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Autore: Adeia Di Elferas    12/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando Gaspare Sanseverino, rallentato dalla ferita non ancora del tutto rimarginata, era passato per Imola, diretto a Forlì, aveva fatto scalo presso un portavoce del Moro, frate Paolo da Tortona, priore del convento di San Domenico, che gli aveva fatto sapere di volergli parlare.

“Dunque siete diretto davvero a Forlì?” gli aveva chiesto il religioso: “Avete già il lasciapassare della Contessa, per entrare in città?”

Il condottiero aveva risposto a mezza bocca e così il milanese gli aveva consigliato di farsi annunciare con un po' di anticipo, per essere certo che la donna diramasse l'ordine di lasciarlo passare. In fondo, in quella città non era un volto sconosciuto e le guardie l'avrebbero altrimenti bloccato alle porte, facendogli perdere un sacco di tempo.

Fracassa ringraziò di cuore, troppo stanco per il viaggio e confuso per il dolore alla gamba, per mettersi a pensare ai motivi più profondi di quel consiglio.

Quando ripartì, alla volta di Forlì, da Imola uscì una staffetta diretta a Milano, per dare al Duca la notizia che attendeva riguardo l'arrivo del Sanseverino.

Arrivato nella culla della Tigre, venne lasciato entrare senza problemi grazie al benestare della Sforza e, appena varcata la porta d'accesso della città, l'uomo si affrettò a cercare il suo vecchio conoscente, unico motivo di quel suo lungo viaggio.

Sapeva che i suoi fratelli stavano cercando il modo di farlo tornare nelle grazie del Moro, ma sapeva anche di non avere fondi per fare alcunché. Se anche il Duca avesse voluto ingaggiarlo, in quel momento Fracassa non disponeva che del proprio cavallo e di un manipolo di guardie personali. Non aveva lo straccio di una compagnia e senza i soldi che sperava di ottenere in prestito all'ebreo suo amico, non l'avrebbe avuta nemmeno in futuro.

Galeazzo gli aveva scritto per fargli sapere che uno spiraglio c'era, che se si fosse dimostrato morbido nei confronti di Milano – anche tramite la Contessa – Ludovico Sforza l'avrebbe riaccolto volentieri nelle sue schiere, dandogli, per via della sua salute precaria, inizialmente qualche incarico leggero. Si era parlato di organizzare delle giostre e Gaspare, per quanto vi vedesse un'ironia un po' crudele, in quella proposta, sarebbe stato felicissimo di accettare.

“Duemila ducati?” chiese l'ebreo, quando Fracassa si presentò in casa sua, mentre il sole si avvicinava all'orizzonte.

“Sì, duemila. So che ne avete almeno mille volte tanti, quindi non fatemi storie, vi prego...” fece il condottiero, sentendosi un po' in imbarazzo, nel dover far tante parole con quell'usuraio.

Era un uomo gracile, dal grosso naso e con un occhio un po' sbercio. Se si fossero incontrati su un campo di battaglia, quell'ebreo non sarebbe durato nemmeno tre secondi, davanti alle forti braccia del Sanseverino, nemmeno ora che era ferito.

Ma in quella saletta, in cui spiccavano bilancini di precisione, piccoli forzieri e un arredamento semplice, ma sconvolgentemente costoso, era Gaspare, quello senza speranze di vittoria.

“Non mi piace fare i prestiti agli uomini che di mestieri impugnano una spada, lo sapete. Prestiti troppo a rischio. Un colpo di cannone, una freccia e i miei soldi non me li ridà più nessuno...” si mise a borbottare l'usuraio, guardando l'amico, anzi, il possibile cliente, di sottinsu: “Voi, tuttavia, siete ancora vivo dopo tutte le battaglie che avete fatto, quindi forse siete un po' meno a rischio degli altri...”

