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Autore: Adeia Di Elferas    16/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Spero abbiate fatto un buon viaggio.” disse Gian Giacomo da Trivulzio a Giano Fregoso, mentre l'uomo si lasciava aiutare da Troilo de Rossi a togliersi il mantello.

Il nuovo arrivato sollevò le sopracciglia e borbottò: “Verona non è certo dietro l'angolo. Per arrivare fin qui a Torino non vi sto nemmeno a dire che fatica che ho fatto.”

Gian Giacomo fece un sorriso un po' stentato, sperando che il tono scontroso del Fregoso fosse legato solo alla stanchezza per la lunga traversata del nord Italia, e invitò i due soldati che stavano accanto alla porta a lasciarli soli.

“E lui?” chiese Giano, occhieggiando verso Troilo.

Lì per lì l'aveva scambiato per un domestico, dato che i suoi abiti erano tutt'altro che nuovi e i suoi modi parevano servili come quelli di un lacchè. Poi, però, mentre si voltava per posare il suo mantello sull'ottomana, aveva notato che quell'uomo portava al fianco una spada e di colpo le sue idee riguardo alla sua identità erano cambiate.

“Lui resta, è un mio carissimo amico. E magari l'avete anche sentito nominare: Troilo de Rossi, di San Secondo.” lo presentò il Trivulzio, indicando l'amico con una mano.

“Il Diseredato.” fece Fregoso, stringendo un po' gli occhi e ricambiando appena il cenno di saluto dell'emiliano: “State attento a farvi chiamare de Rossi di San Secondo: quelle terre sono ancora in mano al Moro e al Moro non piace, quando qualcuno avanza pretese sulle sue cose.”

Troilo sollevò l'angolo della bocca, e poi si grattò un po' la barba corta e fitta che tendeva al rossiccio: “Non mi faccio chiamare in nessun modo. Il mio amico Gian Giacomo stava solo cercando di farvi capire chi sono.”

“Veniamo al dunque.” fece il Trivulzio, ricatturando l'attenzione di Giano: “Sappiamo che siete in ottimi rapporti sia con Guglielmo Paleologo, il Marchese del Monferrato, sia con Carlo di Savoia.”

“Sì, è così.” confermò senza tanti problemi Giano.

“Ecco, vi abbiamo chiamato perché re Luigi avrebbe grande interesse a vederli fare la pace e tacitare i loro dissidi.” fece Gian Giacomo, sorridendo affabile.

“E io che ci guadagno? Non ho affari, coi francesi, io sono al soldo di Venezia.” mise in chiaro Fregoso, gli occhi indagatori che passavano dall'ormai anziano Trivulzio al suo amico, in età, ma un bel po' più giovane.

“Sappiamo che Battista, il vostro parente sta cercando di prendere ciò che non sarebbe suo e che è sempre in lotta con il vostro cugino Fregosino Fregoso.” spiegò Troilo, prendendo la parola al posto dell'altro: “Aiutateci e vi sarà dato l'appoggio che la vostra famiglia merita. Il re di Francia non dimentica gli aiuti ricevuti.”

Giano si accigliò e poi, con un respiro molto fondo, disse: “Datemi un giorno per pensarci. Devo capire quanto ancora sono una voce gradita, per il Marchese e per il Savoia.”

“Certo, senza fretta.” annuì Gian Giacomo: “Andate pure a riposarvi e domani ci darete la risposta che aspettiamo.”

Non appena il Fregoso se ne fu andato, Troilo si passò una mano sul viso e sussurrò: “Mi sento un cane a dire certe fandonie.”

“La guerra è fatta anche di inganni. Se deciderà di aiutarci, poi, non è detto che il re non si prenda davvero il disturbo di sdebitarsi con lui in qualche modo...” minimizzò Gian Giacomo.

Il Rossi deglutì e sbuffò: “Sarà, ma ti giuro che è l'ultima volta che mento tanto spudoratamente.”

“Se non vuoi farti ammazzare ben prima di riavere le tue maledette terre del parmense, vedrai quante storie dovrai farti uscire da quella bocca!” esclamò il Trivulzio: “Dai retta a qualcuno che ha più anni di te!”

