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Autore: Adeia Di Elferas    01/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La sala consiliare, scelta dalla Tigre appositamente per evitare di mostrare troppo l'interno della rocca al fiorentino, era fredda, nonostante il clima esterno fosse ormai primaverile, e anche abbastanza buia. Le spesse nubi che coprivano il sole gettavano un'ombra sinistra anche all'interno del palazzo dei Riario e la Sforza non aveva dato ordine di accendere candele o torce, dicendo che tanto gli incontri che aveva in programma sarebbero stati entrambi molto brevi.

“Ma per arrivare a Loreto ci vogliono almeno quattro giorni di viaggio...” provò a opporsi Andrea Pazzi, guardando alternativamente la Sforza, Ridolfi e Luffo Numai.

I due uomini si erano presentati a dar man forte alla loro signora per suo espresso volere e avevano capito molto presto il motivo della sua richiesta. Mandare due ambasciatori stranieri come accompagnatori del figlio in un pellegrinaggio legato a un voto di natura prettamente personale – e segreta per di più – non era un affare semplice.

“C'è bel tempo – disse la Tigre, proprio mentre risuonava un tuono che preludeva a un temporale imminente – in tre giorni ci si arriva, a Loreto.”

Il fiorentino pareva un pesce preso all'amo e, solo davanti a tre persone che lo fissavano come fosse stato sotto processo, cominciò a sudare freddo e balbettò: “Ma... Ma perché io..?”

“Perché Firenze mi ha detto di far di voi quel che credo – largheggiò Caterina, benché sapesse benissimo che la Signoria era stata molto meno brillante, in merito alle disposizioni su quell'ambasciatore – e dunque io credo che dovreste accompagnare mio figlio in questo pellegrinaggio, perché con un importante fiorentino al suo fianco, nessuno lo attaccherebbe, pena incappare poi nelle ire di Firenze.”

Il ragionamento, pensò Pazzi, filava, tuttavia non gli quadrava ancora il fatto che dovesse essere proprio lui l'oggetto di quella bella pensata della Contessa.

“Ma... Ecco, non potrebbe accompagnarlo magari lui?” chiese, indicando Ridolfi: “In fondo anche lui è cittadino di Firenze e...”

“Voi siete l'ambasciatore di Firenze, messer Ridolfi è il mio Governatore. Andrete voi e basta.” si spazientì la Leonessa: “E non sarete solo, con voi ci sarà anche l'ambasciatore di Milano e un manipolo di soldati scelti che mi premurerò di pagare personalmente.”

Il fiorentino si allentò un po' il colletto del giubbone e poi, non vedendo altra soluzione, terrorizzato com'era da una possibile ritorsione da parte di quella ferina donna, nel caso in cui avesse opposto un netto rifiuto, annuì e farfugliò: “Sì... Sì, ecco... Sì, se... Se così avete deciso...”

“Molto bene.” concluse la Contessa, indicandogli la porta: “Adesso andate e preparatevi a partire nel giro di un paio di giorni.”

L'ambasciatore se ne andò quasi di corsa, suscitando un sorriso in Simone e un'alzata di sopracciglia in Numai. Solo la Tigre restò pressoché impassibile. Trovava avvilente per se stessa il fatto che Firenze le avesse mandato Pazzi come ambasciatore e, ancora di più, che lo avesse riconfermato quando lei aveva fatto richiesta di avere di nuovo un diplomatico della repubblica presso Forlì.

Scegliere un simile individuo per parlamentare con lei dava la cifra esatta del rispetto e della considerazione che nutrivano per lei i fiorentini.

“Fate entrare Orfeo.” sospirò Caterina rivolgendosi al Governatore.

L'ambasciatore di Milano entrò nella sala con fare molto più guardingo rispetto al fiorentino. Non gli era piaciuta, quella convocazione improvvisa e tanto meno lo tranquillizzava il fatto che oltre alla Contessa ci fossero due dei suoi più notori tirapiedi.

Come aveva fatto con il Pazzi, Caterina espose ad Alessandro quel che aveva in mente, badando bene a non porre la cosa come una richiesta, ma come un chiaro ordine.