“Guardate – fece Fracassa, indicandosi la gamba ferita e zoppicando per qualche passo in modo molto vistoso – con questo guaio non scenderò in campo per almeno altri sei mesi. Non morirò, ve lo prometto, e riavrete quel che vi spetta ben prima che io impugni di nuovo una lancia.”

“E va bene. Ma questo prestito vi costerà.” precisò l'ebreo, recuperando uno dei suoi taccuini più preziosi e cominciando a prendere nota.

“Quello che serve.” annuì il Sanseverino, senza provare nemmeno lontanamente a contrattare: 'Mi basta riuscire a raddrizzare la schiena davanti a Milano' soggiunse, ma solo nella sua mente.

 

“Ma che state dicendo?” Caterina aveva ascoltato tutto quanto nel più completo silenzio e, non appena Bernardi aveva smesso di parlare, aveva sentito il bisogno di dar voce alla sua più profonda incredulità.

“Non ho voluto venire personalmente alla rocca per non attirare troppo l'attenzione, nel caso poi i vostri Consiglieri vi facessero domande su quanto vi avessi detto, ora capite anche voi il perché della mia prudenza.” fece il barbiere, tenendo le mani incrociate sul petto.

Aveva mandato un ragazzino a Ravaldino, un amico di Bernardino, affinché chiamasse la Tigre alla barberia con discrezione. Era stato molto indeciso se riferirle quanto aveva sentito o meno, ma alla fine il suo desiderio di proteggerla aveva prevalso sul suo orgoglio ferito e così aveva agito.

Per fortuna la donna non gli si era negata e nel giro di un'ora si era presentata da lui. Siccome era mezzogiorno, il Novacula ne aveva approfittato per chiudere bottega e chiederle di seguirlo in casa, dove avrebbero potuto parlare più tranquillamente.

Al contrario, però, di come avrebbe fatto in passato, anche se sul fuoco la pentola del minestrone già ribolliva con un profumo invitante, non le offrì di dividere il pasto, né tanto meno la pregò di sedersi con lui a tavola.

“Ma da dove è nata questa voce?” chiese la Sforza, ancora stordita dalle parole del barbiere.

Quando l'aveva cercata, aveva capito subito che dovesse trattarsi di qualcosa di importante. Con gli scontri che avevano avuto le ultime volte che si erano incontrati, non credeva ragionevole pensare che Andrea si fosse adoperato per incontrarla se non per un motivo molto più che valido.

“Continuano a dire verso Forlimpopoli, ma io sono convinto che sia stata direttamente Bologna a far correre questa voce.” spiegò Bernardi, stringendo poi il morso e osservando la Contessa con attenzione.

La chiacchiera in questione pungeva sul vivo sia la credibilità sia l'emotività della Leonessa. Da un lato, infatti, la metteva, per la seconda volta nel giro di pochi anni, nella scomoda condizione di essere sospettata di aver commissionato l'omicidio di un suo amante per poi dare la colpa ad altri e sfruttare l'occasione per uccidere qualche scomodo oppositore. Dall'altra, era chiaro ed evidente che per la Sforza la morte di Ottaviano Manfredi fosse una ferita tutt'altro che chiusa.

“Ma come possono pensare che l'abbia fatto uccidere io?” domandò, retorica, portandosi una mano al petto.

Il Novacula l'aveva vista di rado così spersa. Era sinceramente addolorata, nessuno l'avrebbe messo in dubbio, e i suoi occhi, di norma velati da un impenetrabile velo di fredda rabbia, si stavano facendo lucidi di lacrime.

“Ve l'ho detto...” provò il barbiere, che tutto voleva, fuorché vederla piangere: “In pratica sostengono che voi non siete stata in grado prima di tutto di gestire i rapporti con Astorre Manfredi e che poi, volendo fare di Ottaviano Manfredi il nuovo signore di Faenza... Ecco, che in questo caso non siate riuscita a gestire il vostro rapporto con lui. Dicono che lo volevate sia come genero, sia come sposo e che, non riuscendo a scegliere quale delle due cose fosse più giusta, l'avete fatto uccidere per poi potervi riappacificare con Faenza.”

