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Autore: Adeia Di Elferas    04/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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L'insistente bussare alla porta, riuscì a strappare dal suo sonno agitato la Contessa che, passatasi una mano sul viso al fine di ricomporsi un po', chiese, a voce alta: “Che c'è?”

Da fuori, la voce del castellano spiegò: “Mia signora, c'è alla porta vostra sorella e chiede di poter entrare.”

Colta alla sprovvista da quella risposta, la donna si alzò di scatto e andò alla porta, aprendola di scatto. Cesare Feo non poté evitare di darle una generosa occhiata, mentre la luce della candela che portava con sé ne illuminava le forme malamente celate da una leggerissima vestaglia da notte, però, quando ricominciò a parlare, distolse lo sguardo, arrossendo un po'.

“Dice che l'aspettavate, ma per il momento l'ho messa ad attendere all'ingresso, nel cortiletto, in attesa di vostre precise disposizioni.” specificò il castellano.

La Tigre si accigliò. Aveva ancora la mente immersa nel tremendo incubo che l'aveva catturata poco prima, ed era anche sicura di aver di nuovo gridato nel sonno il nome di Ludovico Marcobelli, ma voleva riuscire a focalizzarsi sul presente.

Perché mai Chiara era arrivata lì nel cuore della notte? Stava davvero scappando da qualcosa che le imponeva di muoversi solo con il favore delle tenebre, oppure era stato un caso che arrivasse a Forlì così tardi?

“È da sola?” domandò la Sforza.

“Completamente sola, sì.” confermò Cesare, che, in effetti, aveva trovato quel dettaglio molto strano.

“E come sta?” indagò ancora Caterina, rientrando, però, intanto in camera per vestirsi.

Il Feo si sentiva in forte disagio, nel vederla spogliarsi davanti a lui per cambiarsi, ma siccome non aveva avuto espresso ordine di aspettare fuori, rimase al suo posto, guardando altrove e continuando a parlare per attutire l'imbarazzo che provava: “Direi che sta bene... Aveva una gran fretta di entrare nella rocca, ma non dava l'impressione di essere in fuga... Insomma, è un po' agitata, ma non nel panico. Pare in salute e non è patita, quindi almeno per questo credo si possa stare tranquilli...”

Finito di prepararsi, la Contessa gli chiese di far preparare una stanza per Chiara e poi, da sola, andò al piano terra, diretta al cortiletto.

Riconobbe subito la sorella, benché fosse intabarrata in un mantello molto spesso e scuro, quasi eccessivo per il clima mite di quella nottata. Anche l'altra la riconobbe e si tolse il cappuccio, tendendo le braccia.

La Leonessa non si era aspettata un saluto tanto caloroso, soprattutto in memoria dello strano distacco che si era creato tra loro, l'ultima volta che si erano incontrate oltre dieci anni prima, ma quando si sentì stringere dall'abbraccio di Chiara, assaporò quel calore inatteso.

“Sei sola?” le chiese, in un soffio.

L'altra Sforza la stava osservando con attenzione. La trovava invecchiata, ma sempre bellissima, come la era stata la loro madre, anche se più terrena di lei. Se Lucrezia aveva sempre portato con sé un'aura nobiliare e quasi eterea, una grazia innata che non era mai stata intaccata da nulla, Caterina era più massiccia, più diretta nel modo di guardare e più imponente.

“Sono sola.” sussurrò Chiara, gli occhi che si posavano sui capelli bianchi e un po' spettinati della sorella: “Ma i miei figli e mio marito sono al sicuro, non preoccuparti per loro.”

“Posso sapere perché sei qui? Da che scappi? Cosa...” cominciò a dire la Tigre, ma l'altra sollevò una mano per darle un freno.

“Per favore, sono stanca. Sono due notti che non dormo. Posso andare a riposarmi?” la sua voce era più conciliante di quanto la Contessa ricordasse e anche i suoi modi erano un po' più dolci.

