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Autore: Adeia Di Elferas    05/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La risposta del Moro in merito a Giovanni da Casale aveva inizialmente indispettito Caterina, ma in un secondo momento le aveva permesso di sperare per il meglio. In fondo quella di sua zio non era stata una lettera di diniego a tutti gli effetti, ma solo una richiesta – scritta in modo anche abbastanza gentile – di avere pazienza per qualche giorno, nell'attesa che sistemasse alcuni affari molto importanti.

Così la donna aveva cominciato a pensare a Pirovano e al suo ritorno a Forlì, lasciandosi prendere a tratti dalla smania di riaverlo e a tratti dall'ansia, dicendosi che, forse, quell'uomo non l'avrebbe voluta più.

Nel frattempo Chiara restava a Ravaldino, non le dava spiegazioni valide, ma appariva anche troppo tranquilla, per essere in fuga da qualcosa di serio.

La Contessa non voleva scacciarla, ma non faceva nulla di più che darle una fredda ospitalità, che si intiepidiva solo quando, per caso, assieme a loro c'era anche Giovannino o al massimo Bianca.

Negli ultimi giorni, comunque, non aveva avuto molto modo di stare con la sorella, perché gli affari di Stato l'avevano tenuta occupata. Uno fra tutti, il nuovo documento redatto dall'Oliva.

“Vostro figlio Ottaviano aveva già firmato prima di partire – spiegò il notaio, mostrando la firma del primogenito della Tigre in cima alle altre – perché temevo che potesse tornare in ritardo e mi avevate detto di redigere questo atto il più in fretta possibile...”

“Non c'è problema, tanto Ottaviano sapeva benissimo cosa avreste scritto, in questo documento.” si sbrigò a dire Caterina: “Piuttosto, siete certo che con questo scritto, il papa non potrà più avere motivo di far del male ai miei figli per avere il mio Stato?”

L'Oliva annuì in silenzio, riguardando l'atto come a sincerarsene un'ultima volta e poi, allargando le braccia tozze esclamò: “Ho fatto ricerche giuridiche di tutti i tipi, e vi giuro che più di questo non si poteva fare! Il papa non avrà più nemmeno mezzo motivo per far del male ai vostri figli!”

Luffo Numai, seduto su uno degli sgabelli della Sala della Guerra dove erano riuniti i tre, fece schioccare la lingua, in segno di scetticismo.

“Che c'è?” domandò il notaio, quasi offeso da quell'intrusione.

“Un motivo, per far male ai figli della Contessa, il papa l'avrà sempre.” fece il Consigliere, alzando le sopracciglia, come se la cosa fosse ovvia: “Il fatto che siano i suoi figli.”

La Sforza capì molto prima dell'Oliva cosa intendesse dire Numai, e così lo anticipò anche nel ribattere: “Ricordate quel che ho gridato agli Orsi, undici anni fa? Ebbene, sono pronta a farlo di nuovo, se necessario.”

“Lo sareste anche se gli uomini del papa dovessero minacciare di tagliare la gola al vostro Giovannino davanti ai vostri occhi?” domandò Luffo, senza intento di provocarla, ma solo per capire quanto fosse seria e quanto stesse recitando.

La Tigre cercò di pensarci davvero, di figurarsi la scena, deglutì e poi, con tutta la fermezza che le riuscì, rispose: “Sì.”

“Allora siamo a posto.” fece Numai, con un sorriso un po' stentato: “Anche se, per allora, vi consiglio di esercitarvi un po' con l'espressione del viso. Se fate quella faccia solo all'ipotesi che possa capitare, non vorrei vedere come sarete, quando succederà davvero.”

“Per allora – ribatté la donna, piccata – farò in modo di trovare un posto sicuro per i miei figli. Li nasconderò tanto bene che il papa si stancherà di cercarli.”

“Sarà meglio – convenne il Consigliere, con un che di critico nella voce – perché di certo li ammazzerebbero, e di madonna Bianca non voglio nemmeno pensare cosa ne faranno...”

