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Autore: Adeia Di Elferas    07/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Che cos'ha fatto?” chiese il Moro, guardando il suo cancelliere quasi fosse stato il responsabile di tutta quella confusione.

“Ha fatto demolire un borgo e dei castelli che riteneva inutili e ha cominciato i lavori di costruzione di alcuni bastioni...” spiegò Calco, che teneva ancora tra le mani il resoconto dei febbrili impegni di Galeazzo Sanseverino: “Sembra che... Insomma, sembra che voglia investire del denaro e dopo la rassegna fatta alle sue truppe a Novara, ha cominciato a...”

“Mandate un ordine a Sanseverino dicendogli chiaramente che deve piantarla lì subito.” disse Ludovico, scuotendo il capo e picchiando un pugno contro la scrivania: “La Francia sta per invaderci e lui si mette a giocare con i suoi castelli? Riorganizzi l'esercito! I soldi glieli ho dati per quello!”

Il cancelliere annuì, e prese nota, anche se non sapeva quanto il condottiero sarebbe stato remissivo alle indicazioni del Duca.

“Ecco, mio signore, forse sarebbe opportuno cercare di riportare dalla nostra parte anche Fracassa...” provò a dire: “I Sanseverino tendono a essere più mansueti, se si riesce a condurli almeno due per volta.”

“Ma Fracassa non è stato ferito mentre era a fare un torneo a Ferrara?” domandò lo Sforza, accigliandosi, come se la cosa lo interessasse solo relativamente.

“No, era tra il pubblico...” lo corresse Calco: “Ma comunque sembra si sia già rimesso e si stia mettendo in viaggio.”

“Ecco, se è in viaggio, io come lo trovo?” allargò le braccia il Moro, quasi quella domanda retorica giustificasse appieno la sua indolenza.

“Pare stia andando a Forlì, per alcuni suoi affari.” rivelò il cancelliere, osservando insinuante il suo signore.

Ludovico, però, non riusciva a collegare quell'informazione a tutto il resto e così, perdendo la pazienza, si alzò dalla sedia e sbottò: “E allora? Perché dovrebbe interessarmi?”

Bartolomeo chiuse un momento gli occhi. Non voleva far notare al Duca la sua ottusità, tanto meno in un momento così delicato. Lo conosceva troppo bene, per non sapere che se l'avesse preso di petto, Ludovico avrebbe detto di no a tutto, a prescindere, senza nemmeno ragionarci un istante.

Così fece appello a tutta la sua pazienza e spiegò: “Stiamo cercando una scusa per mandare Giovanni da Casale a Forlì, giusto? Ebbene, per riavvicinare Fracassa a Milano, dovreste cominciare a riavvicinare Fracassa a vostra nipote Caterina. Usando Giovanni da Casale come intermediario.”

“Pirovano capirà che è una scusa.” tagliò corto lo Sforza, anche se l'idea non gli pareva affatto malvagia: “Capirà che lo sto solo mandando da mia nipote perché me l'ha chiesto lei e non perché l'ho deciso io.”

“Giampaolo Manfrone è andato a Venezia a smentire le voci che lo volevano al vostro servizio per la guerra che verrà.” fece a voce bassa Calco: “Ha avuto paura della reazione del Doge, nel crederlo un traditore. Potete permettervi davvero di perdere anche i Sanseverino? E Giovanni da Casale? E vostra nipote? Pensateci bene, mio signore. È la Francia di cui stiamo parlando, non un branco di contadini che protesta per il prezzo del grano. La Francia. La Francia e il figlio del papa. Vedete voi che volete fare.”

Ludovico lo fissò per qualche istante in cagnesco e poi, rendendosi conto che il suo cancelliere sapeva essere molto più lucido di lui, concesse: “Ne parlerò anche con Ermes. Comunque... Scrivete a Orfeo. Mi deve tenere al corrente... Voglio sapere quando Fracassa arriverà a Forlì, così da potere, eventualmente, spiccare l'ordine per Pirovano.”