Era come se, passato tutto quel tempo dalla morte di Pietro Dal Verme, quella donna fosse riuscita a sciacquar via tutta la rabbia e l'insoddisfazione che l'avevano mossa nella sua prima giovinezza, permettendole di voltare pagina.

“Certo, certo... Ho già dato ordine di farti preparare una stanza. Vieni, andiamo a cercare il castellano. Lui ti dirà dove stare.” disse subito la Tigre, nel tentativo di apparire rassicurante e cordiale.

Le due donne attraversarono gran parte della rocca, a quell'ora molto silenziosa, e solo quando arrivarono davanti alla porta della camera scelta per Chiara, la Contessa si accorse che la sorella non aveva con sé bagagli.

“Ti serve qualcosa per cambiarti?” chiese, evitando domande sul perché l'altra non avesse portato nulla, dato che, probabilmente, non avrebbe ottenuto risposte, se non vaghe e inutili.

“Grazie, te ne sarei grata.” accettò la fuggiasca, con un sorriso tenue.

“Ti farò portare subito qualche vestito dalla mia cameriera personale. E domani, con calma, parleremo.” fece la sorella e, salutando ancora un cenno l'altra, la lasciò in pace.

 

Lucio Malvezzi tentava di tenere il passo dello Sforza, ma Ludovico sembrava quasi deciso a seminarlo lungo il porticato del palazzo di Porta Giovia.

Il Duca voleva andarsene in giro, in quel giorno di inizio primavera, magari prendere un calessino o anche solo un cavallo e partire per Vigevano, come faceva quando la sua Beatrice era ancora al suo fianco, o anche solo avventurarsi verso Pavia, nelle campagna, controllando lo state dei campi...

E invece quel maledetto rompiscatole non faceva altro che tampinarlo fin dal primo mattino. Il Moro aveva capito benissimo che la solerzia del Malvezzi era legata solo alla paura.

Si sapeva che in quei giorni si vociferava di tradimenti e doppiogiochisti e non era difficile capire che Lucio temesse di essere annoverato tra questi. E quindi, per sviare eventuali dubbi e sospetti su di lui, si era preso la briga di pagare delle spie di tasca propria, mandarle in Francia e poi riferire tutto ciò che avevano appreso al suo signore.

“Ho capito! Smettetela di tediarmi!” urlò a un certo punto Ludovico, alzando le braccia iracondo, quasi volesse colpire Malvezzi: “Lo so benissimo che ho il fiato di Luigi sul collo, cosa credete, che sia nato ieri?!”

“Vi stavo solo enumerando le schiere di uomini e i pezzi di artiglieria che il re sta già cominciando ad ammucchiare sul confine...” insistette Lucio, che non capiva il motivo di tanta sordità da parte dello Sforza: “Vi ho già detto che al suo servizio si stanno mettendo anche uomini come Gian Giacomo da Trivulzio, che sta cercando di portarsi appresso Giano Fregoso e il Rossi, quello che chiamano il Diseredato, che rivuole le sue terre nel parmense e...”

“E io vi ho già detto di tacere!” tagliò corto il Duca, alzando tanto la voce che un gatto ramingo che si stava leccando una zampa dietro una delle colonne scappò via soffiando: “Ho capito quello che mi avete detto, vi ringrazio, vi reputo un mio fedele amico, ma adesso lasciatemi in pace.”

“Mio signore, vi stavo cercando, c'è una lettera che dovreste leggere.” la voce del cancelliere Calco fu per le orecchie del Moro come il più soave dei canti celestiali.

Anche se lo strappava definitivamente alle sue fantasie di cavalcate nei campi, almeno gli dava un pretesto netto per lasciare Malvezzi lì dov'era senza doverlo più ascoltare.

“Di che si tratta?” chiese subito il Duca.

“Ecco, arriva da Forlì...” fece Calco, porgendogli una missiva: “Di vostra nipote.”