“Se con queste parole state cercando di farmi capire che non sto gestendo bene le cose, ebbene, sono tutta orecchie, ditemi cosa fareste voi al mio posto.” disse Caterina, piantando i pugni sui fianchi.

“Non vi sto criticando, sto solo dicendo che al vostro posto io avrei già cercato un marito degno di tal nome a madonna Bianca e una sposa per Ottaviano e anche per Galeazzo, mandando Sforzino a studiare a Roma dai suoi parenti e Giovannino a Firenze!” sbottò Numai, che non capiva cosa avesse in mente la sua signora, nel tenersi appresso a quel modo tutti i figli anche in un momento del genere.

“E Bernardino non lo calcolate, noto. Guardate che non è il figlio della serva, ma figlio mio, come tutti gli altri.” controbatté la Contessa.

“Non l'avrei mai detto, da come lo trattate.” rimbeccò Luffo, che si stava facendo scappare la pazienza molto più di quanto non volesse.

“Tornando a noi...” si inserì l'Oliva, che trovava inutile, se non dannosa, quella schermaglia: “Con questo i vostri primi quattro figli maschi rinunciano al vicariato di queste terre in modo definitivo, quindi dopo la rinuncia alla proprietà, questo vi rende a tutti gli effetti unica detentrice del potere e delle proprietà dello stato di Imola e Forlì.”

La Tigre e il Consigliere si stavano ancora guardando con astio, ma le parole del notaio li distrasse entrambi.

Dopo qualche altra battuta per accordarsi meglio sulla pubblicazione dell'atto, Luffo chiese precipitosamente il permesso di andarsene e la Sforza glielo concesse volentieri.

“Non fate caso a lui, in questi giorni...” si prese il disturbo di dire l'Oliva: “Suo figlio Girolamo gli sta dando qualche grattacapo, e il più grande, Pino, non sta facendo nulla per alleggerire i pensieri dei genitori. Messer Numai è così teso perché sua moglie lo rimprovera di badare più ai vostri figli, mia signora, che non ai loro.”

Caterina fece un respiro profondo. Già il fatto che Luffo e sua moglie, Caterina Paolucci, avessero dato ai loro figli dei nomi che compiacessero dapprima gli Ordelaffi e poi, una volta cambiato il signore della città, i Riario, le aveva fatto capire fin dal primo momento quanto fossero attenti a non pestare i piedi di chi era al potere.

Era dunque plausibile che Luffo avesse fatto così solo perché troppo provato, fisicamente ed emotivamente, per tacere. Non significava che non pensasse ciò che aveva detto, ma, se non altro, la Leonessa era abbastanza sicura che, se fosse stato più padrone di sé, avrebbe esposto le sue perplessità in modo più costruttivo e meno aggressivo.

“Ditegli che mi spiace, se sta avendo dei problemi – cominciò la Contessa, ma ciò che seguì smorzò di netto il sorriso di riconoscenza che stava incurvando le labbra del notaio – ma se questi problemi gli impediscono di lavorare lucidamente, allora deve dirlo chiaramente e troverò un sostituto che prenda il suo posto.”

“Non credo che dovrete arrivare a tanto.” mise le mani avanti l'Oliva: “Gli basterà una buona notte di sonno.”

La Sforza fece un cenno con il capo: “Spero che abbiate ragiona voi.” e, detto ciò, ribadì un paio di cose a riguardo dell'atto di cessione del vicariato e se ne andò, dicendo di avere impegni importanti a cui far fronte.

 

“Come sta Fracassa?” chiese Isabella Este, senza voltarsi, quando sentì il marito entrare nello studiolo.

Di norma non sopportava di vederlo lì, perché con i suoi passi rozzi e la sua zazzera disordinata di capelli sembrava da solo riuscire a fare di quel luogo di cultura e idee un tugurio. Era come se la sua presenza fosse sufficiente a togliere pregio alle collezioni di monete e oggetti antichi e il tanfo di cavallo che si portava addosso dopo una mattina passata nelle stalle pareva in grado di riempire tutto l'ambiente, togliendo il fiato alla moglie.