“Ma sono ragionamenti senza senso!” sbottò la Tigre, infilando un paio di bestemmie che fecero abbassare lo sguardo di Andrea: “Solo un pazzo avrebbe potuto fare un ragionamento del genere! Io non ammazzo gli uomini che amo! Cosa pensano? Che io ammazzi la gente come se non me ne importasse nulla? Che faccia uccidere un amante come se nulla fosse? Che per me siano tutti uguali? Che se non ho lui ne trovo subito un altro?! Se solo...”

Mentre la voce le si spegneva in gola, Bernardi sollevò una spalla e commentò: “Certo, mia signora, se solo voi foste un po' meno...”

“Un po' meno cosa?” lo incalzò lei.

“Che diamine, mia signora!” perse la pazienza l'uomo, che in un certo senso si era già pentito di aver fatto quella soffiata alla Contessa: “Come potete pensare che vi credano diversa da così?!”

La Leonessa restò zitta, il viso che tornava la maschera inespressiva che il Novacula aveva imparato ad amare e odiare allo stesso tempo.

“Quello che fate lo sanno tutti, anche fuori da Forlì. Anzi, io credo proprio che interessi molto più a chi vive via di qui che non ai vostri sudditi! Se continuate a... A scegliere un uomo diverso ogni notte e a comportarvi come se a voi non importasse di niente e di nessuno, come potete credere che chi sente parlare di voi vi creda diversa?!” proruppe a fiume Andrea, senza riuscire a fermarsi.

Solo quando il barbiere non ebbe più voce, la donna fece un respiro molto fondo e, imponendosi di restare calma, gli disse: “Vi ringrazio per avermi passato quell'informazione. Per il resto, limitatevi a fare il vostro lavoro. Sbarbate la gente, cavate qualche dente e non permettetevi mai più di parlarmi in quel modo. Non siete mio padre, né mio fratello. Posso accettare un consiglio, ma non espresso a quel modo. Passate una buona giornata, Bernardi.”

Dopo quell'ultima precisazione, la Tigre se n'era andata subito, senza lasciargli il tempo di ribattere, e così ad Andrea non restò che mangiarsi il suo pranzo, ingoiando una cucchiaiata di minestrone alternata a una di risentimento.

 

Quel giorno, per Cesare Riario, era stato ciò che di più entusiasmante e stancante potesse esserci.

Suo cugino Raffaele gli aveva finalmente trasferito l'Arcivescovato di Pisa in modo ufficiale e il ragazzo non vedeva l'ora di conoscere la sua nuova dimora – era un po' curioso, lo ammetteva con un velo di vergogna per la propria vanità, di vedere come fossero stati dipinti gli stemmi che aveva commissionato per l'ingresso, in particolare quello degli Sforza e quello dei Medici – e vedere il volto dei suoi fedeli. Li voleva guidare come un pastore, essere per loro un esempio, e finché restava a Roma, non avrebbe potuto cominciare a essere un punto di riferimento per il suo gregge.

Tuttavia il Cardinale Sansoni Riario era stato molto chiaro, con lui: non doveva avere fretta. I rapporti con il papa non era distesi, in quel momento, e doveva fare buon viso a cattivo gioco, se voleva poi avere la possibilità di compiere al meglio e in maggior libertà il suo servizio pastorale.

E così il giovane, che pure ripudiava lo sfarzo del Vaticano e il suo rincorrersi di inutili santissime cerimonie, che nascondevano poi un sottomondo tutt'altro che santo, aveva deciso di mettersi il cuore in pace e sfruttare quei giorni per visitare i luoghi sacri della città e pregare.

Era arrivata la sera e il Riario aveva cenato poco, allontanandosi quasi subito dal banchetto a lui dedicato sostenendo di essere ancora molto provato per il recente viaggio e eccessivamente stanco per colpa di quella lunga giornata.

