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Autore: Afaneia    19/07/2009    6 recensioni
Febe, quattordici anni, studentessa toscana, iscritta al liceo classico. Una stravagante quarta alfa, tra professori troppo belli per essere veri e presidi dal look alternativo. Una vita buia, immersa nella sua solitudine, vissuta cercando di ignorare il senso di vuoto infinito che la sopprime. Perché di giorno ci sono lo splendore del sole e le risate, e di notte il pallore della luna e un'esistenza cupa di cui nessuno si accorge mai. Il contrasto estremo: serenità e malinconia.
Genere: Comico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Questa storia cercherà di rappresentare la vita di una qualunque adolescente

Questa storia cercherà di rappresentare la vita di una qualunque adolescente; i personaggi sono inventati. Questo racconto non è scritto a scopo di lucro.

Vi sarò grata se vorrete lasciarmi un commento, anche breve.

La storia sta proseguendo ancora, cioè io la sto attualmente scrivendo. Poiché la sua stesura avviene a mano, per postare devo ricopiarla al computer. Cercherò di mettermi d'impegno, ma spero che chi vorrà seguire il mio racconto vorrà essere paziente.

Davvero non ho idea di quale sarà il risultato finale. Ho già molte idee, ma non so quanto la storia durerà, né so ancora cosa succederà di preciso in molti punti dell'anno. Per me questo è un progetto nuovo e molto complicato, perciò siate clementi.

Buon capitolo.

 

 

Ricordo il giorno in cui cominciai il liceo.

Le prime classi entravano prima delle altre perciò alle otto ero a scuola, in ansia, pantaloni corti sulle gambe ben depilate.

Avevo paura di chi avrei incontrato, di cosa avrei potuto dire di sbagliato, di diverso, di inadatto alla situazione.

Ero sola.

Me ne stavo lì, seduta accanto a qualche compagnia di classe delle medie, nell’auditorium del Liceo Fabrizio de André.

Avevo la gola secca e il cuore che batteva al rallentatore.

Mi mancava la mia classe.

Volevo scappare.

Forse era meglio, l’auditorium era pieno e nessuno se ne sarebbe accorto, ci sarebbe stato un posto in più.

- Febe, stai buona!- continuava a dirmi Alice. – Smettila di agitarti!

Eh, già. Perché mia madre ha avuto una bella idea, eh?, a chiamarmi Febe. E sciocco mio padre che gliel’ha lasciato fare.

- Scusa, è che sono un po’ nervosa.

- E che, io no?

Già, aveva ragione lei. Però io ero nervosa veramente. Insomma, lei al linguistico conosceva già metà delle persone che sarebbero state in classe con lei, almeno di vista, e io invece no.

Così me ne stavo lì con espressione idiota, a sentirmi ancora più idiota e a giocherellare con le cinghie del mio zaino.

- Guarda, guarda! C’è Vinci, c’è Vinci!

Ah, eccolo. Meno male. Il preside Giacomo Vinci, in codice Leo (LEOnardo da VINCI, no?). Si diceva che fosse lo spauracchio della scuola, eppure a vederlo non sembrava male. I suoi cinquanta suonati li aveva tutti, forse anche di più, eppure continuava a ostinarsi a venire a scuola in jeans, maglietta e giubbotto di pelle su una magnifica Harley Davidson.

Molto, molto sobrio.

Leo andò al microfono sul palco dell’auditorium e graziosamente si schiarì la voce.

- Allora, benvenuti per un altro anno di scuola- iniziò.

- Grazie!- urlò qualcuno dal fondo dell’auditorium e tutti risero. Mi guardai intorno per capire chi fosse stato, ma Leo rispose: - Prego- e andò avanti col suo discorso.

- Immagino che alcuni di voi siano spaventati all prospettiva di un nuovo anno di scuola in un posto così diverso dalle scuole medie. – Tacque e rimase zitto così a lungo che mi domandai se stesse per avere un infarto. – Il ragazzo di prima ha nulla da dire?