Non che Isabella non amasse i cavalli, il vero grande pregio del loro Ducato, ma trovava fuori luogo un marito che puzzava come uno stalliere in uno studiolo alla moda e ricercato come quello.

“Sta meglio.” rispose Francesco, restando sulla porta, prima di sentirsi intimare di non muoversi di un altro centimetro: “Abbastanza da volersene andare.”

“E dove?” domandò l'Este, voltandosi, finalmente.

Il Gonzaga si soffermò qualche istante di troppo sull'abito nuovissimo e meraviglioso della moglie, abbastanza stravagante e innovativo che, ne era certo, si sarebbe rivelato la nuova tendenza della stagione tra le dame d'Italia. Sua moglie sembrava nata apposta per lanciare tendenze sempre più particolari e ricercate che le nobildonne di tutta la penisola non vedevano l'ora di poter copiare.

Quel vestito, poi, gli piaceva così tanto anche perché sapeva valorizzare il corpo di Isabella. Aveva preso peso, non aveva più la linea perfetta di quando si erano sposati, ma sotto sotto il Marchese la preferiva così. Se solo avesse potuto averla.

“Se ho capito bene – riprese Francesco, distogliendo lo sguardo – a Forlì. Dice che là c'è un ebreo suo conoscente con cui deve saldare dei conti...”

“Si parla di soldi e improvvisamente una ferita alla gamba grossa come una mano non dà più nessun incomodo...” borbottò Isabella, riabbassando lo sguardo sul libro che stava leggendo fino a poco prima, le guance che prendevano un po' di colore in risposta all'occhiata indagatrice che il marito le aveva appena riservato: “Tutti uguali...”

“Hai saputo di Alfonso d'Aragona e di Lucrecia Borja?” chiese di punto in bianco il Gonzaga, come se non riuscisse a trattenersi.

“Avranno presto un figlio, lo so, me l'hai detto anche ieri e anche due giorni fa. Inizi ad avere problemi di memoria, Francesco? Devo forse preoccuparmi?” chiese, ironica, Isabella, evitando ancora di prestargli troppa attenzione.

L'uomo strinse il morso e poi, la voce che di quando in quando schizzava diventando più acuta, disse: “Se te lo ridico è perché vorrei parlarne, non certo perché abbia dei buchi di memoria.”

“Vuoi parlare della figlia del papa. Con me? Seriamente, Francesco?” chiese l'Este, lasciando infine la sua scrivania e arrivando a fronteggiarlo: “Non credi che mi bastino le chiacchiere che erano nate tra voi, quando l'hai incontrata, quella volta? Vuoi davvero che ne parliamo?”

“Non di lei, ma...” si arrampicò sugli specchi il Marchese: “Ma... Ma di noi. Loro avranno un figlio e sono sposati da pochi mesi. Noi siamo sposati da anni e ancora non abbiamo un erede maschio, anzi, è da troppo che non abbiamo più nemmeno figlie femmine!”

“La colpa non è mia.” si schermì la moglie, già pentita di aver acceso la discussione con il marito, invece che smorzarla.

“No, oh, lo so che non è tua. Fosse per te, mi troverei di sicuro già in casa una frotta di figli non miei... Ringrazio Dio che quei letterati piagnucolosi che ti porti a letto non...” lo schiaffo che colpì la guancia barbuta del Gonzaga non fece quasi rumore, ma all'uomo fece male come una pugnalata.

E, come quando veniva ferito in battaglia, quel contatto non fece altro che accenderlo di più.

“Lo sai che mi consigliano i miei amici? Lo sai che cosa si permettono di dirmi, i miei soldati più fidati?” la incalzò l'uomo, sporgendo in fuori il mento e avvicinandolesi abbastanza da poter sentire il calore del suo respiro sul viso: “Mi consigliano di ripudiarti, se non mi darai un maschio entro un anno.”