 

Caterina era appena tornata da una riunione del Consiglio Cittadino che aveva solo avuto il potere di farla arrabbiare.

Aveva chiesto ai presenti di cominciare a far pesare le loro conoscenze oltre i confini della città, nella speranza di poter in tal modo creare una prima rete di contatti per creare un'alleanza stabile con i loro vicini, in modo da essere più efficienti, nel caso in cui fosse stato necessario difendersi da un esercito numeroso come quello francese.

Ciò che le era stato risposto, però, non le era piaciuto. C'era chi sosteneva che fosse inutile, cercare l'appoggio degli Stati confinanti, dato che lei stessa fino a poco tempo prima era stata pronta a dichiarare guerra a tutti. Altri, invece, improvvisamente si rendevano conto che le loro amicizie estere erano solo flebili conoscenze e che quindi non erano nella posizione di chiedere nulla a nessuno.

“Grazie, Argentina, ma faccio da sola...” soffiò la Sforza, quando la sua cameriera personale provò ad aiutarla a togliersi il mantello.

Quel giorno non sarebbe servita nessuna cappa, dato che con l'iniziare di giugno, era iniziato di colpo anche il caldo, ma fin dall'alba pioveva a intermittenza e così la Tigre aveva preferito prendere qualcosa per coprirsi.

Non aveva fatto male, dato che nella breve strada che la divideva dal palazzo, aveva fatto in tempo a prendersi un'acquazzone sia all'andata sia al ritorno.

La riunione si era protratta quasi fino a sera, anche perché, dopo i lunghi discorsi sulla necessità di trovare alleati, si era passati al bilancio per la spesa militare e, anche in quel caso, i membri del Consiglio non avevano perso occasione per tirarsi indietro a ogni più piccola richiesta di aiuto.

Nemmeno quando la Contessa aveva sbottato: “Se pensate che io abbia soldi per comprare abbastanza cannoni da proteggervi tutti, allora fareste meglio a cominciare a scavarvi una fossa!” si erano decisi a farsi più collaborativi.

“Volete che vi faccia portare qualcosa in camera, per la cena?” chiese Argentina, non ancora del tutto avvezza a gestire i lunghi silenzi della sua padrona.

Da quando era arrivata in camera, a parte quella dichiarazione di voler far da sola, non aveva aperto bocca. Era concentrata su qualcosa che, evidentemente, l'assorbiva del tutto, però la sua serva avrebbe gradito qualche parola in più.

“Non voglio niente.” la freddò Caterina, andandosi a mettere alla scrivania: “Ho da fare. Se avrò fame, andrò di persona a prendermi qualcosa.”

“Come desiderate, mia signora.” si inchinò la serva e, dopo un ultimo sguardo alla Sforza, lasciò la camera.

La Leonessa, rimasta sola, giunse le mani e abbassò il capo, con un sospiro. Quella mattina aveva passato in rassegna assieme al Primo Capitano delle Guardie, Bartolomeo Maldenti, i pezzi d'artiglieria del suo arsenale e in breve aveva capito quanto fosse necessario ammodernare e rendere più numeroso il suo armamentario.

Era allora stata per quasi tre ore chiusa nello studiolo del castellano assieme a Cesare Feo e a Luffo Numai, ragionando su come trovare i fondi necessari, dato che ultimamente, con quell'incertezza che aleggiava sull'Italia, molti mercanti d'armi si erano messi a fare prezzi esorbitanti.

Quello che sarebbe servito, alle casse dello Stato, in quel momento, sarebbero stati i fiorini di Firenze, quelli del rinnovo della condotta di Ottaviano.

Caterina moriva dalla voglia di sapere chi le sarebbe stato mandato per trattare quell'affare, dato che la Signoria le aveva fatto sapere che non poteva restare senza un loro ambasciatore e che, a breve, le avrebbero mandato un sostituto per rimpiazzare degnamente Andrea Pazzi. Tra le cose che sarebbe stato tenuto a trattare con lei c'era proprio la condotta di Ottaviano e, pareva, l'acquisto di alcune munizioni per le bocche da fuoco.

Lo stomaco le brontolò, con un crampo doloroso. Non se n'era resa conto, ma era dall'alba che non toccava cibo.