Aveva notato, anche se di sfuggita, come il suo allontanarsi fosse stato accolto con un sospiro di sollievo da molti porporati, specie da un gruppetto di spagnoli amici di Alessandro VI. Era un po' come se lo vedessero alla stregua di uno spauracchio: senza di lui, finalmente, si poteva cominciare a far baldoria.

Arrivato da solo nella sua camera, Cesare aveva rifiutato l'aiuto di un chierico per spogliarsi e indossare la tunica da notte e, appena era stato lasciato in pace, si era subito messo sull'inginocchiatoio.

Giunte le mani, il giovane osservò distrattamente il mobile pregiatissimo su cui era appoggiato e poi sollevò lo sguardo sul crocifisso appeso alla parete. Era tutto troppo prezioso, tutto troppo luccicante, troppo e basta.

Il Riario non aveva ricordi di quando aveva vissuto a Roma da piccolo, se non qualche confusa immagine, quindi quando vi era arrivato, qualche giorno addietro, per lui era stata tutta una continua scoperte, e non sempre piacevole. In fondo, si era trovato a pensare, dopo uno dei tanti banchetti a base di uccellagione perfettamente cucinata in agrodolce e ripiumata, Forlì era stata per lui una dimora molto più conciliante alla preghiera e alla penitenza. L'Urbe assomigliava molto più a Sodoma e Gomorra che non alla città di San Pietro.

Rimettendosi in piedi un po' a fatica, andò verso il letto e anche quella visione gli fece avere nostalgia di casa.

Lì a Roma, nel palazzo che formalmente era di suo fratello Ottaviano, ma che, di fatto, veniva abitato ormai da anni dal loro cugino Raffaele, tutte le camere da letto seguivano le rigide regole a cui erano sottoposte tutte le case nobiliari.

Cesare aveva invano chiesto di avere un giaciglio più modesto, ma alla fine, dopo averci ragionato parecchio, il Cardinale Sansoni Riario aveva optato per quella stanza che, tra tutte, gli era parsa la più semplice.

Il ragazzo, però, si sentiva in forte disagio nel salire l'alto gradino che portava al letto vero e proprio e, ancor di più, avvertiva una strana sensazione di prigionia nel trovarsi completamente circondato da un pesante baldacchino di stoffa spessa e scura.

Per anni, a Forlì, aveva dormito in un letto da soldati, senza gradini, senza tendaggi, semplice come un lettuccio da campo, eppure aveva sempre dormito in modo soddisfacente.

In quella camera, invece, si sentiva come distratto dai suoi pensieri, dalle sue preghiere, come se gli affari del mondo fossero molto più vicini che non in una rocca piena di soldati. I tessuti preziosi, i dettagli dell'arredamento, perfino le rifiniture in oro dei candelieri e della specchiera gli ricordavano che esisteva il lusso e che la Chiesa ne faceva un uso spesso vergognoso.

“Il letto di un padre della chiesa – borbottò tra sé, infilandosi suo malgrado sotto le coperte ricamate che l'attendevano – dovrebbe essere più simile a quello di un soldato, che non a quello di un re...”

 

L'incontro – un po' inatteso – con frate Paolo da Tortona aveva ridato un po' di speranza alla Tigre, facendole pure tornare la voglia di sorridere, tanto che il priore del convento di San Domenico d'Imola le chiese il permesso di poter riferire al Moro in che modo lieto avesse preso quella notizia.

“Fate come credete.” aveva risposto lei, pur pensando che, forse, sarebbe stato meglio che suo zio non la sapesse così euforica per la mezza promessa fatta dal religioso.

Frate Paolo, infatti, le aveva assicurato che presto il Duca avrebbe mandato a Forlì Giovanni da Casale, perché, per puro caso, proprio in quei giorni anche Fracassa era lì e lo Sforza necessitava un intermediario per riavvicinare la propria casata a quello scostante Sanseverino.