“Se pensi di convincermi facendo così, allora si vede che essere sposati da così tanti anni non ti è servito proprio a nulla.” sibilò Isabella, facendo un passo indietro: “Faresti meglio ad andartene a Marmirolo per un po'. Portaci una delle tue cortigiane. Va' a caccia con il falcone, bevi vino e impiccati, per quello che mi importa di te.”

Francesco si premette la punta delle dita sulla tempia, sentendola pulsare come impazzita e poi, rinunciando a una rivincita facile, ma squallida – perché sapeva benissimo che sarebbe stato fisicamente in grado di sopraffare la moglie quando e quanto avesse voluto – tornò verso la porta, dicendo solo: “Ti prego, Isabella. Sei una donna intelligente. Pensaci.”

Rimasta sola, l'Este si strinse le braccia al petto e ripercorse quell'astioso scambio di invettive, non trovandoci nulla, se non risentimento e incomprensioni. Avevano commesso entrambi degli errori, ma non poteva accettare l'idea che suo marito si sentisse ancora nel giusto. Perché era così, lo capiva da come l'attaccava di continuo non appena lei gli si rifiutava.

Si asciugò una lacrima di rabbia con il dorso della mano e poi, tornando alla scrivania, cercò di rimettere insieme i pezzi del suo spirito, che rischiavano di sparpagliarsi al vento come ogni volta in cui litigava con Francesco.

Sapeva che suo marito aveva ragione, nel dire che a loro serviva un erede. Ne avevano bisogno, soprattutto in un momento di incertezza politica come quello. Però Isabella non riusciva a passare sopra a tutto in nome degli affari di Stato. Sua madre, quando era piccola, le aveva sempre ripetuto che certe cose non si potevano sacrificare, nemmeno in nome della propria terra. Era stato grazie a lei, che aveva fatto di tutto, pur di ritardare le sue nozze fino ai suoi sedici anni e l'aveva fatto anche per farle capire quanto fosse importante avere rispetto di certe cose.

Anche se ogni volta in cui lo vedeva, l'Este provava una forte attrazione verso il marito, così viscerale da essere quasi indomabile, appena la sua mente le faceva ricordare certe cose, la fiamma si spegneva, lasciando solo amare ceneri. Non poteva unirsi a lui, finché si sentiva così male al pensiero delle umiliazioni che le aveva fatto patire.

Con un sospiro tremulo, la donna guardò il soffitto, poi la scrivania e di nuovo in alto, indecisa se provare a chiedere soccorso a Dio o tornare a concentrarsi su quello che stava facendo prima dell'incursione scomoda di Francesco.

Alla fine, sfogliando il libro con disinteresse, si trovò a scendere a patti con sé stessa, dandosi ancora un mese o due di tempo per decidere che fare: restare accanto al marito, perdonarlo per tutto e riprovarci, o chiudere definitivamente con lui e, ben sapendo che Francesco alla fine non avrebbe fatto nulla contro di lei, procurarsi un erede in un altro modo.

 

La notizia del ritorno di Ottaviano, previsto in giornata, aveva messo di pessimo umore Caterina che, per evitare di dimostrare troppo palesemente la sua insofferenza nei confronti dell'arrivo del figlio, aveva preferito starsene in solitudine per gran parte della mattina.

Ne aveva approfittato per ricontrollare alcuni conti e della corrispondenza lasciata da parte e, complice il malumore di quel giorno, decise di prendere dei provvedimenti sulla questione di Risorboli.

Era uno degli uomini a cui aveva delegato – ormai da qualche anno – l'amministrazione di alcune spese secondarie dello Stato. Di fatto, però, quando aveva chiesto riscontri di alcune uscite di denaro poco chiare, questi aveva iniziato a millantare la scomparsa dei libri contabili e, anche su insistenti richieste del Governatore, aveva finito per dare la colpa ad altri e non produrre comunque alcun resoconto scritto.