“Come desiderate, mio signore.” sorrise Calco, sicuro di aver convinto il Duca a fare la cosa migliore per tutti.

 

Il corteo che avrebbe scortato fino a Roma Cesare Riario era già quasi pronto, ma il giovane ancora non era uscito da Ravaldino.

Il Monsignor Vescovo Tommaso Dall'Aste gli aveva detto di fare pure con calma, anche perché, mentre il ragazzo era alla rocca a salutare la famiglia, i forlivesi avrebbero avuto il tempo di accalcarsi lungo le strade per dare il loro caloroso addio a 'una perla illustre della città'.

Di fatto Cesare avrebbe quasi preferito evitare quei momenti. Non vedeva l'ora di partire per l'Urbe e quel 20 maggio nel cielo splendeva un sole portentoso che lo rendeva anche meno restio del solito all'idea di montare in sella.

Dopo una colazione eccezionalmente ricca, per il suo solito, il Riario espresse – con scarsa sincerità – il suo desiderio di rivedersi presto ai fratelli più piccoli, e poi volle incontrare Ottaviano e Bianca da soli.

“Vedrai che a Roma ti troverai bene.” disse la sorella, non appena si trovarono nel silenzio dello studiolo del castellano: “Nostro cugino Raffaele ti aiuterà a fare conoscenze e a capire come ci si muove in Vaticano.”

Cesare strinse le labbra sottili e ribatté: “Questo lo so benissimo.”

Bianca, vedendo mortificato quel suo tentativo di fargli coraggio – dettato da un improvvisa paura per quel distacco – si morse l'interno della guancia e poi, con tono freddo, disse: “Hai ragione, non sta a me dirti come fare. Stammi bene, Cesare. Se puoi, ogni tanto, scrivici. Se sarai troppo impegnato... Be', almeno prega per noi.”

“Aspetta, Bianca...” tentò il giovane, ma la sorella aveva già preso la porta ed era uscita, lasciando i due fratelli da soli.

“Lascia stare.” borbottò Ottaviano, vedendo l'altro un po' adombrato per la reazione secca della sorella.

I due Riario non sapevano cosa dirsi. Fondamentalmente erano grati entrambi alla madre di aver fatto sì che il maggiore fosse già a casa al momento della partenza del minore, ma adesso che si fronteggiavano, con la paura che quello potesse essere l'ultimo addio, visti i tempi bui che si apparecchiavano, non sapevano che dirsi.

Forse deciso a prendere in mano il discorso, Ottaviano schiuse le labbra e si mise a guardare l'altro, ma quando i loro occhi si incrociarono, tra loro restò il silenzio.

Bastò quello sguardo, tuttavia, per riportare entrambi indietro di anni e in breve il pensiero che riempì la mente di tutti e due fu lo stesso.

Con un nodo alla gola che quasi gli impediva di parlare, il più grande sussurrò: “Eravamo solo ragazzini.”

“Ma sapevamo quello che stavamo facendo.” ribatté Cesare, scuotendo appena il capo.

“Nostra madre ci aveva già abbandonati una volta, l'avrebbe rifatto.” si schermì Ottaviano, più nella speranza di avvertire nel fratello un velo di perdono.

“Nostra madre ci ha sempre amati, malgrado tutto. Se non fosse stato così, saremmo morti il giorno in cui ci ha fatti arrestare, quattro anni fa.” fu la lapidaria considerazione del religioso.

“Non ci ha uccisi solo perché aveva paura di vedersi togliere lo Stato. Io gli servivo vivo.” fece notare il Riario maggiore.

“Ma io no. Mi avrebbe potuto ammazzare senza problemi, ma non l'ha fatto.” deglutì Cesare.

“Solo perché credeva che fossi stato io a portarti sulla strada sbagliata. Per lei sono sempre stato solo io, l'unico colpevole.” si premurò di dire il primogenito.

