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Autore: Adeia Di Elferas    10/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina entrò nella sua camera e si mise subito alla scrivania. Le bestie appena arrivate per tramite di Leonardo Strozzi l'avevano soddisfatta solo in parte e, dopo quella lunga trattativa e i soldi anticipati, si sentiva quasi presa in giro, nel vedersi consegnare, tra gli altri animali, tre muli che si reggevano a mala pena in piedi, del tutto inadatti al lavoro a loro destinato.

Intinse con rabbia la punta della penna nell'inchiostro e, dopo aver scritto rapidamente l'intestazione, proseguì: 'Mandiamo tre muli per cambiarli; quando ce sia il modo de farlo havremo caro li cambiate, si bene ce andasse qualche giunta, che sapite voi il gosto de li nostri, che per mano vostra forno pagati.'

Ci ragionò su un momento e, ricordandosi di tutte quelle volte in cui lei e Giovanni avevano discusso di come si devono condurre gli affari, decise di cautelarsi, prima di perdere sia i muli, sia i soldi già versati: 'Quando non li fosse comodità da cambiarli, remandateli subito adrieto.'

Chiusa la missiva, la donna la rilesse e la sigillò, ma poi, invece di correre a spedirla, restò qualche istante ferma dov'era a pensare.

Non sapeva dire nemmeno lei come, ma le era appena tornata in mente la notte che era seguita alla partenza di suo figlio Cesare. Forse ci aveva ripensato perché scrivere una lettere l'aveva portata a chiedersi quando il ragazzo le avrebbe fatto avere sua notizie. Era desiderosa di saperlo al sicuro, per quanto fingesse di non dar peso alla sorte del suo secondogenito.

La sua partenza l'aveva spossata in modo indicibile. La sensazione, orrenda, che quella potesse essere davvero l'ultima volta in cui si vedevano – perché, a differenza di certi momentanei distacchi del passato, il giovane era partito teoricamente per non far più ritorno, se non in visita in un remoto futuro – le aveva lasciato un vuoto che non riusciva a riconoscere. Era stato per quello che, appena dopo aver cercato di ritirarsi nelle sue stanze, aveva invece preso il suo cavallo ed era uscita a spron battuto dalla rocca, cercando di scappare, prima di tutto, da se stessa.

Era andata nei boschi, aveva vagato nel buio, rischiando anche di perdersi un paio di volte, e poi aveva raggiunto la Casina. Tempo di accendere il camino per farsi un po' di luce, però, e già quell'ambiente, per lei così familiare e caldo, aveva iniziato a starle stretto. Stava tentando di sfuggire ai ricordi e ai pensieri e sostare in un luogo che le faceva sentire ancora così forte la presenza di Giovanni non era la cosa giusta da fare.

Così aveva spento il camino e si era rimessa in sella. Era tornata in città, ma senza avvicinarsi alla rocca. Aveva girato per un po' nel Quartiere Militare e aveva finito per avvicinare un paio di soldati che erano stati fin da subito molto disponibili.

Si era svegliata al mattino dopo, appena sorto il sole, in una delle camere della locanda che stava al limitare del Quartiere. Aveva la testa pesante, probabilmente per colpa del vino di bassa qualità che aveva bevuto quella notte e quando aveva provato a muoversi, si era ritrovata aggrovigliata ai due giovani che si era scelta la sera prima.

Per quanto avesse cercato di far piano, li aveva svegliati entrambi e, con un velo di imbarazzo, si era rivestita in fretta, mentre loro facevano altrettanto ed era scesa per pagare il conto della stanza all'oste.

L'uomo l'aveva guardata in tralice per qualche istante, e poi, aveva scosso il capo e aveva detto, con voce calma: “No, no, mia signora. Per voi non c'è nessun conto. Offre la casa.”