Lasciò la scrivania così come l'aveva trovata, senza nemmeno provare a dedicarsi alla corrispondenza, e lasciò la camera.

Stava andando filata verso la sala dei banchetti, quando incrociò un soldato che si rese conto di conoscere anche troppo bene.

“Mia signora.” salutò lui, accennando a un sorriso.

La donna, che ricordava in modo netto la notte passata con lui, appena la settimana prima, trattenne volutamente il sorriso di risposta e disse solo: “Siete di guardia, stanotte?”

L'uomo, un po' speranzoso e un po' guardingo, scosse il capo. La tentazione, per la Sforza, di proporgli un incontro, dopo cena, era forte. Tanto forte che probabilmente l'avrebbe fatto, se solo non avesse visto suo figlio Ottaviano profilarsi in fondo al corridoio.

“Bene, allora riposate, finché potete. Non sappiamo quando scoppierà la prossima guerra.” furono le parole che la Tigre dedicò al giovane.

Il soldato, un po' deluso, batté il piede in terra, in un segno di rispetto che la Contessa aveva imparato a riconoscere nelle reclute che arrivavano dalla campagna, e con un cenno del capo, ricambiò l'augurio: “Riposate anche voi, mia signora.”

Nel frattempo, Ottaviano li aveva quasi raggiunti. Dedicò uno sguardo penetrante al soldato e poi evitò di incrociare gli occhi della madre.

“Stai andando a mangiare?” chiese Caterina che tutto voleva, fuorché avere un motivo di scontro anche con suo figlio.

Il Riario fece segno di sì e così la donna lo affiancò e camminarono per un po' insieme. Solo quando arrivarono alle scale il giovane ebbe il coraggio di dire a mezza bocca quello che gli stava passando per la testa.

“Non ho intenzione di tornare a Loreto per conto vostro.” fece, deglutendo e anticipandola sui gradini.

La Tigre si bloccò di colpo e fece fermare anche lui, inducendolo a voltarsi, per guardarlo nella luce calda della torcia a muro: “E perché mai dovrei rimandarti a Loreto?”

“Non sono stupido come mi credete.” disse piano Ottaviano: “Ho capito perché mi ci avete mandato. Ho sentito delle chiacchiere e...”

La Sforza si morse il labbro. Si era aspettata qualche fuga di notizie, anche se si era confidata solo con il suo medico e Bianca. Non ce l'aveva con nessuno di loro due, ma pensare che nella rocca si sparlasse anche di quello...

“Non volevo un figlio da un morto, capirai anche tu che un figlio di Manfredi non era...” cominciò a dire la donna, ma poi scosse la testa e ci rinunciò: “Non voglio che ne parli mai più.”

“Ho visto come guardavate quel soldato... Se continuate a correre così il rischio, finirà che prima o poi...” la voce morì in gola al Riario quando la madre lo afferrò per il colletto, rischiando di sbilanciarlo tanto, sui gradini, da farlo cadere.

“Sono affari miei, quello che faccio. Pensa a te stesso, piuttosto. Hai una figlia – 'probabilmente non solo una' aggiunse, solo come pensiero inespresso – e non l'hai vista nemmeno una volta. Chi è da biasimare, tra noi?” sibilò la Contessa, a denti stretti, lasciandolo andare tanto di colpo che per non ruzzolare Ottaviano dovette aggrapparsi al corrimano con entrambe le mani.

Rabbiosa per quel siparietto che non aveva cercato e che non avrebbe mai voluto, la Leonessa tornò sui suoi passi e si fermò solo quando, arrivata di nuovo al pianerottolo, la sua pancia protestò vivamente.

“Fammi portare della carne, in camera, tra un paio d'ore.” ordinò e poi sparì alla vista del figlio, con passo spedito, decisa a ritrovare il soldato che aveva rifiutato poco prima, illudendosi come sempre che bastasse dare sfogo ai suoi istinti per allontanare la sua ira congenita.

 

Giovanni da Casale si stava spuntando la barba guardandosi nel piccolo specchio che aveva portato con sé dal suo ultimo soggiorno a Forlì.