L'altro scosse con forza il capo, mettendo in mostra la tonsura e insistette: “Per lei siamo tutti colpevoli. Noi due, Bianca, forse in una certa misura anche Galeazzo e Sforzino. Ci odia perché siamo figli di nostro padre, ma ci ama perché siamo anche figli suoi.”

“Se tornassimo indietro...” sospirò Ottaviano, sollevando un sopracciglio: “Malgrado tutto quello che è successo poi... Io lo rifarei. Lo farei uccidere di nuovo.”

“Perché?” chiese il fratello, che credeva, con quel breve scambio, di averlo convinto della cattiveria e della crudeltà inutile del gesto che avevano compiuto.

“Perché lei ci avrebbe abbandonati. Lo stava già facendo. Morto lo stalliere, è tornata ad accorgersi di noi e non ci ha lasciati più.” spiegò il ventenne, con una fermezza che lasciava intendere molto bene quanto ne fosse convinto.

Cesare, a quel punto, non sapeva più che dire per provare a redimere il fratello e così allargò le braccia e lo invitò ad abbracciarlo.

Si strinsero per pochi istanti, come avessero fretta e poi, dopo essersi scambiati un addio quasi formale, uscirono dallo studiolo.

“Vostra madre vi attende nella sala delle letture.” disse il Capitano Mongardini, che aveva atteso in corridoio per un po', mandato lì dalla Tigre al preciso scopo di intercettare Cesare prima che potesse sgusciare via evitando l'ultimo confronto con lei.

Ottaviano occhieggiò verso il fratello e, sollevando appena il mento, gli disse: “Non farla aspettare.”

Il secondogenito della Leonessa andò alla sala delle letture con il passo lento tipico dei condannati.

Si era aspettato, in realtà, che sua madre volesse vederlo un momento in solitudine. Però aveva sperato che alla fine lei rinunciasse.

Bussò alla porta una volta sola e sentì la voce della Contessa dirgli di entrare. Caterina l'attendeva seduta in poltrona, ma quando lo vide entrare si alzò subito. Lasciò che il figlio si richiudesse la porta alle spalle, e poi gli si parò davanti.

Aveva tante cose che le frullavano per la testa. C'erano tantissime raccomandazioni e avvertimenti che avrebbe voluto dargli, ma di fatto la voce le restava incastrata in gola e dalle sue labbra non usciva il minimo suono.

Cesare sosteneva il suo sguardo. A differenza di Ottaviano, lui era sempre riuscito a farlo. Anche nei momenti più concitati e delicati, il giovane Riario aveva dato prova di essere molto più coraggioso del fratello, anche a costo di risultare sfacciato.

Quello sguardo alla Sforza ricordò troppo da vicino le occhiate quasi di sfida che quel figlio le aveva riservato sempre più spesso, da che era morto prima Girolamo e poi, soprattutto, Giacomo.

Dando una forza al suo braccio di gran lunga superiore a quanto desiderato, la Tigre colpì il Cesare in pieno viso, a mano aperta, in modo tanto violento e inaspettato che il ragazzo dovette aggrapparsi al muro vicino per non cadere in terra.

Mentre il Riario si tastava cauto la guancia arrossata e dolorante, la madre inspirò con forza, un po' incredula per quel che aveva fatto, chiedendosi quanto avesse giocato il volere di far male e quanto la sua incapacità di trattenersi.

“Per tutti gli schiaffi che non ti ho dato quando avrei dovuto.” spiegò, tentando di legittimare un po' di più il suo gesto.

Rimessosi dritto, il ragazzo fissò la madre per un po'. Avrebbe voluto chiederle di nuovo perdono per quello che aveva fatto, ma non trovava le parole giuste.

“Io...” cominciò a dire il Riario, ma si fermò subito.