“Andiamo in un posto tranquillo...” propose Ludovico, indicando l'interno del palazzo, lasciando Lucio con un palmo di naso.

Arrivati in una delle salette, il Moro chiese al cancelliere se l'avesse già letta e mentre questi annuiva, si sedette pesantemente sul divanetto accanto alla finestra.

“Non ne potevo davvero più... Grazie, Calco, mi avete salvato...” borbottò, e spiegò il foglio per cominciare a leggere.

Tolti tutti i panegirici del caso e le frasi di prammatica, la richiesta di sua nipote era una sola, ed era molto chiara. Il fatto, poi, che non ne avesse fatto cenno nella lettera precedente, arrivata appena il giorno prima, lasciò intendere al Duca che si trattasse di una preghiera che Caterina aveva cercato di evitare fino a che non era più riuscita a trattenersi.

“Vuole che le rimandi Giovanni da Casale.” soppesò l'uomo, abbassando il messaggio a grattandosi pensoso il doppio mento.

“Sì, e da come scrive è anche disposta ad accettare un vostro uomo, che vi tenga informato su ogni sua mossa, pur di riaverlo alla sua corte.” rimarcò il cancelliere, che aveva trovato quel dettaglio estremamente rivelatore dello stato in cui doveva trovarsi la Tigre.

“Allora forse varrebbe la pena di accontentarla.” disse il Moro, sorprendendo non poco l'altro, che si era atteso da lui un immediato diniego.

“Non avete paura che Pirovano poi...” provò a dire Calco, ma il suo signore lo zittì.

“Giovanni da Casale è stato a Castrocaro per settimane. Anche quando hanno ammazzato quel Manfredi... Non ha osato andare a Forlì, nemmeno per un'ora. Mi obbedisce. Se gli ordino di andare lì, di stare al suo posto e di fare la spia per me, lo farà.” si convinse Ludovico, che era rimasto così ben impressionato dall'obbedienza dimostratagli da Pirovano da non aver più paura di vederlo scappare alla prima occasione: “Però lo manderemo tra un po', non subito. Scrivete a mia nipote dicendo che per farglielo avere a Forlì, prima devo essere certo di un paio di cose.”

“Ovvero?” chiese Calco, aggrottando la fronte.

Il Duca sospirò, scuotendo il capo, incredulo della scarsa prontezza di spirito del suo amico ed esclamò: “Ma di niente! Voglio solo avere il tempo di trovare un pretesto per far sì che Pirovano creda che lo mando a Forlì per un motivo preciso e non perché quella donna lo vuole di nuovo nel suo letto!”

 

Malgrado le promesse di parlare in modo disteso di quel che stava capitando, di fatto Chiara aveva cominciato a sfuggire alla sorella fin dal momento della colazione, la prima mattina della sua permanenza.

La Contessa l'aveva lasciata fare, credendo che non avesse senso torchiarla, se non era intenzionata a parlare. Ricordava ancora molto bene di quando le aveva confessato di aver avvelenato il suo primo marito e di come, in quel frangente, l'avesse quasi invidiata per averne avuto il coraggio.

Lei era a Milano, in fuga da Girolamo, con in pancia Sforzino, l'ultimo figlio del suo primo marito, un figlio che aveva quasi cercato di abortire per non dover mettere al mondo un altro Riario. E in casa di sua madre aveva trovato anche Chiara, anche lei in cerca di protezione, vedova di fresco, in guerra con il mondo, già promessa a Fregosino Fregoso, votata a un matrimonio che pareva non avere futuro.

Erano passati gli anni, e in molti versi anche gli equilibri tra loro non erano più gli stessi di un tempo.

Però la Tigre taceva, non faceva domande, anzi, permetteva una grande libertà alla sorella, e non solo per accortezza nei suoi confronti. Fin da subito l'arrivo di Chiara era stato per i figli della Leonessa una sorta di toccasana.