Era una cosa da poco, grosso più o meno come il palmo della sua mano, ma erano i ricordi legati a quell'oggetto a contare molto per lui. Era stato un regalo di Bianca, la figlia della Tigre, che aveva voluto offrirglielo come segno di riconoscenza per quanto aveva fatto in difesa della sua famiglia durante l'attacco dei veneziani.

Si trattava probabilmente di un pezzo di uno specchio più grande rotto chissà in quale occasione, ma per Pirovano era un trofeo.

Con le forbici tagliò un paio di ciuffi ispidi e neri e poi controllò con le dita, più che con lo specchietto, che il suo mento avesse raggiunto una certa simmetria.

Non si fidava a usare un rasoio da solo, e al campo non c'erano barbieri molto abili. Giusto il giorno prima uno dei suoi soldati se l'era vista brutta perché una semplice rasatura stava per trasformarsi in uno sgozzamento. Così si limitava a tenere barba e baffi in ordine, in attesa di potersi avvalere di un barbitonsore degno di tal nome.

Soddisfatto del suo lavoro, Giovanni si alzò dallo sgabello, mise a posto la forbice e andò verso l'uscita del padiglione.

Aveva lasciato il centro di Castrocaro all'indomani del passaggio del feretro di Ottaviano Manfredi, ormai quasi due mesi addietro, ma non si era comunque mosso dai dintorni della città, in attesa di ordini precisi del Moro.

Quando aveva saputo che probabilmente il suo rivale in amore e mezzo alleato in guerra era stato rintracciato e quindi ucciso per una spiata fatta da alcuni castrocaresi, non si era più sentito tranquillo a soggiornare dentro le mura. Un campo militare era molto meno comodo di un palazzo nobiliare, ma Pirovano era sempre stato un soldato e si adattava sempre in fretta a ogni tipo di incomodo.

Le latrine da campo, i lettucci a branda e l'assenza di qualsiasi tipo di facilitazione alla vita quotidiana per lui erano problemi relativi. L'unica cosa che lo stava facendo realmente soffrire era la costante consapevolezza di essere a circa due ore di cavallo dalla donna che amava.

Da un lato, era per lui una prova di lealtà verso il Duca e solidità mentale non indifferente, e per questo era quasi felice di mettersi alla prova e di riuscire nella sua dimostrazione di integrità. Ma dall'altro, sapere che Caterina sapeva di averlo tanto vicino e non vederla arrivare, nemmeno per una sola notte, nemmeno di nascosto, nemmeno per assecondare una delle pazzie alle quali il suo sangue caldo la rendeva soggetta... Ecco, quello lo faceva patire come un animale.

Non aveva nemmeno mai provato a scrivergli, se non a raggiungerlo fisicamente. Non aveva nemmeno tentato di contattarlo dopo la morte di Manfredi. Era abbastanza, per Giovanni, per convincersi che lui, per la Tigre, non fosse stato altro che un passatempo.

Raggiunse l'uscita del suo padiglione e guardò fuori con occhi disincantato. Il campo che si stagliava davanti a lui brulicava di vita, ma in quella mattina calda e un po' umida a lui tutto quel fremere pareva inutile.

Erano fermi da settimane, senza aver nulla da fare, e, come accadeva sempre in situazioni del genere, i soldati cominciavano a lasciarsi andare e dare segni di impazienza. Su permesso del Moro, ne aveva congedati alcuni reparti, ma la truppa era ancora discretamente numerosa. Se non avesse dato loro qualcosa di concreto da fare a breve, era probabile che qualcuno di loro avrebbe cominciato a cercare svago oltre i confini del campo, il cui seguito, comunque, offriva ancora una buona scelta di donne, arrivando magari a lambire Castrocaro e importunare le donne altrui e le contadine sole.

Mentre i suoi scuri scrutavano pensosi l'orizzonte, un uomo a cavallo, accompagnato da uno dei soldati di Pirovano, lo raggiunse. Frenò la bestia a poca distanza da lui, sollevando uno spiacevole polverone.

Il condottiero non vi diede peso e, ridestandosi un po' dalla sua malinconia, gli chiese da dove arrivasse.