“Io credo che dovrei prima avere la conferma da parte del Duca di poter partire.” fece notare l'Orfeo, mentre uno scroscio improvviso di pioggia contro i vetri delle finestre faceva sobbalzare tanto lui, quando gli altri presenti, esclusa la Leonessa.

“Penso io a parlare con mio zio. Voi dovete accompagnare mio figlio, sarete la sua garanzia. Non lo toccherà nessuno, se con lui ci sarà un uomo del Moro.” disse la donna, senza ammettere repliche.

“Non penso di potermi assentare così a lungo, però... Loreto non è vicina e con la condizione precaria delle strade non sarà facile...” cominciò a dire l'ambasciatore, guardando torvo la Sforza e poi cercando silenzioso appoggio in Numai, che, però, si era messo a fissare l'orizzonte, come se la cosa non lo toccasse minimamente.

“Tre giorni di viaggio andare e tre a tornare, il tempo di portare l'ex voto in Santa Maria a Loreto e il vostro compito sarà concluso.” spiegò Caterina: “Per una settimana, Forlì e il Ducato potranno sopravvivere anche senza di voi.”

L'Orfeo colse la vena di derisione che era sottesa alle parole della sua interlocutrice, ma ricordava anche troppo bene le ultime lettere del Moro, che gli intimava di non trovare motivi di scontro con la Sforza, tanto meno se futili.

“Se è proprio necessario, per farvi stare tranquilla, allora partirò. Quando?” domandò l'ambasciatore, gli occhi freddi che indugiavano sui tre che aveva davanti.

“Tra un paio di giorni. Non più tardi del dodici maggio.” rispose la Tigre, pronta.

“Come mai così presto?” s'informò il milanese, sperando di poter estrapolare anche in quell'occasione qualcosa di cui parlare nella sua prossima lettera per il Duca.

“Perché voglio che Ottaviano sia qui entro il venti del mese.” ribatté la Contessa, con tono di ovvietà.

“Come mai?” insistette Orfeo, quando si accorse degli sguardi un po' accigliati di Ridolfi e Numai che, evidentemente, erano all'oscuro quanto lui dei calcoli fatti dalla loro signora.

“Perché il venti del mese mio figlio Cesare partirà per Roma e voglio che lui e Ottaviano abbiano il tempo di salutarsi.” la voce della Contessa era sottile, quasi restia: “In fondo sono fratelli.”

'Potrebbe essere l'ultima volta che si vedono' commentò nella sua mente, evitando però di scoprire così tanto le sue carte con Alessandro.

L'ambasciatore dovette dirsi d'accordo con lei, anzi, era rimasto così sorpreso da quella delicatezza nei confronti dei due giovani Riario che arrivò a chiedersi quanto l'idea che si era fatto della Tigre fosse corretta.

 

Bernardi passò con fare deciso il rasoio sulla stuoia di cuoio e poi scosse il capo con forza: “No, no, non so di nessun voto fatto dalla Contessa, mi spiace deludervi.”

“E meno male che eravate suo amico e confidente...” sbuffò l'Orfeo, allungando un po' il collo per permettere al barbiere di raderlo meglio.

Passando la lama sulla pelle del cliente con una maestria che avevano in pochi, Andrea fece di nuovo segno di no e specificò: “Sono un umile suddito, come tutti.”

Un paio di forlivesi che aspettavano il loro turno, borbottarono qualcosa, ma nessuno dei due osò contraddire a voce alta il Novacula. Tutti quanti sapevano quanto, soprattutto in passato, il legame tra la Tigre e Andrea fosse stato stretto, e in molti si erano anche accorti che negli ultimi tempi quella vicinanza si fosse un po' ridotta, anche se nessuno aveva idea di quale fosse il motivo.

Certi sostenevano che il sedicente storiografo fosse stato geloso della sua signora fin dall'arrivò a Forlì di Giovanni Medici, e poi, morto il fiorentino, di tutti quelli che l'avevano succeduto, altri, invece, pensavano che si trattasse solo di una questione di soldi.