Siccome Firenze aveva fatto le pulci già più di una volta, tramite il loro ambasciatore, su quel genere di questioni – quasi che i soldi spariti fossero della Signoria e non della Tigre – la Contessa aveva deciso di dare un taglio netto a tutte quelle impalcature bizantine, costringendo tutti quelli che avevano in mano i suoi conti a renderglieli, affinché potesse amministrare direttamente le finanze dalla sua rocca.

Prima del mezzogiorno, quindi, si recò da Risorboli, che l'attendeva alla cittadella, forse convinto di poter guadagnare ancora qualche settimana di pazienza, e, evitando di dargli una pena esemplare per punire la sua malafede, lo sollevò dal suo incarico, precludendogli ogni qualsiasi futura carica pubblica.

Tornata a Ravaldino, dato che di Ottaviano ancora non c'era traccia, si era chiusa in camera per scrivere a Fortunati, uno dei pochi che aveva sempre difeso il Risorboli e gli altri contabili dello Stato, per metterlo a parte di quanto accaduto.

'Non se retrovando certo Libro de li nostri, quale Risorboli monstrava per certo suo inventario havere assignato ad Antonio da Rimino, habiandone facto amonitione più volte aciò venisse in luce, non ne è reuscito alcuno effecto' cominciò a scrivere, ma venne interrotta.

“Mia signora – disse Cesare Feo, da dietro la porta – vostro figlio è alle porte della città.”

“Fatelo entrare, ovviamente.” rispose Caterina, senza nemmeno alzarsi dalla scrivania: “E accoglietelo voi, ma senza troppe cerimonie. In fondo era in pellegrinaggio, mica in guerra.”

Il castellano disse che avrebbe fatto così e non tentò nemmeno di convincere la Leonessa a presentarsi a sua volta ad accogliere il Riario. Non sapeva perché l'avesse mandato a Loreto, né perché l'avesse voluto far viaggiare tanto in fretta – a maggior ragione visto che era chiaro che lo preferisse lontano da sé – ma aveva imparato da tempo a non farsi troppe domande ed eseguire gli ordini senza fiatare.

Riprendendo in mano la missiva, la Sforza concluse il pensiero, riassunse al meglio la situazione e poi precisò: 'Sum stata contenta dare bona licentia a Risorboli, et ho voluto che Antonio me assigni li libri et scripture ha de le mie in mano: che cercharò uno me satisfacci meglio non hanno voluto fare loro. Voglio faciate intendere il tucto al magnifico Laurentio aciò sia informato de la verità, et aciò scriva a ciascuno che loro me assegnino tucti li libri et scripture mie ancora fussino loro perché ratenendomene alcuna, non saria a suo beneficio et a nui poteriano generare grande interesse che scio le lectere de S. M. valeranno in ziò pure assai.'

Aggiunse un freddo 'valete', per chiarire ancora di più a Fortunati che pure lui doveva starsene attento, perché molti dei conti che si erano scoperti imprecisi o ingiustificati erano passati pure dalle sue mani.

La Tigre si era fidata sempre ciecamente e in modo istintivo di Francesco, prima di tutto come confessore e poi come amministratore, ma la sua vicinanza a Firenze cominciava a starle scomoda.

Quando Giovanni era ancora vivo, era stato tutto diverso. Malgrado la presenza ostile di Lorenzo alla Signoria, in Firenze Caterina aveva visto un'alleata, anche se scostante. Adesso, più il tempo passava e le incomprensioni si accumulavano, più Firenze le pareva una nemica da cui guardarsi.

Lasciò trascorrere un paio d'ore, rimuginando e perdendosi nei suoi pensieri e solo quando fu certa che ormai Ottaviano fosse a Ravaldino e fosse già stato salutato come di dovere, uscì dalla sua camera, sperando di non incontrarlo.

Il giorno dopo Cesare sarebbe finalmente partito per Roma. Era riuscita a dare ai suoi primi due figli l'opportunità di salutarsi per bene e con calma, e tanto le bastava. Ora non le rimaneva che cominciare a cercare un posto sicuro anche per Ottaviano.