- No preside, io sono bocciato!- urlò di nuovo il tale dalle ultime file.

- Ah. Bene, ragazzi, non fate come lui.

Ridemmo e lui riprese: - Bene, a quelli di voi che sono nuovi qui, ho un consiglio da dare.

Ci fu un lungo attimo di suspance.

- Studiate!- urlò Vinci sbattendo la mano sul leggio. Il microfono cadde a terra con un crepitio che ci fece rabbrividire e una professoressa si precipitò a raccoglierlo e a metterlo a posto: purtroppo non ci stava e così ci trafficarono intorno in tre (Leo, la prof e un altro che nel frattempo era arrivato) per alcuni minuti prima di giungere a una soluzione di compromesso.

Fu così che Leo dovette abbassarsi a concludere il suo discorso con il microfono in mano.

- Bene, dove eravamo rimasti? Ah, che dovete studiare. Ragazzi, dovete studiare. Per davvero. Sennò come farete ad andare avanti? Ragazzo laggiù, me lo confermi?

Il Ragazzo Laggiù rispose: - Non concordo, preside, io avevo otto in tutte le materie tranne a greco che avevo nove, eppure sono bocciato lo stesso!

Leo ci rimase un po’ male. – Beh, e in condotta?

- Anche lì nove, prof.

- E allora perché sei bocciato?

Ragazzo Laggiù esitò. – Il mio professore non apprezzava la mia satira.

Vinci assunse uno sguardo a metà strada tra l’illuminato e il perplesso. – Ah, mi ricordo di te. – Poi proseguì come se nulla fosse: - Beh, ragazzi, fate in modo che i vostri insegnanti apprezzino la vostra satira, okay? Ah, e vestitevi decentemente, fate sempre i compiti, ricordatevi di portare la merenda a scuola e arrivate in orario. Ora se non avete domande iniziamo a fare l’appello, così poi potete andare in classe, okay?- Tacque un attimo e iniziò: - Adesso chiamo la quarta alfa del liceo classico.

Vinci cominciò a snocciolare una lunga serie di nomi che dimenticai prima ancora di aver sentiti. Restai seduta al mio posto finché non sentii: - Doria, Febe.- Allora mi alzai e mi diressi verso il piccolo gruppo di gente radunato suo fondo dell’auditorium. C’erano due prof a tenere le fila.

Una era una donna piccola, con un fisico da mettere invidia a Marilyn Monroe, solo che con il sedere venti volte più piccolo. Avrà avuto quarant’anni.

L’altra era una insignificante signora di mezza età vagamente stempiata e vestita in modo intonato col proprio personaggio: insignificante.

Alla fine fu chiamato anche l’ultimo nome “Zadini, Michela” e uscimmo dall’auditorium raggiungendo l’ingresso della scuola.

- Ci siamo tutti?- chiese Marilyn. Si guardò intorno sollevandosi sulle punte per sovrastarci. – Beh, direi di sì. Allora, io sono la professoressa Bini, Ada Bini.- Sbatté un paio di occhioni esaltati dalla matita azzurra e dalle ciglia lunghissime, probabilmente ci stava contando in silenzio, e proseguì: - Questa è la professoressa Agata Corsi, la vostra insegnante di latino e greco. Ciao.

- Ciao- dicemmo noi in coro come alle riunioni degli alcolisti anonimi.

- Prof, e lei cosa insegna?- chiese una ragazza piccola e mora. Aveva una gran brutta voce, del suo viso non si poteva dire lo stesso. Appassionata di doppiaggio com’ero, non potevo fare a meno di registrarmi le voci dei miei compagni.

- Matematica- rispose lei. La ragazza assunse una strana espressione delusa e imbarazzata e la prof aggiunse: - Non avrete pensato che solo perché siete al classico vi saranno risparmiati i quaderni a quadretti, eh?

- Se lo avete pensato, dispensateci- disse un ragazzo vicino a me.

Lo avevo notato anche prima, ma solo quando lo sentii parlare mi accorsi che era il Ragazzo Laggiù. Era nella mia classe.