L'ambasciatore, che aveva deciso di farsi sbarbare al solo scopo di saperne di più circa il viaggio che sarebbe stato costretto a fare di lì a poco, trattenne a stento uno sbuffo e poi, appena il Novacula sollevò il rasoio, lasciandolo libero di parlare tranquillamente, commentò, con tono volutamente leggero: “Non sapevo che la Contessa fosse così devota... Per come me l'hanno sempre descritta e per come l'ho conosciuta io, credevo fosse una specie di mangiatrice di preti...”

“Mangiatrice di preti...” sbuffò il barbiere, dando l'ultima aggiustata al mento del milanese: “Non sta a me dirlo, ma vi ricordo che anche uno dei figli della Contessa è un prete e che, anzi, presto partirà per Pisa, per il gran mondo e un giorno, Dio voglia, potrebbe perfino diventare papa.”

I due avventori che aspettavano seduti vicino al muro annuirono, anche se, all'Orfeo non sfuggì, nei loro sguardi c'era un velo di scetticismo più che visibile.

Quando l'ambasciatore del Duca Sforza lasciò la barberia e il Novacula poté dedicarsi al cliente successivo, però, Andrea non riusciva a togliersi di mente quello che il milanese gli aveva detto. Un voto alla Madonna di Loreto era quanto di più inaspettato vi fosse, a parer suo, se si parlava della Contessa.

A maggior ragione in un momento del genere, subito dopo la morte di Ottaviano Manfredi, suo noto amante, a breve dalla bolla papale con cui le veniva tolto formalmente il suo Stato, e a un passo da quella che si preannunciava a detta di molti un'estate di siccità – perchè anche se fuori imperversava il terzo temporale nel giro di pochi giorni, Bernardi era certo che le previsioni sul tempo fossero corrette – e tribolazioni. Proprio non capiva di cosa la Tigre potesse voler ringraziare la Madonna...

 

Il giorno seguente Ottaviano sarebbe partito per Loreto assieme ai due ambasciatori designati dalla madre. Aveva smesso di piovere già nel primo pomeriggio e quella sera, nel silenzio della sua stanza, la Sforza stava cercando le parole migliori per scrivere a suo zio di quel viaggio.

Si era ripromessa di non attendere l'ultimo minuto, ma di fatto era stata così assorbita dai suoi impegni da finire con il dimenticarsene. Solo quando era calato il buio e si era trovata sola, già in abiti da notte, aveva pensato che fosse il caso di non tergiversare più, prima che il Moro venisse a sapere dell'uso improprio fatto da lei dell'Orfeo e se ne risentisse.

Era davanti alla pagina bianca da almeno venti minuti, quando finalmente decise che tipo di registro usare per far breccia in suo zio.

Erano anni, ormai, che non lo vedeva, ma quando era bambina aveva studiato al suo fianco e l'aveva conosciuto anche più tardi, tramite le sue lettere, le sue azioni e i suoi sotterfugi.

Non credette di sbagliare, quindi, nell'indirizzarsi a lui scrivendo: 'Havendomi obligo di un voto a Sancta Maria da Loreto, et non tornandome a proposito l'andarvi adesso, l'ho facto trasmutare in Ottaviano mio fiolo; et perché desidero che 'l vada cum bona compagnia per ogni respecto, ho preso securtà cum la Ex. V. de fare electione de messer Alexandro Orpheo insieme cum Andrea de Pazi commissario et oratore qui residente, per Signori fiorentini: et benché sapia per humanità di quella essermi licito servirmi deli suoi cum fiducia in ogni caso, nondimeno ho voluto advisarnela, et pregare V. Cels. ad havermi per excusata si ho preso arbitrio de mandarlo, sencia expectare licencia da Lei, perché l'ho facto, aciò che Octaviano si trovi qui ala partita de Cesare per Roma, quale ha ad essere presto: et seranno tornati loro fra sei dì, o octo al più tardo.'

Aggiunse un altro paio di frasi e poi firmò, mise la data in calce – 11 maggio 1499 – e infine chiuse il messaggio, pronto per essere spedito.