Caterina avrebbe voluto insistere, ma si era resa conto di aver comunque con sé pochissimo denaro e così, cercando di prendere quell'offerta come un segno di amicizia e lealtà, aveva abbozzato un sorriso e aveva ringraziato, uscendo dalla locanda prima di incontrare di nuovo i due soldati.

Mentre ritornava verso Ravaldino a cavallo del suo stallone, si era ritrovata a rimproverarsi per quanto aveva fatto. Non avrebbe voluto più essere così, ma non sapeva gestirsi, o, meglio, non voleva farlo. Il sollievo che traeva dal seguire il suo istinto leniva il dolore di molte sue ferite e tanto le bastava per continuare a fare quel che faceva.

Tuttavia, quando era arrivata alla rocca e aveva rimesso nella stalla il suo cavallo, si era chiesta quanto ancora avrebbe potuto continuare così e aveva maledetto il Moro per il suo temporeggiare nel mandarle Giovanni da Casale. Sarebbe stato solo una distrazione, ma l'avrebbe aiutata a contenersi, si conosceva abbastanza bene da esserne certa.

La Tigre si prese il viso tra le mani e cercò di respirare lentamente, per calmarsi. Ogni volta che si metteva a ragionare su se stessa, sulla donna che era diventata e sulla vita che conduceva, le pareva di trovarsi sull'orlo di un baratro, con l'abisso che la guardava e nemmeno un appiglio a cui aggrapparsi per essere più sicura di non cascare di sotto.

Giusto il giorno prima aveva rispedito a Milano l'ambasciatore, Orfeo, e l'aveva fatto per due motivi principali. Si trattava di due motivazioni per lei correlate e sperava che anche suo zio Ludovico facesse quel collegamento mentale.

Mandando via Orfeo, con la scusa di essere molto delusa dal suo operato, lasciava un posto da diplomatico vacante. Per di più, durante il colloquio con cui l'aveva congedato, si era abbassata a chiedergli di ricordare al Duca la richiesta da lei fatta in merito a Giovanni da Casale.

All'inizio Orfeo aveva chiesto, con voce acuta, cadendo dalle nuvole: “Mi mandate via? Ma se ho anche accompagnato vostro figlio a Loreto!”

Quando la Tigre aveva ribattuto: “Lo so, e vi ringrazio, ma avendovi lontano da qui ho capito che la vostra presenza a Forlì è superflua.” l'uomo non aveva trovato altro da dire e aveva ascoltato la sua seconda richiesta, ancora stordito da quella decisione improvvisa.

“Giovanni da Casale?” aveva chiesto, accigliandosi: “Il Moro vuole sostituirmi con lui?”

“Non sta a me dirvelo – aveva tagliato corto Caterina – ma vi prego, riferitegli quel che vi ho detto e fategli capire che non voglio più aspettare.”

L'ambasciatore, un po' confuso da tutte quelle novità, capitate all'improvviso in un giorno che fino a quel momento aveva ritenuto tranquillo, anzi, quasi noioso, aveva annuito e se n'era andato borbottando i suoi saluti e assicurando che avrebbe lasciato la città prima di sera.

Quando sentì bussare alla porta, quasi si spaventò, per quanto era concentrata su se stessa. Chiese chi fosse a cercarla e che cosa volesse.

A risponderle fu il castellano Feo che le fece sapere che era richiesta la sua presenza negli alloggi dei soldati.

Sbuffando, la Sforza si alzò e andò alla porta, domandando, quando aprì: “Che cos'è successo?”

Cesare sollevò le sopracciglia e poi spiegò: “Ecco, vostro figlio Bernardino ha avuto un piccolo screzio con una delle reclute e...”

“Che diamine, Bernardino non ha nemmeno nove anni, che cosa può aver mai fatto, per far arrabbiare un uomo fatto?” fece la donna, uscendo comunque dalla camera, già diretta verso i baraccamenti.

“Il soldato sostiene che vostro figlio gli ha rubato un pugnale di sua proprietà.” si affrettò a rispondere il Feo.