La Bini lo guardò per qualche istante. Poi sorrise e disse: - Niccolò, facciamoci riconoscere come al solito, mi raccomando!

- Prof, non è stata colpa mia!- esclamò Niccolò. Il suo volto era l’immagine della solarità, ma i suoi occhi mascheravano altre cose, ch’egli forse voleva tenere per sé. – Eppoi il preside non si è mica arrabbiato!

- E ringrazia!- sbottò la prof, ma aveva il volto sorridente e gli occhi luminosi.

- Allora Ada, saliamo, prima di confonderci con gli scientifici?- domandò la Corsi.

La Bini annuì, dandoci un’ultima occhiata prima di intraprendere il cammino.

Entrammo nell’edificio e raggiungemmo la nostra nuova classe.

Era nascosta nell’angolo più buio di un lungo corridoio,dietro una colonna portante, tra tante classi. “4a”, si leggeva sulla porta.

La grandezza era quella di una qualunque classe e i banchi sembravano alti giusti. Le finestre si affacciavano su un angolo di prato chiuso tra due mura di mattoni rossi, ovviamente spazio sacro alle cartacce (nel senso che ce ne erano tantissime).

Ci mettemmo a sedere. Io mi scelsi un posto in seconda fila, il penultimo prima della finestra. A sinistra avevo una ragazza con lunghi capelli rossi molto mossi. Dall’altra parte, sulla destra, c’era una ragazza bionda.

Bene, per ora era andato tutto bene. Restavano da affrontare le prossime quattro ore.

La professoressa Corsi si era messa a sedere alla cattedra e aveva aperto il registro. Lòa bini invece si era appoggiata al muro alle sue spalle e ci guardava.

- Possiamo fare l’appello, ragazzi?- chiese la Corsi dolcemente. Guardò il registro e cominciò:

- Agostani, Oscar.

- Io- fece un ragazzo della mia fila, il penultimo in fondo. Era un ragazzo molto alto.

- Ambrosini, Sandra.

- Io- disse la ragazza alla mia sinistra.

- Bindi, Alberto.

- Bassi, Elisa.

- Calvani, Paolo.

- Cassia, Raffaele.

- Caponi, Elisa.

- Doria, Febe.

Avevo un bel nome, non c’è che dire. Cognome del nord e nome greco. Tutti si voltarono a guardarmi e scorsi qualche sorrisetto. Alle medie però era peggio.

- Grossi, Barbara.

- Filosa, Albina.

Beh, forse questo era più strano ancora. Era la ragazza alla mia destra.

- Lapi Letizia.

- Lauri Sara.- Era la ragazza con la voce bruttina che aveva parlato poco prima.

- Moriani Niccolò.- Ecco Ragazzo Laggiù, per l’appunto nell’ultima fila. La Bini lo guardò e rise:

- Attenta a questo soggetto, Agata.

- Morini, Carla.

- Morganti Italia.

- Naldini Marina.

- Nencini Chiara.

- Poggi Ambra.

- Ponziani Valentina.

- Ricci Vittoria.

- Rondoni Giulia.

- Santi Maria Claudia.

- Vannoni Penelope.

- Zadini Michela.

Anche l’ultima ragazza, nell’ultimo posto nell’ultima fila vicino alla porta, alzò la mano. Era la vicina di banco di Moriani.

Quando anche l’ultimo nome fu sistemato la Bini si alzò dal suo cantuccio, si stiracchiò e disse:

- Beh, ora che ho visto posso anche andare, ti va bene, Agata?

- Certo.- A giudicare dagli occhi che già da tempo vagheggiavano una grammatica greca poggiata sulla cattedra, la Corsi non vedeva l’ora.

- Benissimo. Ragazzi, la prima ora di matematica ci sarà domani, perciò immagino che ci rivedremo presto, d’accordo? Arrivederci.

- Arrivederci- rispondemmo, in coro come al solito, prima che lei uscisse dalla classe.

A quel punto la professoressa Corsi si mise comoda sulla cattedra e ci guardò.