Lo affidò a un servo, pregandolo di farlo partire con una staffetta rapida, e poi si mise a letto. Si era accorta di aver lasciato la finestra un po' aperta, ma in fondo preferiva così. Non faceva caldo, ma l'aroma della terra ancora umida per le ultime piogge si spandeva così piacevolmente per la stanza da farle apprezzare finanche il lieve brivido che le percorreva la pelle.

Chiuse gli occhi e cercò di non pensare a niente, ma ci riuscì solo per poco. Da quando era stata certa di non essere incinta, una nuova inquietudine l'aveva presa. Si sentiva davvero una graziata e nel profondo era certa di aver goduto di un'intercessione divina, tuttavia sapeva che presto il problema avrebbe potuto ripresentarsi e non poteva certo fare un voto alla Madonna ogni mese.

L'unica soluzione che vedeva era quella di scegliersi un uomo, uno solo, e cercare di essere fedele a lui, come aveva fatto con gli uomini con cui era stata sposata. Qualcuno, come le aveva suggerito di nuovo il suo medico, che capisse la situazione, che prendesse accordi seri con lei e che cercasse di alleviare la sua solitudine senza però pretendere altro. Un solo amante sarebbe stato più gestibile, più affidabile e probabilmente anche meno dannoso per il suo umore.

Anche se era lei a cercare un uomo diverso a notte, alla fine quel che le restava quando si trovava sola sotto le coperte era solo una desolante sensazione di vuoto. Forse, se avesse trovato qualcuno che potesse essere di più che uno svago di un'ora ogni tanto, sarebbe riuscita a placare la sua fame e colmare quel vuoto allo stesso tempo.

Con un sospiro mesto, cercò – scacciando a viva forza le immagini di Giacomo, Giovanni e Manfredi – di passare in rassegna tutti gli uomini che aveva conosciuto, quelli che si ricordava e anche quelli che non aveva ancora cercato di sedurre. Alla fine, però, solo un volto le tornava alla mente e, per colmo di sventura, era proprio quello più difficile da riavere.

 

Quella sera, con i bagagli già pronti per la partenza del mattino dopo alla volta di Loreto, l'Orfeo ruppe gli indugi e prese il necessario per scrivere.

Fino a quel momento non aveva osato far partire lettere per Milano riguardanti quel pellegrinaggio improvviso, temendo che la Tigre l'intercettasse, ma aveva un presentimento strano, forse eccessivo, ma che voleva assecondare.

Aveva cominciato a pensare che se per caso fosse sparito lungo la via e non fosse più tornato, nessuno, a parte la ristrettissima cerchia dei fedeli della Contessa avrebbe saputo dire dove fosse.

Voleva pensare che non si trattasse di un'imboscata, ma la presenza dell'ambasciatore di Firenze e la repentinità con cui il viaggio era stato organizzato lo mettevano in allarme.

Così, cercando di suonare solo polemico e non spaventato, intinse la punta della penna nell'inchiostro e cominciò a scrivere la missiva per Ludovico Sforza: 'La illustre Madonna Contessa mi ha ditto da duj dì in qua volere mandare per satisfactione d'uno suo voto il Signore Octaviano suo figliolo a Sancta Maria da Loreto; et che la faceva dissegno di mandare il Commissario fiorentino et mi in compagnia sua: et io le ho sempre risposto, come soglio fare in tutte l'altre cose, che la mi può commandare senza alchuno respecto, perché il principal commandamento ch'io ho dala Ex. V. è di doverla obedire, come la persona sua propria. Et veramente io non stimava però che la dovesse farmeli andare senza licencia de quella. Ma hogi la mi ha fatto intendere avere deliberato mandarlo domane, perché essendo statuita la giornata del partire del Signore Cesare per andare a Roma alli 20 de questo, che pare li sia data per felice, vole ch 'l sua tornato prima che 'l si parta. Et vosì ha astretto il Commissario et mi a volerli per omni modo andare, per suo amore domatina, dicendo che 'l non sarà viagio più che di otto dì.'

Avrebbe voluto aggiungere che se quindi non avessero avuto più sue notizie nel giro di otto giorni, sarebbe stato il caso di mandarlo a cercare, ma si trattenne. Non voleva sembrare un codardo.