Sentito ciò, alla Contessa non parve più una cosa campata per aria, dato che il piccolo aveva già dato prova in passato di essere incline a prendere le armi altrui.

“Va bene, vado a sistemare questa scocciatura – sospirò, fermandosi e voltandosi un momento verso il castellano – e quando avrò placato il soldato, sappiate che vi manderò Bernardino. Per punizione lo manderete con gli stallieri a pulire sotto i cavalli e voglio che restiate lì presente per tutto il tempo.”

“Ma...” provò a dire Cesare, che aveva un sacco di cose da fare e osservare un bambino che si improvvisava stalliere non era certo una cosa che lo allettasse.

“Bernardino è figlio anche di vostro nipote – gli ricordò Caterina, con più durezza di quanto non volesse – e vederlo spalare letame ricorderà anche a voi che suo padre, non fosse stato per me, non avrebbe mai mosso un piede dal quella stalla. Che gli sia di monito e che impari che se continua così, a saltare le lezioni e a disertare gli allenamenti con il maestro d'armi, diventare garzone di stalla sarà il suo unico possibile destino. Io non riesco a pensare a tutto. Almeno a Bernardino, voglio che diate un occhio anche voi. Oltre a me, siete l'unico, qui dentro, a cui importi qualcosa di lui, quindi, per la miseria, aiutatemi!”

Fu più lo sguardo della Sforza – che gli parve sinceramente affranta per la propria incapacità di controllare meglio il figlio – che non il tono della sua voce a convincerlo.

“Sì, mia signora, farò come dite.” sussurrò, chinando il capo: “Per quanto è in mio potere, tenterò di stare più vicino al figlio di Giacomo.”

La Tigre annuì e poi, dandogli un colpetto sulla spalla, tornò a camminare, sperando di spegnere nel nulla anche quello spiacevole episodio.

 

Antonio Baldraccani era quasi uscito dal territorio faentino, ma non si sentiva tranquillo. Essere richiamato da Milano così all'improvviso l'aveva un po' sorpreso, ma se la Tigre l'aveva fatto, doveva esserci qualche motivo serio.

Aveva sentito, mentre ancora stava alla corte del Moro, che lo stesso Duca aveva da poco richiamato Alessandro Orfeo in patria. Era difficile capire perché, anche se Baldraccani, da scaltro ambasciatore quale era, un'idea se l'era fatta.

Ricostruendo i maneggi dello Sforza e sommando i risultati delle sue spiate a quello che la Contessa gli riferiva regolarmente da Forlì, era probabile che l'uomo avesse ritirato l'Orfeo al solo scopo di poter mandare al suo posto Giovanni da Casale a mo' di diplomatico milanese.

Era una scelta quanto meno discutibile, soprattutto pensando a come Pirovano fosse un uomo d'azione, più che di tante parole. Era anche vero, comunque, che tutti, o quasi, sapevano quanta udienza avesse Giovanni in casa della Leonessa di Romagna.

Per certi aspetti, l'idea del Duca non era male, anche se, al suo posto, Antonio non si sarebbe mai fidato di un emissario nato per tirare di spada e notorio amante della donna con cui avrebbe teoricamente dovuto contrattare termini e accordi.

Aveva come scorta solo un paio di uomini, armati, ma con le piastre dell'armatura ben nascoste sotto le tuniche. Aveva ritenuto più saggio muoversi in quel modo, piuttosto che attirare troppo l'attenzione su di sé.

Contava anche sul fatto che quasi nessuno conoscesse il suo aspetto, ma preferiva comunque cercare di restare il più anonimo possibile.

Stavano attraversando un punto abbastanza denso di alberi, nel cuore del bosco e il terreno era un po' scivoloso per via delle piogge dei giorni prima. Anche se quella mattina splendeva il sole, sotto quelle fronde che si stavano facendo già verdi, pronte per l'inizio di un nuovo giugno, c'era una penombra quasi piacevole.