Bianca aveva finalmente qualcuno – che non facesse parte della servitù – con cui parlare di cucito e di frivolezze, un po' come se quella zia fino a quel momento sconosciuta, potesse prendere il posto della defunta Landriani.

Cesare guardava alla parente con sospetto, ma fondamentalmente la rispettava, perché l'aveva vista pregare un paio di volte, trovandola sola nella sala delle letture, e quello per lui era un segnale inequivocabile di comunanza di interessi e idee. Anche Sforzino aveva provato a parlarle di tematiche religiose e, seppur mostrando grandi lacune, la donna aveva assecondato quelle discussioni, facendo felice il ragazzino.

Galeazzo sembrava apprezzare anche lui la presenza della zia, e, assieme a Bernardino, le aveva mostrato il cortile d'addestramento e i baraccamenti dei soldati.

Alla Contessa non era sfuggito, in quell'occasione, l'interesse che la sorella dimostrava per quelle ali di Ravaldino. Se ne sorprese, ricordando una Chiara pressoché digiuna di armi e arti belliche, ma si rese conto che i lunghi anni passati accanto a un soldato come Fregosino dovevano averle fatto un effetto plasmante, sotto quel punto di vista.

Chiara, poi, si era dimostrata molto materna con Giovannino. Lo sapeva prendere nel modo giusto e il piccolo, di norma così selettivo nel dare confidenza, le si era arreso dopo un solo pianto. Forse la vedeva somigliante alla madre, o forse era solo il suo tocco ad avere su di lui un potere calmante.

Insomma, per tanti motivi, alla Tigre non dispiaceva vedere la sorella vagare per la rocca. Però il suo fiuto da donna d'armi le lasciava intendere che qualcosa non quadrava e che forse, tenendosela lì, rischiava di farsi piombare addosso l'ennesima grana.

“Sei felice con tuo marito?” provò a indagare, quella sera, mentre cenavano, sedute l'una accanto all'altra.

Con loro, a parte qualche soldato nei tavoli laterali, c'erano solo Bianca e Galeazzo, che si stavano dedicando ai loro piatti di minestrone facendo finta di non ascoltare le parole della madre e della zia.

“Sì.” fu la risposta molto stringata di Chiara.

La Tigre avrebbe voluto, a quel punto, chiedere in modo preciso che cosa avesse portato a Forlì sua sorella, ma c'era qualcosa, nel modo di fare dell'altra, che quasi la intimoriva. Forse, pensò, meno ne sapeva, meglio era.

“E tu, hai qualcuno?” chiese Chiara, bevendo un po' di vino e guardandola.

Fu il turno della Contessa di essere sintetica: “Al momento no.”

Mangiarono per un po' in silenzio, fino a che la minore non chiese: “Nostra madre... L'hai sepolta qui?”

“No, è sepolta a Imola, assieme a nostra sorella.” rispose Caterina, in automatico.

“Quella era nostra sorella solo per metà.” fece notare Chiara, la voce che tornava infine dura come la Leonessa la ricordava.

“Bianca, per me, è stata molto più una sorella di quanto non lo sei stata tu.” l'attaccò a quel punto la maggiore, che si scoprì incredibilmente sensibile a quella mal celata ostilità: “Non ti sei fatta viva con me per anni, e adesso vuoi che ti ospiti e ti dia la mia protezione. Bianca mi è stata vicina in tanti momenti difficili e se non fosse stato per lei...”

Il ricordo della Tigre era tornato ai concitatissimi momenti della congiura degli Orsi, quando sua madre Lucrezia aveva accettato il salvacondotto per mettersi al sicuro, mentre sua sorella Bianca era rimasta, per non lasciare da sola i nipotini.

“Non lo metto in dubbio – riprese Chiara, senza dar cenno di voler mollare la presa – ma noi due abbiamo gli stessi genitori. Lei aveva il nostro sangue solo per metà. Non è figlia di un Duca.”