Si dichiarò come sempre umile servo del Duca e poi preparò la missiva per poterla spedire. Chiamò uno dei suoi servi e lo pregò di affidarla al loro messaggero più fidato.

Rimasto solo, nel buio della notte, si andò a mettere sull'inginocchiatoio e, giunte le mani, pregò Dio di lasciarlo in vita, mosso dall'ansia e dall'incertezza, più che dalla fede.

 

Finalmente il giorno che aspettavano tutti da mesi era arrivato. Cesare Borja indossava uno dei suoi abiti migliori, ma nessuna stoffa preziosa del mondo avrebbe potuto distogliere lo sguardo dei pochi presenti dal suo viso.

Si era atteso anche troppo, a parer suo, e inutilmente. Era come se i parenti della sua sposa credessero che bastasse qualche settimana per far passare i segni lasciati dal mal francese.

Il padre di Charlotte d'Albret avrebbe fatto carte false per impedire quelle nozze, il figlio del papa lo sapeva benissimo. Dopo la scusa del suo viso deturpato e impresentabile, aveva accampato quella dei suoi voti religiosi. Aveva voluto ricontrollare di persona il testo della bolla papale con cui Cesare era stato spretato per sempre e poi aveva borbottato ancora per qualche giorno, fino a dover cedere.

Alla fine, più per evitare di avere un crollo nervoso nel corso della cerimonia che non per mostrare la sua contrarierà, l'uomo aveva deciso di non presentarsi alla funzione, così come aveva fatto la sorella della sposa.

Al ventitreenne Cesare non importava nemmeno un po', ma conscio che quell'assenza avrebbe fatto sparlare, aveva già messo in giro la voce che stessero entrambi poco bene e aveva insistito affinché il matrimonio si celebrasse negli appartamenti privati della sorella di re Luigi XII, Anne d'Orléans.

I veri festeggiamenti, compresi banchetti e giostre, avrebbero contato tantissimi invitati, ma sarebbero anche stati diluiti nel corso di più giorni. Alla fine, la cerimonia religiosa in sé era solo una formalità e meno occhi c'erano a guardare e giudicare, meglio era.

Così gli appartamenti della principessa Anne erano stati apparecchiati alla perfezione, con tanto di un magnifico altare portatile composto da una lastra di diaspro montata su sostegni di argento dorato.

Il Borja, creato da poco Duca di Valentinois in virtù proprio di quell'unione con Charlotte, attendeva la sposa davanti al celebrante e, quando gli arrivò accanto, si rese conto che tremava un po'.

Quella ragazza, di diciannove anni, non era bella, né particolarmente interessante, per lui, ma sarebbe stata sua moglie e quindi voleva trovarvi qualcosa di positivo.

“Non dovete avere paura di me.” provò a dire, ma la giovane non sollevò nemmeno lo sguardo verso di lui, stringendo con ancora maggior forza le mani l'una nell'altra.

Contrariato da quella visibile repulsione, Cesare tornò a prestare attenzione al religioso che gli stava davanti e che stava dando inizio alle celebrazioni.

'Tanto stanotte sarai mia comunque' si disse, quasi per farsi coraggio a sua volta e, quando venne il momento di baciare la sposa, lo fece con ardire, con arroganza, quasi con violenza, provando un perverso piacere nell'avvertire in lei la paura e il ribrezzo mescolati assieme a una pungente e inevitabile curiosità.

 

Ottaviano era partito di buon'ora da Ravaldino, seguito dal suo curioso drappello di accompagnamento, e da allora a Caterina non era rimasto altro da fare che dedicarsi ai suoi affari.

Aveva trascorso gran parte della mattina al cantiere della cittadella, rimasto fermo per qualche giorno a causa delle piogge forti e improvvise che avevano squassato Forlì, e poi si era portata fino al Quartiere Militare, dove aveva passato al setaccio gli alloggi per controllarne lo stato d'ordine e pulizia.

“Un'epidemia – aveva fatto presente al Capitano Rossetti, che l'aveva accompagnata nel suo giro di ricognizione – ci sarebbe letale come un esercito nemico. Dobbiamo scongiurare ogni tipo di focolaio di malattia.”