- Allora, avete intenzione di conservare più o meno questa disposizione di banchi, quest’anno?

Vi fu un’alzata di spalle generale e qualche borbottio. Lo prese per un sì.

- Perfetto. Allora ragazzi, voi sapete perché al liceo classico studiamo il greco?

Ebbe così inizio una lunga, lunga, lunghissima spiegazione sull’influenza dei greci nella moderna cultura occidentale.

Io mi impegnavo, per stare attenta. Davvero.

Ma con quella voce costante, soporifera, che sembrava si annoiasse anche lei a spiegarci queste cose, non era facile.

Stavo giusto prendendo in considerazione l’idea di usare le forbici per tagliarmi le vene quando Sandra lasciò cadere la testa sulle braccia, sconsolata. Vide che la guardavo.

- Dio mio che palle- sussurrò. – E ho dimenticato il cianuro a casa, proprio oggi…

Dopo altri dieci minuti di pappardella (durante i quali io avevo guardato le foto di Rutger Hauer incollate sul mio diario) iniziammo a cantare a bassa voce:

“Dammi una lametta che mi taglio le vene…”(la canzone di Donatella Rettore), canzone incredibilmente adatta all’occasione. Coinvolgemmo anche la nostra compagnia Albina e per un paio di minuti continuammo così, senza ovviamente che la prof ci rivolgesse la benché minima attenzione. A fine canzone mi sentivo molto più tranquilla sapendo che c’era gente come me.

Mancava mezz’ora alla fine della lezione quando la prof guardò l’ora ed esclamò: - Com’è tardi! Io dovevo spiegarvi l’alfabeto greco!

Bastò quella frase a risvegliarci un po’. Riaprimmo la grammatica alla prima pagina (durante la spiegazione eravamo stati tutti troppo addormentati per ricordarci di tenerla aperta con le mani) e trovammo l’alfabeto.

Dio mio com’era brutto!

Le lettere greche mi misero in ansia e mi ripromisi di stare attenta alla spiegazione.

Non durò molto vista la mancanza di tempo, ma gettò un po’ di luce sull’alfabeto che guardavamo con apprensione (tutti tranne Moriani, il più annoiato di tutti dato che doveva essere la seconda volta che si sorbiva una spiegazione del genere e che l’anno prima aveva avuto nove a greco).

Beh, in fondo non era così difficile.

Suonò la campanella e la professoressa fece in tempo a dirci di ricopiare cinque volte l’alfabeto sia in maiuscolo che in minuscolo, prima di uscire.

Adesso, secondo l’orario che avevo preso, doveva essere l’ora di italiano, col/la professor/essa Napodano.

Durante il cambio d’ora si fece sentire qualche timido accenno di chiacchiere. Mi misi a parlare con Sandra, contenta di aver trovato qualche amica nella nuova classe.

Eravamo intente a parlare della spiegazione quando dalla porta entrò Legolas.*

No no, davvero. Cioè, quello era Legolas.

Mancavano soltanto la faretra e gli abitini tolkeniani, per il resto era Legolas Verdefoglia.

Aveva i capelli lunghi. Biondi.

Era bellissimo.

Era giovanissimo.

Aveva le orecchie a punta.

No, non scherzo.

Aveva anche un bellissimo corpo.

Insomma, mi pare di aver reso bene l’idea, no?

In poche parole, era un fico incredibile.

In una parola, era Legolas.

O anche Achille. Ma grazie alle orecchie a punta, per me era Legolas.

Si mise a sedere alla cattedra e fece l’appello.

Si soffermò sulle origini del nome Oscar (Oscar Wilde e Oskar Schindler) e del nome Febe (la traduzione italiana di Phoebe, il nome vero di Annie Oakley), e del nome Italia (gusti materni).

Terminato questo, si mise comodo, accovacciato nella sedia (sì, proprio comodo), e disse:

- Sono il professor Gabriele Napodano.