L'uomo, visibilmente un messaggero, rispose, porgendogli già il dispaccio: “Arrivo da Milano, mi manda il Duca, con un ordine per voi.”

Giovanni sentì il cuore mancare un colpo. L'aveva temuto e probabilmente il momento era arrivato.

Sapeva che alla fine Ludovico Sforza gli avrebbe dato ordine di lasciare Castrocaro e tornare a Milano o, magari, spostarsi verso qualche altro fronte. Ciò significava, per lui, allontanarsi da Caterina e dalla speranza di poterla avere di nuovo tra le sue braccia.

“Grazie.” disse piano e spezzò subito il sigillo con impressa la biscia sforzesca.

Lesse la lettera per tre volte di fila, incredulo davanti alle parole vergate dalla mano sicura del cancelliere Calco.

Quando fu sicuro di aver capito bene e di non aver travisato affatto quello che gli era stato chiesto di fare, con voce quasi strozzata chiamò il suo attendente e gridò: “Fate preparare i soldati! Si parte subito per Forlì!”

 

Chiara Sforza mise frettolosamente la lettera che le era appena arrivata nella manica del suo abito.

Era riuscita a farsela recapitare con discrezione, al mercato, in pieno centro di Forlì, ma adesso che era di nuovo alla rocca, era un'impresa, mantenere il segreto.

Forse era un atteggiamento troppo prudente, il suo, ma la vita che aveva fatto, fin dalla morte del suo primo marito, Pietro Dal Verme, le aveva insegnato quanto fosse meglio eccedere in cautela che non in incoscienza.

Ciò che l'aveva indotta a rimettere a posto il messaggio era stato il rumore di passi in fondo al corridoio. Era piena mattina, i soldati animavano la rocca come un carosello senza sosta, ma quell'ala di Ravaldino era tranquilla, ecco perché l'aveva scelta per ritirarsi qualche istante.

Si mise in attesa e finalmente vide Caterina girare l'angolo del corridoio e, vedendola, puntare verso di lei. Portava in braccio il figlio più piccolo e aveva un'espressione scura che lasciava intendere che qualcosa l'avesse fatta arrabbiare già a quell'ora.

“Che nascondi?” chiese la Contessa, guardandola con sospetto.

La sorella minore sollevò le sopracciglia, iniziando a sudare freddo. Ricordava che fin da bambina Caterina era sempre stata capace di cogliere anche dettagli infinitesimali ed evidentemente anche quella volta ne era stata in grado: o aveva notato il suo atteggiamento circospetto, o l'aveva intravista infilare la piccola missiva nella manica.

“Nulla, perché?” fece comunque Chiara, sorridendo a Giovannino che, del tutto simile alla madre, la guardò per un lungo istante con una sorta di accusa negli occhi di un verde tanto scuro da sembrare pece.

“Non devi avere paura di me.” sospirò la Tigre, proseguendo verso la sala delle letture: “E ti assicuro che sono poche le persone che possono dire altrettanto.”

Un po' incoraggiata dal tono stanco, ma moderatamente pacifico della sorella, Chiara la seguì e quando si sistemarono nella saletta, si sedette davanti a lei.

La Tigre era incupita, quella mattina, principalmente perché le voci che la volevano colpevole della morte di Ottaviano Manfredi erano arrivate anche al suo Consiglio Cittadino. Nessuno dei Consiglieri si era azzardato a dirsi convinto da quell'accusa, ma a quel punto la Sforza si aspettava che quell'ombra arrivasse anche alle orecchie del Moro e di tutti i suoi possibili alleati.

Non la faceva soffrire solo l'idea che qualcuno potesse pensarla capace di far uccidere – e in modo tanto barbaro – un uomo che aveva amato, ma anche che questa calunnia potesse renderla meno appetibile come alleata in caso di guerra.

La Leonessa si prese qualche momento per accarezzare la fronte del figlio e poi si rivolse alla sorella: “Vuoi dirmi perché sei qui? Che cerchi da me? Protezione? E da chi o da cosa?”

L'altra deglutì e si morse le labbra, indecisa se confidarsi o meno con lei. L'ultima lettera che le era arrivata la poneva in una condizione ancora più delicata, ma voleva cercare di risolvere comunque la questione.