Le iridi verdi della madre lo stavano indagando come se potesse leggere la sua anima. Caterina, in quel momento, in realtà, era tornata indietro di anni. Era tornata a quando Ottaviano e Cesare erano latitanti, scappati come due vigliacchi, dopo la morte di Giacomo. Risentì il 'sì' gridato da Tommaso Feo quando il Capitano Mongardini aveva detto loro di averli trovati e aveva chiesto se dovesse portarli alla rocca.

Avesse dato retta a suo cognato, Ottaviano e Cesare sarebbero morti quel giorno e, forse, sarebbe finito tutto lì.

Per tacitare quel lato di sé che le diceva che sarebbe stato molto meglio ucciderli quella volta, la Sforza si mosse rapida verso il figlio. Questi, temendo di essere colpito ancora, non si mosse, ma serrò le palpebre, pronto a un altro schiaffo o anche a qualcosa di peggio.

Restò spiazzato quando, invece, si sentì abbracciare dalla madre, una stretta da togliergli il fiato, ma senza traccia di rancore. Per la prima volta, dopo tanti anni, la Contessa lo stava cingendo con l'accorata dolcezza di una madre.

“Quando sarai a Roma, stai attento. Sono lupi, quelli. Fatti consigliare da Raffaele, lui ci tiene a te, non ti farà sbagliare. E non tradirci mai, qualsiasi cosa ti dicano o succeda.” sussurrò la donna, direttamente nell'orecchio del ragazzo.

“Sì, madre.” promise lui, riuscendo a restituirle l'abbraccio, ma non con lo stesso trasporto.

La Contessa lo scostò un po' da sé, per poterlo guardare in viso. Aveva lineamenti affilati, scarni e la tonsura lo faceva sembrare anche più striminzito di quanto non fosse in realtà.

Ormai era un uomo, ma nei suoi occhi castani la donna rivide per qualche istante l'ombra del bambino che era stato. Dapprima lo ricordò spaventato e perso, alla morte del padre, ma poi le tornò chiara in mente la sua immagine dolce, affettuosa, di quando era molto piccolo.

Era stato solo un lampo, ma era bastato per smuovere in lei qualcosa, tanto da portarla a fargli chinare un po' il capo per riuscire a baciarlo in fronte.

Finalmente lo lasciò andare. Il Riario si sistemò meglio gli abiti da religioso, si passò una mano sui capelli, per assicurarsi che fossero in ordine e poi raddrizzò la schiena, una mano al crocifisso che portava al collo e una lungo il fianco.

“Guardati – soffiò la Leonessa – un padre della Chiesa.”

Per la prima volta da che ricordava, Cesare avvertì nella madre un velo di orgoglio, nell'inquadrarlo come un religioso. Di solito, quando gli si rivolgeva chiamandolo 'prete' o in modo simile, lo faceva con un intento di scherno molto evidente. Nella sua voce, invece, quella volta c'era solo fierezza.

“Mi mancherete, madre.” ribatté il Riario, chinando il capo.

“Adesso vai. Ti aspettano. E ricordati sempre quello che ti ho detto. E non dimenticare mai che per metà sei anche uno Sforza.” rimarcò Caterina, stringendo un po' i denti per non lasciarsi commuovere dallo sguardo del figlio, che si stava facendo a sua volta lucido.

Quando il corteo lasciò Forlì, la Contessa era sui camminamenti della rocca, osservando con attenzione il figlio che si allontanava da lei, convinta, nel profondo, che quella fosse davvero l'ultimo addio tra loro.

Gli altri suoi figli – compreso Giovannino, tenuto saldamente in braccio per tutto il tempo dalla sorella Bianca – rientrarono a Ravaldino appena la folla cominciò a lasciare le strade e tornare alle proprie occupazioni.

Quando calò la sera, colta da una strana malinconia, la Tigre chiese alla figlia di cantare per tutti loro, come faceva quando era più piccola. Così, dopo cena, si riunirono tutti nella sala delle letture per assistere a quella breve esibizione della ragazza e anche Chiara gradì molto quell'idea della Contessa.