Per un paio di giorni, quindi, per Caterina l'attesa era stata un po' meno pesante, e, addirittura, quando aveva finalmente ricevuto notizie di suo figlio da Roma, aveva scritto a Milano, per tenere il parente al corrente di quanto stava capitando.

'Per non mancare del debito mio, ne ho voluto dare adviso ala Ex. V. sapiando che quella ne haverà piacere insieme cum noi, per la filiale nostra observantia verso epsa, dala quale speramo ogni adiuto et favore, a ciò possa ascendere a magior grado'.

Con quell'inciso sperava di far capire a suo zio quanto confidasse nella sua promessa di farle avere Pirovano a Forlì e, quella mezza certezza, le stava dando anche la forza di non provare a contattare in prima persona il condottiero. Anche se non lo conosceva a fondo, era abbastanza sicura che se fosse stata lei a implorarlo di raggiungerla, senza l'intercessione del Duca, probabilmente Giovanni da Casale le avrebbe detto di no.

Frate Paolo le aveva anche detto che Pirovano avrebbe – verosimilmente – avuto anche il compito di passare in rassegna le truppe, ma di quello la Leonessa non aveva alcuna paura.

Anche quel pomeriggio, subito dopo aver fatto partire la sua lettera alla volta di Milano, si era mescolata ai suoi soldati, per controllarne l'efficienza e le capacità. Delegando le questue cittadine a Simone Ridolfi che, dopo un primo tempo, aveva cominciato a capire come muoversi in quel genere di pelaghi, e gli affari di Stato prettamente economici a Luffo Numai e al suo castellano, la donna poteva concentrarsi molto di più sullo sforzo bellico.

L'unica decisione politica che la Contessa aveva preso in solitudine – non senza sollevare qualche protesta tra i suoi più fedeli collaboratori – era stata quella di insistere con Andrea Pazzi affinché tornasse a Firenze per chiedere di persona un rinnovo della condotta per Ottaviano.

Ora che Cesare era sistemato, la Sforza voleva fare altrettanto con il figlio maggiore e dargli una certa indipendenza economica grazie a un incarico che non l'aveva mai impegnato più di tanto non le pareva una cattiva idea.

Pazzi, però, prima di partire, aveva fatto la voce grossa, ricordandole come lei stessa avesse negato, qualche mese prima, il beneplacito a Firenze, quando la Repubblica aveva chiesto una proroga di quella condotta – che interessava solo e unicamente per assicurarsi ancora l'alleanza con Imola e Forlì – e che perfino Ottaviano in persona gli aveva detto più volte di non essere intenzionato a schierarsi di nuovo in guerra in difesa di Firenze.

Caterina aveva fatto finta di non prendersela, per i toni accesi che quell'uomo aveva usato e aveva anche preteso di non sentire l'ultima mezza frase, con cui il Pazzi risvegliava il fantasma di Manfredi, senza apparente motivo logico, e poi gli aveva chiesto solo di portare il suo messaggio alla Signoria e, se possibile, di far arrivare a Forlì un nuovo ambasciatore, che non fosse più lui.

“Dato che né voi piacete a me, né io piaccio a voi.” aveva concluso, indicandogli la porta.

Aveva anche scritto a Fortunati, anche se, non le era stato difficile capirlo, il piovano in quei giorni aveva ben altri pensieri che non curare i suoi affari. Cascina era finita nel mezzo del contenzioso non ancora spento tra Pisa e Firenze e si diceva che addirittura Paolo Vitelli stesse accorrendo in zona per sistemare la diatriba.

Quella sera, dopo aver passato tutto il pomeriggio a tirar di spada e a controllare i nuovi cavalli, non ancora del tutto avvezzi alla loro nuova sistemazione, la Tigre si era ritirata nella sala delle letture, sfuggendo tutti.