Non sopportando più quel genere di discorsi – men che meno in casa sua, dove cercava il più possibile di far sentire fratelli i suoi figli nati da mariti diversi, Caterina scostò la sedia, facendola grattare in terra, e si alzò: “Perdonatemi – disse – ma ho voglia di riposare.”

L'altra Sforza, nel vederla andar via, appariva quasi sorpresa. Né Bianca, né Galeazzo avevano arrischiato commenti o sguardi particolari, ma erano comunque entrambi visibilmente sull'attenti per quanto accaduto.

“Come sta vostra madre?” chiese la loro zia, rivolgendosi a entrambi.

“Contando quel che le è capitato, sta molto bene.” fu la pronta risposta di Bianca, che, pur non volendo scontrarsi con quella parente appena conosciuta, non aveva dubbi circa il fronte su cui schierarsi.

“Non volevo essere spiacevole.” si schermì Chiara, mordendosi il labbro: “Solo...”

“Non parlatele più di vostra madre, né di nessun altro.” consigliò Galeazzo, sorprendendo anche Bianca con quel consiglio: “Non fatela ripensare al passato. Chiedetele quel che dovete chiederle, e poi andatevene di qui appena potrete farlo.”

Sconcertata dalla freddezza con cui quel ragazzino aveva parlato, la Sforza si zittì e terminò la sua cena senza dire più nemmeno una parola.

 

Ottaviano strinse gli occhi, cercando di scorgere in lontananza il profilo di Loreto. Non mancava molto, secondo i suoi accompagnatori, ma fosse stato per lui, si sarebbe fermato a riposare.

Avevano trovato un tempo pessimo, dopo la prima mezzo giornata di viaggio, con strade difficili da percorrere e un freddo che ricordava ancora molto da vicino l'inverno appena concluso.

Se non fosse stato per la fretta di Andrea Pazzi e Alessandro Orfeo si arrivare al santuario il prima possibile, per poter poi rientrare altrettanto rapidamente, il Riario se la sarebbe presa molto più comoda.

Come gli era successo in passato, nel corso della campagna militare prima, e nei suoi inutili giri di ronda nel contado di Forlì poi, stare così lontano da casa sua e dalla sua famiglia in un certo senso gli stava facendo bene.

Concentrato sulla fatica fisica, sui disagi del viaggio e sui pericoli che si presentavano sulla via, non aveva tempo di pensare ad altro. Rimuginava sulla sua condizione solo di rado e quando la sua piccola carovana si fermava, non aveva le forze per concedersi gli svaghi che invece riempivano le sue notti in patria.

“Avanti. Ancora un'ora, più o meno, e si arriva...” soffiò Pazzi, più esprimendo un desiderio che non una certezza.

Il Riario si tirò su per bene il colletto del mantello sul viso e diede un colpo coi talloni ai fianchi del suo cavallo. Stava per scendere la sera e il vento ancora non si placava. Il cielo era scuro e in lontananza si vedevano dei lampi. Se davvero mancava appena un'ora di strada, allora tanto valeva correre e ripararsi per la notte direttamente a Loreto.

“Ma perché mai vostra madre ha fatto un voto a questa Madonna?” chiese l'Orfeo, affiancandolo, mentre rallentavano per entrare in città in modo ordinato.

Ottaviano se l'era chiesto tante volte, ma non aveva trovato una risposta che gli sembrasse valida, così, tanto per scrollarsi di dosso il milanese, buttò lì un vago: “Perché è molto devota.”

“Credevo la fosse nei confronti del vino, della caccia, delle armi e degli uomini, più che nei confronti della Madonna.” commentò a denti stretti l'ambasciatore, lasciando che fosse Pazzi il primo a varcare le porte di Loreto, presentando l'intera comitiva alle guardie.

Il Riario si vergognò per quell'affresco fatto della madre, soprattutto perché lo riteneva abbastanza corretto, ma rispose al fendente con un gelido: “Voi milanesi siete tutti così, no? Sembrate fatti in un modo, e invece sapete solo nascondervi bene.”