Caterina ascoltò con attenzione la voce leggera e aggraziata della figlia, che in quel frangente le ricordava in modo sconvolgente sua sorella Bianca e un po' anche sua madre Lucrezia.

Quando la Riario finì l'ultima canzone, godendosi gli applausi di apprezzamento dei fratelli, la madre la ringraziò e congedò tutti quanti, augurando loro una buona notte.

Bianca fu l'unica, tra i presenti, a rendersi conto che qualcosa nella Sforza non andava. Attese con pazienza che gli altri si ritirassero e poi la seguì con discrezione quasi fino in camera.

La Tigre si accorse di lei solo all'ultimo e quello per la ragazza fu solo un altro segnale di quanto la madre fosse distratta.

“Cesare a Roma starà bene. E quando arriverà a Pisa starà anche meglio.” disse la giovane, credendo che fosse quello il punto: “Non dovete preoccuparvi, per lui.”

“Lo so, lo so...” sorrise stancamente la Leonessa e poi la pregò di lasciarla, perché si sentiva molto stanca.

Bianca fece come le era stato detto, tuttavia, una volta nella propria stanza, tese l'orecchio e non appena sentì dei passi, aprì uno spiraglio di porta e controllò se fosse, come previsto, sua madre.

La Contessa camminava a passo spedito, come se avesse un impegno urgente. La ragazza si assicurò che prendesse le scale e poi, colta da un'improvvisa intuizione, andò alle finestre che davano sul cortile d'addestramento e guardò giù. Dopo pochi minuti comparve la Tigre che, sempre con la medesima andatura marziale, quasi corse nelle stalle.

Uscì poco dopo, a cavallo del suo stallone preferito, e andò verso il cortiletto, evidentemente decisa a uscire dalla rocca.

La Riario sperò con tutta se stessa che quella fosse solo una reazione di fuga al pensiero di aver detto addio a uno dei figli e che la madre fosse diretta nella sua riserva di caccia, magari per passare una notte solitaria alla Casina. In ogni caso, saperla lontana da Ravaldino in piena notte e con i tempi che correvano, mise in forte agitazione la giovane che, tornata in camera, non riuscì a prendere sonno se non verso mattina.

 

Il suono umido provocato dal bruco che veniva schiacciato dal piede di Niccolò Machiavelli si perse completamente nel vociare della sala consiliare.

Il governo di Firenze aveva preso la lettera di Ludovico il Moro come una sorta di offesa mascherata da mano tesa.

Gli animi non si erano ancora placati dopo le richieste insistenti di Paolo Vitelli che, dal fronte, per resistere ai pisani, che ancora non avevano cessato fattivamente le ostilità, malgrado il lodo di pace redatto dall'Este di Ferrara, che già quella nuova richiesta, arrivata da Milano, faceva uscire dai gangheri tutti quanti.

Se il Vitelli aveva punto sul vivo i fiorentini domandando – e ottenendo – quattromila ducati per riordinare le sue compagnie, e un aumento della condotta di altri cento uomini, arrivando a comandare settecento armigeri, settecento cavalleggeri e altri diecimila uomini dalla varia mansione, lo Sforza aveva, se possibile, fatto anche di peggio, andando a toccare non i forzieri, ma l'orgoglio della Repubblica.

Niccolò conosceva bene come pochi altri la situazione politica internazionale di quel periodo, ma, pur essendo il Segretario di Stato, tornato di recente da un'ambasceria tutt'altro che semplice, sembrava che nessuno si accorgesse di lui.

A che era servito, si chiedeva, mentre spiaccicava un altro bruco con il tallone, aver perso le notti a scrivere e correggere 'Il discorso fatto al magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa', se poi veniva preso sottogamba da chiunque?

Arrabbiato con Firenze, con sé stesso e con i tempi in cui viveva, Machiavelli trattenne a stento una risata cattiva, quando vide Lorenzo Medici, intento a litigare con tutti i presenti, perfino con il pacifico Salviati, scacciare all'ultimo minuto un bruco che gli era arrivato sulla giacca.