Quella notte voleva restare da sola, come aveva seriamente tentato di fare da una manciata di giorni. Si era messa d'impegno ad aspettare il ritorno di Pirovano: fino ad allora si era imposta di non cercare compagnia, e, per riuscirci, finiva spesso a passare la notte quasi insonne a leggere o a scrivere lettere. Aveva fatto solo uno scivolone, giusto la notte prima, ma per il resto era stata abbastanza in grado di controllarsi.

Dopo aver passato, però, così tante ore a stretto contatto con gli uomini della rocca, era più difficile riuscire a pensare ad altro. In momenti come quelli, la Sforza capiva suo nonno Francesco e i suoi appetiti noti in tutto il Ducato e anche la smania che a volte prendeva sua nonna Bianca Maria. Il ritrovarsi sempre in mezzo alle armi, anche senza bisogno di scendere in battaglia, metteva addosso una sete di vita che spesso si trasformava in desideri estremamente terreni.

Quando la porta si aprì lentamente, Caterina quasi sobbalzò, strappata dai suoi pensieri, e si voltò un po' per guardare chi fosse entrato.

Si trattava di sua figlia Bianca, con in braccio Giovannino e Chiara. Nel vederli, all'inizio la Contessa fu tentata di alzarsi e di togliere il disturbo, ma poi si disse che la loro vicinanza, forse, l'avrebbe aiutata a passare ancora qualche ora senza darsi il tormento.

Quando la sorella le sedette accanto, lasciando la poltrona dirimpettaia a Bianca, la Leonessa fu tentata di chiederle di nuovo come mai fosse lì e cosa le servisse, ma rinunciò. Sua figlia aveva con sé un volume di poesie e aveva appena chiesto se potesse leggerne qualcuna ad alta voce.

La madre annuì e così la ragazza le diede Giovannino, che stava per addormentarsi – “Oh, è sempre attento a tutto, e si stanca e così, appena ne ha l'occasione, riesce ad addormentarsi ovunque, come un vero soldatino.” aveva sorriso Chiara, indicando il piccolo – e si risistemò in poltrona, schiarendosi la voce e cominciando a declamare versi dozzinali e che la Sforza non amava molto, ma che, in quel momento, le sembrarono i più dolci del mondo.

 

Bartolomeo ringraziò con un cenno del capo il servo che gli aveva appena portato un bicchiere di acqua fresca. Non aveva voglia di bere vino, ma aveva una sete incredibile. Forse erano state le gocce amare che il medico di corte gli aveva dato per fargli passare l'intorpidimento doloroso che gli aveva preso la lingua, fatto restava che avrebbe volentieri prosciugato un fiume con un'unica sorsata.

Non gli piaceva, il palazzo dei Baglioni a Perugia, né gli piaceva troppo Perugia. Quella era stata solo una tappa obbligata. Gli serviva il benestare di suo cognato e una discreta cifra per rimpolpare la sua compagnia, prima di partire per la sua personalissima campagna militare.

I Chiaravalle non volevano mollare la presa su Todi e l'Alviano, soprattutto da quando era tornato in Umbria, aveva il desiderio irrefrenabile di tornare in possesso delle terre che erano state di suo padre e che suo padre, a tempo debito, gli aveva negato.

Ciò che l'aveva fatto decidere, più di ogni altra cosa, era stata la notizia di quel che Vittorio Chiaravalle di Canale stava facendo di Todi e delle campagne circostanti. Si parlava di stragi immotivate di contadini, saccheggi e violenze inaudite.

Bartolomeo aveva passato la sua giovinezza a odiare le terre di suo padre, ma adesso che doveva ricostruirsi una vita, cominciava a credere che riprendersi quel che gli spettava fosse un suo diritto, o, almeno, lo era cercare di preservare l'integrità di quell'eredità negata. Se avesse lasciato fare ai Chiaravalle, il Todino si sarebbe trasformato in un cimitero a cielo aperto, un'accozzaglia di case bruciate e campi incolti e non lo poteva permettere.