Infine si era dedicata per un paio d'ore ai figli, lasciando più spazio a Giovannino che, per quanto ancora molto piccolo, sapeva assorbirla più dei fratelli maggiori. Per fortuna, nella stanza del bambino aveva trovato anche Bernardino, come sempre molto attento al fratello minore, e così ne aveva approfittato per stare anche un po' con lui.

Si erano parlati poco, in realtà, e la Tigre aveva sollevato di rado lo sguardo verso il Feo, ma al ragazzino era bastato averla nella stessa stanza con lui, in un clima rilassato e familiare, per sentirsi bene.

“Ti fai ancora chiamare Carlo, dai tuoi amici?” era stata l'unica domanda personale che la madre aveva posto a Bernardino.

Lui aveva annuito ed era rimasto in attesa di un commento della donna. Aveva dovuto pazientare un paio di minuti, perché Caterina rispose solo dopo aver preso in braccio Giovannino e averlo vezzeggiato per un po'.

“Lo fai perché è un nome che aveva scelto tuo padre?” era stato ciò che la Contessa aveva detto.

Il ragazzino aveva allora annuito in fretta, trovando pure il coraggio di soggiungere: “Spero non vi dispiaccia.”

“No, non mi dispiace.” aveva assicurato la Sforza: “Amavo tuo padre. Lo amo ancora. Non potrebbe dispiacermi, una scelta del genere.”

Terminata la parentesi con i figli, però, la Leonessa si era ritrovata sola e aveva ricominciato a pensare e a valutare la sua situazione. Poteva restare senza un uomo, per un po', ma non sapeva dire per quanto. Non voleva, ecco qual era il problema vero, non voleva restare senza uomini.

Non fu una decisione facile, ma, appena prima di scendere a cena, fece quel che andava fatto e si augurò che suo zio, una volta tanto, fosse con lei più umano che non calcolatore.

Quando la notte prima aveva cercato di pensare a qualcuno da potersi tenere accanto, qualcuno di affidabile e fidato, solo un nome le era balenato in mente e, con quel nome e con l'immagine ancora nitida del suo volto, era tornato in lei il desiderio di averlo con sé.

Dopo aver messo nero su bianco un po' di formalità e notizie di varia natura, sottolineando comunque quanto fosse in pericolo e quanto abbisognasse la protezione di qualche uomo abile, preferibilmente amico di Milano, la donna arrivò al dunque, premendo sul foglio più di quanto avrebbe voluto: 'Priego quella voglia essere contenta mandarme secretamente fino a qui messer Joanne da Casale quale fra li altri suoi sonno pratichati di qua me e parso retrovarlo et ala Excellentia Vostra fidelissimo et verso me amorevolissimo. Perche per lui faro intendere a la Cel. Vostra tutto quello me accade a Firenze che assai me importa et prima havero resoluto el bisogno cum epsa che se sia potuto saper per altri: ala Excellentia Vostra e a Messer Joanni intendo habia a correre alcuno interesso o spexa; perche io li provedero opportunamente al tucto; quella adoncha se degni satisfarme quando non sia cum suo grave prejudicio et sinistro, ma non ne facia parola cum alcuno sino che circa a zio non serra fatto firma deliberatione: il che conumererò fra li altri oblighi immortali ho cum la Excellentia Vostra. A la quale devotamente me ricomando.'.

Rilesse, chiedendosi se apparisse troppo disperata, ma evitò correzioni. Se era la disperazione che il Duca avrebbe letto tra quelle parole, ebbene, di poco si sarebbe sbagliato.

Caterina si passò una mano sulle labbra, chiedendosi se Pirovano, ricevendo un ordine dall'alto, si sarebbe presentato da lei o meno. Se fosse stato un altro tipo di uomo, avrebbe contattato lui direttamente, ma era certa che, integerrimo com'era, non avrebbe mai rotto il giuramento fatto a Ludovico.

Quindi, pensò con un velo di tragica ironia la Tigre, tutte le sue speranze restavano appese alle lune di suo zio, un uomo che sembrava sensibile a quel tipo di richieste solo quando il suo stesso cuore faceva i capricci, tornando ai momenti in cui era stato felice con la sua Beatrice.