 

Garzia era riuscito ad arrivare a Roma il 17 maggio, nemmeno cinque giorni dopo il matrimonio tenutosi al castello di Blois.

Il papa lo fece accogliere immediatamente, smanioso di sapere ogni cosa, nei più piccoli dettagli, ben sapendo che anche una minuzia poteva fare la differenza, in politica internazionale.

L'inviato di Cesare, però, quando arrivò al cospetto del Santo Padre, era talmente stremato da faticare perfino a reggersi in piedi. Rodrigo non si perse d'animo e, piuttosto che attendere qualche ora che il messaggero si riprendesse, gli fece portare una sedia e qualcosa per rifocillarsi, permettendogli di bere e mangiare in sua presenza, a patto che cominciasse il suo resoconto.

Sotto l'occhio rapace del Borja, e a tiro d'orecchi di qualche altro porporato, Garzia iniziò a parlare già prima che gli venisse portata la sedia. Principiò dalle trattative, senza perdere di vista nemmeno un risvolto della trama, la cerimonia, la festa che ne era seguita, l'elenco dei presenti e degli assenti, la magnificenza dei vestiti, le smorfie e i commenti scomodi, l'eleganza degli appartamenti della principessa Anne, l'aspetto della sposa – donna 'più umana che bella' – e, infine, si dilungò molto sulla lunga battaglia amorosa consumatasi la prima notte di nozze.

Il racconto era durato più di sette ore, la sera era calata, ma il papa, malgrado i pasti saltati e l'ora tarda, era ancora più che attento, quando giunse a conclusione.

“Il re – precisò Garzia, ricordando l'ultima scena a cui aveva assistito prima di andarsene – si è congratulato tantissimo con il vostro dilettissimo figlio, dichiarandosi più che battuto, in merito alle tenzoni amorose!”

Alessandro VI, sentito quell'ultimo inciso, non trattenne più l'euforia e, battendo le mani come un bambino, esclamò: “Ah! Si vede proprio che quello è mio figlio! Noi Borja sappiamo cosa fare, con una donna! Altro che quegli effeminati francesi! Scommetto che si è fermato solo per riguardo alla sua sposa... Con un po' di pratica, riuscirà anche lei a tenere i ritmi di uomini veri come noi Borja!”

I presenti cominciarono a vociare, dando ragione al papa e congratulandosi con lui per l'impresa del figlio e augurandogli di avere presto nipoti maschi e in salute.

“Ascoltate...” fece il papa, rivolgendosi confidenzialmente a Garzia, quando ormai il conciliabolo andava sciogliendosi: “Fate avere a mio figlio un messaggio con cui mi congratulo e mi dico molto fiero di come si è comportato e... E ditegli di cercare di ingravidare sua moglie, prima che giunga il giorno della sua partenza. Se lascerà un figlio in Francia, sarà tutto più facile, per noi.”

Il messaggero annuì e poi, accettando una regalia in monete d'oro da parte del pontefice, assicurò che avrebbe fatto recapitare il messaggio il prima possibile.

Lucrecia, che aveva sentito dire che un messaggero era arrivato dalla Francia per parlare del matrimonio di Cesare, aveva cercato di restare vicina agli appartamenti di suo padre per poter carpire qualche notizia.

Aveva, però, potuto solo vedere il padre uscire dalla saletta e accettare le congratulazioni del Cardinale Sansoni Riario, captando appena qualche pezzo di frase.

L'unica cosa che aveva sentito distintamente era stata: “Sì, sì, a questo punto, spero che possa lasciare la Francia già per la fine dell'estate.”

Quella scadenza, così vaga eppure per lei così incombente, le aveva gelato il sangue nelle vene. Si era portata entrambe le mani al ventre, dove suo figlio stava crescendo poco per volta. Temeva il giorno in cui Cesare fosse tornato a Roma. Si ricordava anche troppo bene la sua reazione, quando l'aveva saputa incinta la prima volta, ricordava troppo distintamente la paura che aveva provato, quando le era stato detto che Perotto e la sua amica Pantasilea erano scomparsi. Quando aveva capito che erano morti, aveva saputo fin dal primissimo momento che era stato lui a ucciderli.