L'unica pecca nel suo piano, fino a quel momento, era l'assenza di Giampaolo, che non era ancora rientrato a Perugia. Gli stava facendo perdere tempo e la tentazione di cominciare la sua impresa anche senza il suo appoggio si stava facendo sempre più grande.

Soprattutto perché ogni giorno passato in panciolle in quel palazzo, con sua moglie Pantasilea che gli ronzava attorno, era un giorno di penitenza in più.

“Come state, mio signore?” chiese proprio la voce della Baglioni, colpendo l'uomo alle spalle come una freccia nemica.

L'Alviano sollevò una mano per dirle che stava bene, ma non parlò. Gli dava troppo fastidio la lingua e non voleva balbettare come gli capitava in giornate del genere.

Pantasilea non se la prese per quel gesto sgraziato, e gli si avvicinò. Lo guardava come l'aveva guardato fin dal momento in cui era tornato a Perugia. Le sue iridi sembravano laghi profondi e burrascosi, capaci di raccontare storie spaventose che, però, Bartolomeo non voleva ascoltare.

Non era un uomo stupido, aveva capito benissimo cosa volesse quella donna da lui: salvezza. Era come se, silenziosamente, lo stesse pregando di portarla via, di approfittare dell'assenza di Giampaolo e portarla con sé, non importava dove. Voleva scappare da lui, rompere le catene che la facevano sposa e schiava di colui che per lei era fratello, padrone e amante imposto.

Ma Bartolomeo faceva finta di non capire.

“Dove andrete, mio signore? Ho sentito che avete chiesto ai servi di tenere pronti le vostre armi e i vostri bagagli...” fece Pantasilea, andandosi a sedere nella sedia accanto a quella occupata dal marito.

Teneva gli occhi bassi, le mani giunte in grembo e la sua voce era sottile come un soffio di vento.

L'Alviano si perse un attimo a pensare al fatto che Bartolomea non avrebbe mai fatto così. La sua prima moglie – l'unica donna che avesse mai amato – era stata forte, decisa, incrollabile. Anche nella malattia, anche vicina alla morte, era sempre stata una roccia.

“Todi.” fece in fretta Bartolomeo, riducendo il numero di parole per ridurre l'agonia data dalla sua lingua martoriata.

La Baglioni sollevò un istante lo sguardo verso di lui. Era un uomo dalle fattezze spaventose. Non solo era brutto, dal viso asimmetrico e reso ancor più disarmonico dalle ferite accumulate in anni di guerre, ma era anche acceso da una sorta di rabbia continua che sembrava pronta a esplodere da un momento all'altro.

La intimoriva, la metteva in soggezione, ma non ne aveva paura, non nel modo in cui aveva paura di Giampaolo. Bartolomeo, con lei, era stato sempre gentile. Non perché si rivolgesse a lei in modo elegante né perché la tenesse in palmo di mano. Tutt'altro: la sopportava, quello era chiaro, nulla di più. Però non l'aveva mai forzata a far nulla, anzi, dopo la loro prima notte di nozze, non l'aveva mai più cercata, lasciandola libera, e se per altri quello poteva essere solo un sintomo di disinteresse, per lei era un vantaggio senza prezzo.

Se pensava a tutte le volte in cui Giampaolo l'aveva voluta contro la sua volontà, imbastendola di parole e bugie e poi, se per caso lei non si piegava al suo volere, la sopraffaceva senza curarsi minimamente di nient'altro.

Pantasilea deglutì e poi, come cercando un coraggio nascosto nel profondo della sua anima, disse, con tono malfermo: “Vi prego, portatemi con voi. Non vi sarò d'intralcio... Io...”

“Sarà una guerra – spiegò l'Alviano, secco, le parole che si facevano spezzate e a tratti difficili da capire – non un posto per una donna.”

Avrebbe voluto avere la lingua sciolta solo per poter precisare che non era un posto per una donna come la Baglioni, ma non per una come Bartolomea. Con lei sarebbe andato ovunque, a combattere contro chiunque.