Cogliendo un po' di sorpresa sia Baldraccani sia l'altro uomo di scorta, uno dei due soldati all'improvviso fermò il proprio cavallo e fece loro segno di stare zitti. Si guardava attorno circospetto, tendendo l'orecchio.

Anche Antonio fece altrettanto, ma oltre ai rumori consueti del bosco, non sentì nulla.

Almeno non finché un sibilo letale e subdolo di una freccia lo sfiorò così da vicino da spettinargli i capelli.

“È un agguato!” gridò il soldato che per primo aveva capito che qualcosa non andava: “Correte!”

Le frecce nell'aria si moltiplicarono, lasciando intendere ai tre che gli assalitori fossero almeno una dozzina. Fu solo un caso se nessuna delle tremende punte di metallo trovò la carne dei forlivesi o dei loro cavalli.

Baldraccani non ricordava di aver mai cavalcato tanto rapidamente, né di avere mai avuto così tanta paura. Seguiva senza farsi domande i due uomini che stavano con lui, pregando di non trovare sulla sua via nessun ramo basso, né di trovarsi una freccia piantata nella schiena. Sentì, poi, quando i dardi cominciarono a essere meno numerosi, il battere di altri zoccoli, segno che gli aggressori avevano rinunciato a colpirli subito e, in cambio, si erano messi a inseguirli.

Udì distintamente delle voci dal forte accento faentino e distinse alcuni improperi rivolti alla Contessa Sforza e alla sua discendenza e questo gli fece capire che quello non era l'attacco di un gruppo di briganti, ma un attentato vero e proprio. Sapevano chi era lui e dove era diretto e non era assurdo credere che a loro servisse sia vivo – per estorcergli informazioni – sia morto, per ottenere il plauso di Astorre Manfredi, o, meglio di Castagnino e del Bentivoglio.

Uno dei soldati che stavano con lui a un certo punto scartò bruscamente di lato, portando i due compari a fare altrettanto. Si infilarono in una sorta di corridoio naturale tra bassi cespugli e qualche rada pianta, che poi digradò violentemente riuscendo – o almeno così sperava – a nasconderli una volta per tutti ai loro inseguitori.

Cavalcarono rapidi come saette almeno un'altra ora, prima di azzardarsi a rallentare. Era da un po', in realtà, che avevano passato il confine e che nessuno era più alle loro calcagna, ma il terrore aveva messo loro addosso una smania di vita incredibile, che si era tradotta in quella corsa a dirotto.

Il limitare del bosco era ormai a vista d'occhio e i tre uomini non vedevano l'ora di uscire di nuovo alla luce del sole e trovare la sicurezza di un campo aperto dove, benché più visibili, sarebbero stati paradossalmente anche più al sicuro.

Quando intravidero il primo cascinale, senza dirsi nulla, vi si avvicinarono, convinti che, in caso di bisogno, sarebbe stato più facile trovare soccorso.

Un contadino li vide e, trovandoli sconvolti, chiese loro chi fossero e, ricevuta la risposta dalla chiara voce di Baldraccani, li pregò di entrare un attimo in casa per riposarsi e bere qualcosa.

I tre rifiutarono di entrare, ma accettarono il vino e un po' di cibo. Si misero contro il muro del granaio e legarono i cavalli al palo, mettendosi a parlare di quanto accaduto.

“Sapevano chi eravamo – disse Antonio, senza possibilità di appello – ed erano di Faenza. O li mandava Manfredi o il Bentivoglio, comunque sia, qualcuno voleva ledere la Contessa rapendoci o uccidendoci.”

Uno dei due soldati annuì e confermò: “Erano in tanti, volevano essere sicuri di riuscire a sopraffarci.”