Forse con un Aragona non si sarebbe azzardato a fare tanto, soprattutto valutando l'importanza del matrimonio che la univa ad Alfonso. Forse non gli avrebbe fatto del male, non in modo palese, ma Cesare era così subdolo e meschino... C'erano mille modi, per rendere la vita di una persona un inferno e Lucrecia conosceva abbastanza bene suo fratello da saperlo capace di tutto.

Dopo aver passato ancora qualche minuto a vagare per le stanze vaticane, la giovane decise di presentarsi nella stanza del marito. Di norma era Alfonso che visitava quella di lei, ritirandosi poi, per evitare che il mattino dopo i servi li trovassero ancora a letto assieme. Quella notte, siccome la Borja aveva avuto il suo da fare a spiare i maneggi del padre, l'Aragona era rimasto nei suoi alloggi fin dal principio.

Entrando con circospezione, Lucrecia si tolse l'abito con un movimento fluido, spogliandosi poi fino a restare con addosso solo la leggerissima sottoveste.

Salì il gradino che circondava il letto, scostò appena la tenda del baldacchino e poi, nel buio fitto, si infilò sotto le coperte. Alfonso dormiva profondamente, ma la sentì comunque arrivare. Trattenne uno sbadiglio e le chiese come fosse andata.

La giovane si fece abbracciare, lo baciò e poi, stringendolo a sé come se avesse paura di vederselo strappare a viva forza da un momento all'altro gli sussurrò: “Mio fratello si è sposato. Tra qualche mese tornerà. Ho paura.”

L'Aragona deglutì. Anche lui temeva un po' il ritorno di Cesare, ma non quanto la moglie. Non capiva come potesse lei davvero credere che il fratello maggiore fosse un pericolo così grande, per loro.

Gli aveva spiegato la questione di Perotto, del piccolo Giovanni, e di come il Borja si fosse sbarazzato di quello che vedeva come un rivale e un traditore. Ma lui era un figlio di Napoli, un nobile, marito legittimo di Lucrecia: la questione era molto diversa.

“Non avere paura.” la incoraggiò allora lui, premendo il viso di lei contro il proprio petto, per tranquillizzarla con il suo respiro e il battito lento del suo cuore: “Insieme riusciremo a resistere a tutto, anche a tuo fratello.”

La figlia del papa avrebbe tanto voluto potergli credere ciecamente, ma una parte di lei sentiva che Alfonso stava sottovalutando troppo la cosa.

“Partiamo per Napoli. Domani stesso. Facciamo nascere nostro figlio a Napoli.” propose la giovane, cominciando poi a baciare il collo del marito, per renderlo più cedevole.

“Tuo padre ci vuole qui. Si arrabbierebbe, se ti portassi via da lui.” le ricordò il ragazzo: “E al momento temo più lui, di Cesare.”

Lucrecia, allora, smise di baciarlo e, rigirandosi tra le lenzuola fino a dargli le spalle, borbottò: “Sì, Alfonso, come vuoi tu.”

Sentendo le braccia del marito circondarla con dolcezza, la Borja lasciò sbollire la sua inquietudine e decise di godersi qualche ora di pace, finché poteva, lasciando le tribolazioni dell'anima al giorno seguente.

'Alfonso mio – pensò, appena prima di addormentarsi – tu no hai ancora capito niente: mio padre fa la voce grossa e picchia i pugni sul tavolo, ma mi ama troppo per farmi soffrire davvero. Cesare, invece, mi desidera come un animale selvatico desidera una preda: ha zanne lunghe e affilate, mascherate dietro un sorriso, e artigli letali nascosti sotto le stoffe dei suoi begli abiti, e non si fa scrupoli nell'usarli entrambi...'

 
 
   
 
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