“Vi scongiuro, io... Io farò quel che serve, io... Farò tutto quello che volete...” riprese Pantasilea, puntellandosi un po' sulla sedia e appoggiando una mano alla coscia del marito, per far breccia in lui con le sue preghiere.

Bartolomeo stava per rifiutare di nuovo, quando si sentì del trambusto fuori dalla sala. Cogliendo il pretesto, il condottiero si alzò, lasciando la moglie lì dov'era e andò a controllare cosa fosse successo.

Quando Pantasilea sentì la voce di suo fratello ridere ed esclamare: “Eccomi qua, cognato! Non credevo di tornare prima di domani sera, e invece... Avanti, venite di là con me, abbiamo tante cose da discutere!” si sentì morire.

Se non avesse avuto troppa paura dell'avello infuocato che l'attendeva – perché sapeva che, per quanto non consenziente, anche lei sarebbe stata accusata di incesto, e anche di essere una suicida, dagli angeli dell'Apocalisse e da Dio Giudice – si sarebbe gettata dalla finestra all'istante. Preferiva morire, piuttosto che essere toccata di nuovo da suo fratello.

Stava ancora passando in rassegna vari modi con cui togliersi la vita, quando i due uomini si affacciarono sulla porta e Giampaolo, guardandola viscido, le disse: “Sorella mia... Mi sei mancata molto. Questa sera mi piacerebbe se, dopo cena, passassi qualche ora con me.”

La Baglioni era sul punto di scoppiare a piangere. L'illusione di poter avere una via di fuga, così barbaramente infranta dalle circostanze del caso, era svanita del tutto ed era rimasta solo la disperazione.

Notando il viso cereo della giovane e il tremito delle sue mani, mentre annuiva in silenzio, Bartolomeo decise di fare qualcosa. Era poco, ma sperava che bastasse per salvare quella ragazza da qualche umiliazione gratuita e dalla violenza che, di certo, avrebbe altrimenti subito quella notte.

“Perdonatemi, cognato – disse, cercando di parlare al meglio delle sue possibilità – ma anche io sono stato in guerra e mia moglie mi manca. Stanotte la vorrei per me.”

Giampaolo parve sorpreso da quell'affermazione, ma la prese molto bene. Rise tra sé e poi batté le mani.

“Non vi negherei mai questo piacere!” esclamò: “Divertitevi, finché potete!”

Quella sera, dopo cena, Pantasilea si presentò nella stanza dell'Alviano e l'uomo, per tenere in piedi la pantomima e non rischiare che Giampaolo, vedendo lui o lei girare per il palazzo quando invece avrebbero dovuto essere in quella camera da letto, le disse: “Stenditi pure. Io dormo in poltrona.”

“Ma...” fece lei, accigliandosi.

Aveva quasi sperato che suo marito la volesse davvero. Era forte, anche se era brutto, e l'aveva amato, nel momento in cui si era intromesso, scavalcando Giampaolo e salvandola da una notte da incubo.

“Sono un soldato – chiarì lui – so dormire ovunque.” e, detto ciò, si mise in poltrona, ancora vestito, e si coprì con il suo mantello, esattamente come avrebbe fatto in una di quelle notti di dormiveglia che tante volte aveva affrontato durante le guerre a cui aveva preso parte.

La Baglioni non disse più nulla. Si tolse l'abito, restando in sottoveste e poi si stese. Le lenzuola avevano addosso l'odore di suo marito e così il cuscino. Era una sensazione strana, ma non spiacevole.

Sentì Bartolomeo russare e capì che, malgrado le luci e tutto il resto, quell'uomo era riuscito a prendere sonno all'istante.

“Davvero come un ottimo soldato.” sussurrò tra sé e, con un sorriso un po' triste e un po' sognante, chiuse gli occhi, cercando di immaginarsi il suo futuro e, per una volta tanto, riuscì a essere ottimista.

 
 
   
 
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