Avrebbe voluto mandarlo a Roma con il fratello, ma non voleva dare un simile elemento alla Chiesa. Il Vaticano dei Borja era già un girone infernale così, anche senza l'aiuto del giovane Riario.

Stava attraversando il corridoio che portava alla sala dei banchetti, per andare a mettere qualcosa nello stomaco, quando una figura scura nel corridoio si fece avanti: “Madre.”

La Sforza riconobbe senza problemi il profilo del figlio, malgrado la luce fioca della sera e così gli chiese: “Com'è andato il viaggio?”

“Bene, ma volevo vedervi.” disse piano Ottaviano, deglutendo.

Quando l'ebbe più vicino, Caterina si accorse che il ragazzo non si era ancora cambiato. I suoi abiti erano ancora impolverati e la sua pettinatura aveva risentito del lungo tragitto percorso.

“Dimmi.” fece lei, per incoraggiarlo.

“Perché mi avete mandato a Loreto? Che voto avevate fatto?” chiese lui, che per tutta la strada del ritorno non aveva fatto altro che pensarci.

“Non sono affari tuoi.” lo liquidò lei, impassibile.

“Quella che ho visto prima, quando sono arrivato – riprese Ottaviano, cambiando argomento senza provare a insistere – è mia zia Chiara, vero?”

“Sì, è lei.” confermò la Sforza, stringendo un po' gli occhi.

In quella penombra il viso di suo figlio era identico a quello di Girolamo. Quella somiglianza, rafforzata dall'acconciatura e dagli abiti costosi, era ridotta solo un po' dal fisico decadente del giovane. Era alto, sarebbe stato anche slanciato e longilineo, ma aveva le spalle curve, pochi muscoli e il ventre rilasciato, segno della sua inattività e del suo eccedere spesso con il cibo e con il vino.

Caterina si aggrappò a quel dettaglio, per scindere l'immagine del primogenito da quella del primo marito. Con molta fatica, per qualche istante ci riuscì anche.

“Resterà qui?” si informò Ottaviano.

“Non credo che resterà a lungo. Perché me lo chiedi?” fece la donna, sospettosa.

“Nulla... Solo...” il Riario avrebbe voluto dirle che in fondo mancava a tutti loro una figura materna com'era stata la loro zia Bianca o la loro nonna Lucrezia, e che quindi la presenza di Chiara avrebbe potuto rivelarsi preziosa, ma alla fine seppe dire solo: “Curiosità.”

“Vai a darti una sistemata.” lo rimbrottò la madre, lasciando cadere lì il discorso: “E stanotte riposati, invece di andare a combinare disastri in città. Domani tuo fratello parte e voglio che ci sia anche tu a salutarlo. È importante. Voglio che restiate uniti, qualsiasi cosa accada.”

Ottaviano deglutì e annuì: “Farò come dite. Passate una buona serata e una santa notte.”

Mentre il figlio si allontanava, la Sforza deglutì un paio di volte e poi riprese a camminare verso la sala dei banchetti. Cercò di mangiare bene, perché in quei giorni aveva trascurato troppo anche quell'aspetto. Bevve poco, chiacchierò distesamente con un paio di soldati che si erano trovati a cenare contemporaneamente a lei e poi fece due passi sui camminamenti, per controllare che tutto fosse in ordine.

Al momento di ritirarsi, più per distendere i nervi e riuscire poi a dormire meglio, si cercò compagnia per la notte. Trovò una giovane recluta che non mosse obiezioni e che fece esattamente tutto quello che lei chiedeva.

Tornata nella sua camera, lasciandosi alle spalle per un po' tutto quanto, si spogliò, si mise sotto le coperte e cercò di illudersi che la sensazione di benessere che le era rimasta addosso fosse merito del suo Giacomo, e, con il ricordo dell'uomo che aveva amato più di ogni altro che si confondeva con quello di Giovanni, riuscì a prendere sonno.

 
 
   
 
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