Le sarebbe servita, quindi, una bella dose di fortuna e, quando affidò il messaggio a una delle sue staffette rapide, si augurò che quel giovane arrivasse a Milano proprio durante una delle crisi del Duca, magari trovandolo appena tornato dalla chiesa in cui era sepolta la moglie, o ancor meglio, reduce da una notte trascorsa a piangere sui fantasmi del suo passato.

 

Cesare era stanco, sudato e aveva fame. Voleva dormire, mangiare, bere e liberarsi dagli sguardi curiosi e morbosi della piccola selva di testimoni che era accalcata attorno al letto.

Aveva deliberatamente lasciato aperto il baldacchino, abbandonandosi alla sua inclinazione alla teatralità. Il vino, con cui al banchetto aveva ecceduto, l'aveva reso ancora più baldanzoso e sfacciato del solito e per lui era stato molto più facile darsi in pasto al suo pubblico.

Per la sua sposa, invece, il discorso era stato molto diverso. Fin da subito il Borja aveva capito che Charlotte non avrebbe collaborato e così, per non essere tacciato di scarsa virilità o di inacapacità, aveva dovuto prenderla con la forza. Lei non si era ribellata, limitandosi a restare immobile come una pietra, lasciandolo fare e piangendo in silenzio.

Quel suo essere tanto passiva, tanto spaventata da riuscire a stento a respirare, avevano riempito di rabbia e rancore il figlio del papa che, per dare sfogo a tutte le frustrazioni che l'assillavano, si era scaricato senza remore su di lei.

E così, dopo la prima volta, non si era fermato ed era andato avanti a oltranza, fino quasi all'alba quando, anche con tutta la buona volontà, si era trovato troppo stremato per continuare.

Quando si alzò dal materasso, fradicio di sudore e sentendosi molto più sporco del solito nel profondo, Cesare, senza aver cura di indossare anche solo una vestaglia, spalancò le braccia, mostrandosi nudo e ancora un po' ansante ai presenti. Poi, con la medesima platealità indicò con la mano la suo giovane moglie, nel centro del materasso, il viso rigato dal pianto, il respiro spezzato, gli occhi vitrei e il corpo che si stava raggomitolando sempre di più, in una posizione di difesa tardiva.

Avviandosi alla porta, il Duca di Valentinois prese da parte uno di quelli che aveva sentito commentare con volgare interesse quasi ogni sua azione e gli disse, a voce abbastanza alta da farsi sentire quasi da tutti: “Vi ho dato il vostro spettacolo. Otto volte di fila. Spero che abbiate gradito.”

Dedicò un'ultima occhiata a tutti gli altri, ricordandosi come lui stesso, in passato, avesse fatto parte di una di quelle congreghe di guardoni che si ammantavano del ruolo di testimoni di un sacramento e poi, quasi per caso, scorse di nuovo Charlotte, distrutta dalla furia che lui stesso le aveva riversato addosso senza il minimo rispetto per la sua innocenza e la sua ingenuità.

Garzia, un suo uomo di fiducia, gli porse un mantello per coprirsi, ma il Borja lo rifiutò. Fu tentato di chiedergli di usarlo per coprire la ragazza, ma non lo fece.

“Potrai dire a mio padre – gli sussurrò, mentre usciva assieme a lui, diretto alla camera che gli era stata preparata per riposarsi dopo quella prima notte di nozze – che ho spezzato otto lance in favore della sua causa. So che lui si divertirà, se glielo dirai così.”

E così, mentre quella notte dal castello di Blois partivano lettere dirette in ogni angolo d'Europa in cui si raccontava di come il figlio del papa avesse fatto sua la novella sposa per ben 'octo vices successive', Garzia montava in sella a un cavallo veloce come una saetta, diretto a Roma con l'ordine di raggiungere il Santo Padre nel minor tempo possibile, a costo di non dormire e non mangiare, affinché potesse dare nuovi ordini al suo figlio prediletto che non desiderava altro se non servirlo come il più umile dei suoi schiavi.

 
 
   
 
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