“Avanti – fece l'altro armigero, asciugandosi le labbra con il dorso della mano – finite in fretta quel che ci hanno dato per rifocillarci e poi ripartiamo. Scommetto che questo sia il genere di notizie che la Tigre vuole sapere senza ritardi.”

 

Caterina ascoltava in silenzio, il viso inespressivo, come se durante il resoconto di Baldraccani la sua mente fosse concentrata su tutt'altro.

Luffo Numai e Cesare Feo, invece, che erano ai due lati della donna e prendevano nota di tutto quello che veniva detto, apparivano preoccupati e tesi, come se quella notizia ingigantisse molte delle loro preoccupazioni, ridimensionando parecchie loro certezze.

“Ne avete visto qualcuno in viso?” chiese la donna, quando l'ambasciatore ebbe finito il suo racconto.

La prima cosa che aveva pensato era che potesse essere ancora qualcosa di collegato all'omicidio di Ottaviano Manfredi. Anche se Dionigi Naldi si stava facendo in quattro per cercare i colpevoli ancora in libertà, e anche se la stessa Faenza aveva giustiziato uno degli assassini, la Tigre non se la sentiva di considerare quella questione conclusa.

Lo spettro dei Bentivoglio, poi, era sempre più presente, dato che negli ultimi tempi appariva chiaro come Castagnino stesse lasciando un po' la presa, in favore del controllo sempre più serrato da parte del signore di Bologna.

“No, non li abbiamo visti bene...” fece Baldraccani, alzando un po' le spalle: “Appena ci siamo accorti che ci stavano attaccando, ci siamo messi a scappare e abbiamo pensato solo a salvarci la pelle.”

“Avete fatto bene.” disse piano Numai, non riuscendo a trattenersi.

La Contessa si voltò appena verso di lui, dedicandogli un'occhiata fredda, forse di rimprovero, e poi tornò a guardare Antonio: “Dirò all'Oliva di fare qualche ricerca in merito a tutta questa storia, ma sia chiaro che, al momento, non metterò più nessun altro in pericolo. Ritengo questo agguato un segno di ostilità da parte di Faenza e, dunque, anche da parte di Bologna.”

“Volete che si dirami questa vostra presa di posizione?” chiese Luffo, un po' preoccupato dalle conseguenze che una simile dichiarazione avrebbe potuto avere negli equilibri diplomatici con gli Stati loro confinanti.

La Sforza fu tentata di dire di sì, ma poi sospirò e ci ripensò: “Ovviamente no, lo sto dicendo a voi che siete i miei collaboratori. Tuttavia adesso scriverò a mio zio, per spiegargli la situazione e ribadire la necessità di una garanzia da parte sua.”

Nessuno degli uomini presenti osò dire altro e la guardarono mentre andava alla porta. Solo un attimo prima di lasciarli, la Leonessa si voltò e chiese al castellano di mettere a parte di quel discorso anche l'Oliva.

Lasciato lo studiolo, quasi corse nella sua camera. Aveva interrotto bruscamente quell'incontro perché aveva paura di prendere delle decisioni sbagliate, sull'onda del proprio stato d'animo. Era nervosa, e non solo per colpa di quanto accaduto. Si sentiva sempre di più una belva in gabbia e anche quella notte il non essere riuscita a darsi un freno l'aveva messa davanti una volta di più alla sua più grande debolezza, spaventandola moltissimo.

Era preoccupata anche per i suoi figli, perfino per Cesare, che ancora non le aveva dato notizie riguardo l'esito del suo viaggio.

Le dispiaceva vedere Ottaviano inadatto a qualsiasi mansione, sbiadita figura di un uomo di vent'anni, abile solo a sopraffare donne contro il loro volere. E le dispiaceva ancora di più trovarsi incapace di fermarlo o anche solo di fronteggiarlo come avrebbe dovuto. Non facendo nulla per arrestare la sua calata negli inferi, si stava rendendo complice di crimini che la nauseavano e l'avvilivano, e non sapeva come uscire da quel circolo vizioso.