Lei e suo marito Fregosino se l'erano cavata da soli fin dal giorno in cui si erano sposati e così avrebbero voluto continuare a fare. Si erano salvati dalla tempesta in mare, dalle guerre, dai giochi di potere del Ducato e di Genova...

“Ho bisogno di soldi.” disse alla fine, trovando che quella richiesta fosse la più innocua e veritiera.

Caterina sospirò e lasciò Giovannino libero di mettersi sul tappeto. Il piccolo non aveva nulla con cui giocare, ma pareva gli bastasse poter correre in tondo per essere felice. Come dicevano le balie, aveva imparato a correre prima di imparare a camminare. Che quel dettaglio fosse profetico di ciò che la vita gli avrebbe riservato, era difficile dirlo, ma sua madre sperava di no. Aveva il terrore che quel suo ultimo, preziosissimo figlio, si bruciasse troppo presto.

“Quanti te ne servono?” chiese la Contessa, senza sbilanciarsi, per il momento.

“Quanti riesci a darmene.” fu la risposta, molto eloquente.

La Leonessa trattenne una risata ironica. I soldi erano da anni il suo cruccio. Quanti ne recuperava, tanti ne doveva spendere. Da giorni stava cercando di far quadrare i conti per acquistare nuove armi, e non riusciva a trovare una via di scampo, salvo il pensiero di rivendere i gioielli, cosa che non aveva alcuna intenzione di fare. Quei monili, nel suo piano, sarebbero serviti ai suoi figli per non morire di fame, se fosse successo il peggio.

“Mi spiace dirtelo, ma se sono solo i soldi, che ti servono, sei venuta a chiederli alla persona sbagliata.” disse piano la Contessa, riacciuffando Giovannino che, con la sua corsa libera iniziava a farle girare la testa.

“Te li restituirei non appena...” cominciò a dire Chiara, che non si era aspettata un diniego tanto netto e subitaneo.

“Non hai capito – fece Caterina, mettendosi il figlio sulle ginocchia e guardando la sorella con la sua consueta maschera indecifrabile – soldi io non ne ho. Non ne ho per me, tanto meno per te.”

L'altra tacque, capendo che la Tigre stava semplicemente dicendo la verità. Si mise a ragionare e alla fine decise di giocare una carta che non avrebbe mai voluto tirare fuori dal mazzo.

“Nostro zio Ludovico non ha problemi di liquidità, che io sappia. Tu hai influenze presso di lui? Vi tenete in contatto, no? Siete alleati... Ti ha mandato dei soldati, tu volevi mandare tuo figlio Galeazzo a condotta da lui... Nostro zio, addirittura, voleva trovare una moglie, a Galeazzo...” prese a dire la donna, elencando tutte quelle cose tanto rapidamente da impedire alla Leonessa di infilarsi tra una frase e l'altra.

Questa non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi come facesse Chiara a essere al corrente di quelle cose, che sulla porta si profilò Cesare Feo che, con discrezione, le fece capire che aveva una notizia importante da darle.

“Che c'è? Parlate pure.” disse Caterina, mettendo un dito sulle labbra di Giovannino che stava barbottando qualcosa per attirare la sua attenzione.

Il castellano lanciò uno sguardo alla sorella della sua signora e poi, trovando che in fondo quella che doveva riferire non fosse una notizia da tenere del tutto segreta, disse: “Giovanni da Casale è a Porta Ravaldino, con i suoi uomini e chiede il permesso di entrare. Ha con sé un dispaccio del Moro. Dice che deve fare la rassegna delle vostre truppe e che poi si fermerà come...”

Cesare non fece in tempo a finire il suo discorso che la Contessa già si era alzata dalla poltrona, il figlio ancora saldamente tra le braccia, ed era uscita in corridoio dicendo: “Date immediatamente ordine di farlo entrare. E fategli sapere che lo voglio subito qui alla rocca. Io vado sui camminamenti.”

Cesare Feo annuì, quasi tra sé e poi, con un'ultima occhiata a Chiara, che ricambiò un po' interrogativa, mugugnò: “Il nuovo messo milanese mi pare molto più gradito alla Tigre del povero Orfeo...”

 
 
   
 
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