Quella dei bruchi sembrava una novella piaga divina, per la città. Fin dal primo giorno in cui aveva cominciato a fare caldo, Firenze era stata letteralmente invasa da piccoli bruchi nerissimi e pelosissimi, che, quando mordevano, lasciavano dei bozzi molto grandi, infiammati e, soprattutto, dolorosissimi.

Tutti quanti facevano del loro meglio per tenere gli insetti fuori dalle case, anche se con scarsi risultati, e anche per strada era pressoché impossibile non trovarsene addosso almeno una decina dopo pochi passi.

“Il Duca di Milano – aveva appena preso la parola uno dei membri della Signoria – non ha l'autorità di obbligare Pisa a tornare in mano nostra. Sta solo dicendo un sacco di fesserie nella speranza che noi gli si paghi l'esercito per difendersi da re Luigi!”

Tutti quanti, alla fine, erano d'accordo con quella lettura della lettera del Moro che, in breve, diceva di essere disposto a dare ordine – senza specificare a chi – che Pisa tornasse a essere fiorentina, a patto che, in cambio, all'occorrenza Firenze gli procurasse e pagasse un certo numero di soldati di cui potesse poi disporre a suo piacimento.

Tra il caldo, i bruchi e le urla dei presenti, Niccolò avrebbe tanto voluto uscire prima dal palazzo, ma di fatto dovette restare come tutti quanti fino a sera tarda.

Quando uscì, accarezzato dall'aria che andava rinfrescandosi in vista della notte, inspirò a pieni polmoni il profumo della primavera, viziato dagli odori della città che, comunque, non riuscivano ugualmente a coprirlo del tutto.

Machiavelli, dopo aver dedicato un cenno del capo al Medici, che gli era passato accanto salutandolo con un borbottio indistinto, si toccò la tasca del giubetto e rendendosi conto di avere con sé qualche soldo in più di quel che credeva, si diresse verso una delle taverne che frequentava di solito, in cerca di vino, cibo e una donna.

Tuttavia, appena entrò, si rese conto che starsene in quell'osteria sarebbe stata solo una tortura. A parte la presenza di un paio di sue vecchie conoscenze – due giovani fiorentini che avevano smesso di chiamarlo scherzosamente Macchia solo quando avevano capito che ormai lui era il Segretario di Stato e non più uno scribacchino dai capelli indomabili – l'ambiente era saturo di tutti quei tanfi che Niccolò aveva appena rifuggito uscendo dal palazzo. Senza contare la presenza di bruchi ovunque.

Uscì, facendo appena in tempo a sentire uno degli avventori lamentarsi di aver trovato uno dei mefitici insetti nel suo boccale di birra, e si diresse verso casa, dicendosi che avrebbe potuto comunque bere del buon vino in solitudine, uscendo più tardi in cerca di compagnia.

Quando fu in prossimità del suo palazzo, però, vide che la finestra della camera da letto della sua vicina era aperta. Aveva messo una tenda, probabilmente per evitare ai bruchi di entrare a frotte, ma l'aveva lasciata spalancata.

Quello era il segnale che, da anni, quella donna usava per fargli capire che il marito era fuori città e che lei aveva voglia di vederlo.

Niccolò ci ragionò un istante. La fame e la sete gli passarono di colpo. Avrebbe potuto passare una notte perfetta, e senza nemmeno sborsare una moneta.

Felice per quell'inatteso risvolto della serata, Machiavelli si passò una mano tra i fitti riccioli, finendo per renderli ancora più selvaggi di poco prima e, senza indugio, bussò alla porta, annunciandosi, ben felice di poter alleviare la solitudine di una moglie trascurata che, unica, forse, in Firenze, adorava alla follia il suo ciuffo ribelle.

 

 
 
   
 
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