Avrebbe voluto poter dare maggior appoggio a Bianca, che si trovava a essere ancora formalmente sposata con qualcuno che non voleva e a vivere, a un'età in cui pressoché tutte le nobili sue coetanee erano già sposate e a volte madri, in una rocca colma di uomini, perennemente in bilico tra le tentazioni tipiche del suo sangue giovane e la consapevolezza di quanto le sarebbe potuto costare un errore irreparabile. Si consolava vedendo come la figlia stesse crescendo istruita e affabile, affettuosa con la sua famiglia e sempre pronta a dare una mano a chi ne aveva bisogno. Non aveva mai scoraggiato le sue amicizie con la servitù, sperando che tra le domestiche potesse trovare qualche amica che l'aiutasse a superare al meglio l'adolescenza e la prima età adulta. Come madre, si sentiva in colpa a delegare a quel modo un aspetto importante della vita della figlia, ma lei per prima non aveva avuto la presenza delle sue madri – che pure erano state due – quando ne aveva avuto più bisogno e quindi, senza quell'esempio, non si sentiva all'altezza della situazione.

Per Galeazzo, il suo unico tormento era il fatto che lui fosse ancora troppo giovane. Aveva il terrore di doverlo lasciar solo troppo presto, con il rischio che si bruciasse subito, non arrivando mai a diventare l'uomo che sembrava destinato a essere.

Riguardo a Sforzino, la Tigre avrebbe solo voluto riuscire a conoscerlo di più, ma non era una cosa facile e così si limitava a compiacersi del fatto che paresse un ragazzino buono e diligente, anche se forse un po' solo.

E poi c'erano Bernardino e Giovannino, le due vere croci nel cuore della Contessa.

Se per il più piccolo il problema era tutto legato alla consapevolezza di non poterlo seguire nella sua crescita quanto avrebbe voluto, dovendo alla fine scegliere per lui un tutore che se ne prendesse cura, se a lei fosse successo – e, ne era certa, sarebbe finita così – l'irreparabile, per l'altro il suo tormento stava nella sua incapacità di tenerselo vicino come avrebbe voluto.

Fin da quando era nato, allontanandolo prima per motivi di sicurezza e poi, anche se ormai viveva con lei alla rocca, perché così simile a Giacomo da farla soffrire anche solo con uno sguardo, per la Sforza quel figlio era stato un cruccio. Un mezzo sconosciuto che, per quanto le somigliasse caratterialmente sotto molti aspetti, per lei era solo la testimonianza viva e tangibile di quello che aveva perso quel maledetto 27 agosto del 1495.

Asciugandosi una lacrima di rabbia, la donna, già alla scrivania della sua stanza, prese il necessario per scrivere e tentò di concentrarsi su quel che andava detto al Moro.

Voleva sfruttare quell'attacco a Baldraccani per giustificare con maggior forza la necessità di avere a Forlì qualcuno che la proteggesse, qualcuno che fosse simbolo di Milano e che, contemporaneamente, avesse le capacità e la forza di farle da scudo contro i nemici che l'attorniavano.

Così, con un sospiro pesante, cominciò a scrivere, fino ad arrivare al punto che la interessava maggiormente: 'Non potendo remandare a V. Cels. Antonio Baldracano mio secretario sencia gran periculo per le demonstratione facte in questo suo ultimo retorno per questi da Faventia da volerlo o amazare, o havere in le mano, ho conferito cum epso messer Alexandro alcune cose quale habia ad referire ala Sublimità Vostra. La prego se digni auscultarlo separatamente et prestarli fede non altrimente facesse a me propria si personalmente parlasse cum quella.'

Una volta chiusa la missiva, la portò a una delle staffette più veloci che aveva e precisò: “Correte, a costo di non dormire la notte. Voglio che arriviate a Milano prima di Orfeo.”

 

 
 
   
 
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