiesta della madre dovesse c'entrare con il fattaccio della notte prima. Se un misero pellegrinaggio era una punizione, ebbene, l'accettava volentieri.

“E fatti tagliare un po' quei capelli – lo criticò la Tigre, appena prima di uscire dalla stanza, trovando l'argomento principale concluso – non ti si può vedere, conciato così. Dopo un solo giorno di viaggio quei riccioli sembreranno nidi di rondine, se no!”

Ottaviano si portò istintivamente una mano ai capelli, ma, anche quella volta, non ebbe lo spirito di ribattere.

“E sii pronto a partire. Non voglio storie, quando sarà il momento!” aggiunse la donna, quando ormai era già in corridoio.

Bianca, che stava raggiungendo la sala delle letture con l'Ars Amatoria di Ovidio sotto al braccio, si accigliò e, avvicinandolesi, le chiese: “Dove deve andare, mio fratello?”

“A Loreto.” rispose sintetica la madre.

La Riario capì al volo e non trattenne un sorriso colmo di sollievo, sia perché sapeva quanto sua madre fosse angustiata dall'idea di poter aspettare un figlio da Manfredi, sia perché lei stessa non lo voleva, un fratellastro che avesse il sangue di un uomo che aveva amato.

Sorprendendo un po' la Contessa, Bianca l'abbracciò in uno slancio e, appena prima di staccarsi da lei, disse: “Non potete nemmeno immaginare quanto sia felice.”

La Sforza la ringraziò per quella manifestazione d'affetto e poi proseguì per la sua strada. La figlia, il petto che le scoppiava di gioia, sinceramente liberata da un peso che iniziava a schiacciare anche lei, man mano che i giorni passavano, si prese un istante e si andò a sedere un attimo su una delle panchette di pietra lungo la parete.

L'unica cosa che non le tornava, nel ragionare su quella situazione, era il fatto che Ottaviano andasse a Loreto e non sua madre. Immaginava che si trattasse di un motivo legato alla sicurezza dello Stato, tuttavia non poté fare a meno di pensare: 'ricevuta la grazia, gabbato il santo...'.

 
 
   
 
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