Sarà stata un’impressione, ma mi parve di veder scattare il flash di una macchina fotografica. Napodano se ne accorse e guardò attentamente la classe.

- Se avete un cellulare acceso, per favore spegnetelo. Allora…- si mise più comodo, acciambellandosi come un gatto.

“ Se gli viene mal di schiena poi non si lamenti!”, pensai appoggiandomi al banco per guardarlo meglio.

- Cristo se è bello!- mormorò Sandra sgranando gli occhi.

Purtroppo temo che il professore avesse intuito quanto aveva detto, perché la guardò e sorrise. Poi tornò a concentrarsi.

- Beh, ragazzi, che posso dire? Il classico è un liceo difficile. Se studierete tutti i giorni, bene, altrimenti…- e fece con la mano bella un gesto di taglio- segati!

E rise. Mi lasciò un po’ ghiacciata.

Tacque qualche secondo. – Domande?

Sara alzò la mano dalla prima fila.

- Scusi…

- Come ti chiami?

- Ehm, Sara.

- Dicevi?

- Le sue orecchie sono vere?

La sua domanda ci gettò giù dalla sedia dal ridere. Napodano sbatté un poco gli occhi.

- Ehm…sì, perché?

Ma la moretta non volle più parlare e allora Napo si rivolse a noi. – Allora, perché? Voi lo sapete?

Tacemmo tutti per qualche istante finché, dall’ultima fila, Moriani si alzò e spiegò:

- Professore, le orecchie a punta sono piuttosto elfiche che umane.

Napodano stette zitto per qualche istante, poi si mise a ridere. Era bellissimo quando rideva.

Prima che riuscisse a smettere suonò la campanella e ci lanciammo fuori per la ricreazione.

Uscii con Sandra nel corridoio. Alla seconda ora erano arrivate le seconde e i trienni, cos’ adesso la scuola era al completo.

Attraversammo la scuola, guardando un po’ di gente.

- Cristo, quant’è fico il prof di italiano!- disse ancora mentre camminavamo.

- Si sarà offeso per la storia delle orecchie a punta?

- Ma no, io dico di no. Hai visto quanto ha riso? Eppoi chissà quanti altri alunni glielo hanno fatto notare! Poi chissenefrega se ha le orecchie a punta, è bello comunque!

- Secondo me sembra un po’ Legolas.

- Non gli somiglia, lo è!

- Comunque la cosa importante è che non se la prenda.

- Ma cosa vuoi che gliene freghi, tanto lui lo sa che è difficile trovarne di più belli di lui! Orecchie a punta o no, quello ha quante donne vuole, fidati di me!

Non sapeva neppure quanto si sbagliava.

Suonò la campanella di fine ricreazione e tornammo in classe. Ad aspettarci c’era ià Asia Dell’Amore, la professoressa di inglese.

Era una quarantenne all’apparenza più giovane ancora con folti riccioli scuri. Era piccola piccola e sottile, quasi innaturalmente minuta. Il suo viso poteva sembrare quello di una ventenne.

A giudicare dal suo corpicino minuscolo, doveva vestire qualche taglia da bambina. Passandole accanto per andare al mio posto, notai che doveva una taglia minuscola di piede.

Era una specie di nana, insomma.

Si mise a sedere alla cattedra e diede ordine a Zadini di chiudere la porta non appena decise che dovevamo esserci tutti. Ci guardò a lungo prima di fare l’appello e ci informò che voleva sentire parlare solo inglese per tutta la durata delle sue lezioni.

Io, che avevo sempre odiato l’inglese, la trovai subito antipatica; oltretutto, parlava troppo veloce perché potesse piacermi. E se metteva i libri d’inglese impilati sulla cattedra davanti a lei ci scompariva quasi dietro, visto che non solo era bassa, ma stava anche seduta scomposta.

Per questo motivo io e Sandra decidemmo che ogni compito da lei assegnato sarebbe stato denominato Missione Tacchi Alti.

 

 

*Per chi non lo sapesse, Legolas è un personaggio del Signore degli Anelli di Tolkien.
 

   
 
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