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Autore: Adeia Di Elferas    17/02/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Sulle merlature il sole di giugno arrivava nitido e caldo, tanto che Caterina, mentre aspettava di veder entrare per Porta Ravaldino Giovanni da Casale con i suoi soldati, cominciò a sudare.

Teneva ancora tra le braccia Giovannino e si rese conto solo in quell'istante di avere addosso uno dei suoi abiti peggiori. Era perfino un po' sporco di terra sulle maniche, dato che l'aveva usato il giorno prima per andare nel suo orto personale a controllare alcune delle radici che usava per le sue pozioni.

Avrebbe di gran lunga preferito accogliere Pirovano indossando qualcosa di meglio, anche se il suo unico vestito che poteva dirsi elegante era la solita veste rossa che portava in ogni occasione ritenuta importante.

Non portava nemmeno un gioiello e teneva i capelli sciolti, come una contadina. Suo figlio, stretto al suo collo, guardava come lei all'orizzonte, del tutto disinteressato all'aspetto trascurato della madre e la Tigre decise di prendere esempio da lui.

Quando finalmente intravide un po' di povere alzarsi, a livello della Porta cittadina, la donna seppe che il milanese stava facendo il suo ingresso. Da così lontano poteva appena scorgere le sagome di quelli che entravano e contò qualche decina di soldati, mentre i suoi uomini parlottavano con qualcuno – quasi sicuramente Giovanni da Casale – in testa al breve corteo.

Indecisa se andare ad accoglierlo all'ingresso della rocca o aspettarlo in un punto più riparato, Caterina vide proprio in quel momento sua figlia Bianca arrivare a Ravaldino, assieme a Chiara.

Si chiese dove fossero state a quell'ora. Di norma, se usciva, la Riario lo faceva nel pomeriggio, oe comunque era solita lasciar detto dove fosse diretta. La madre pensò che forse fosse stata convinta dalla zia a uscire a fare compere, ma nessuna delle due aveva con sé dei pacchetti.

Nel frattempo gli armigeri si stavano spostando e un piccolo drappello composto dagli uomini della Sforza e dal nuovo arrivato – ormai indubbiamente riconoscibile come Pirovano – si avvicinava alla rocca.

Decisa a sfruttare al meglio quell'occasione, la Leonessa lasciò i camminamenti di gran carriera e riuscì così a intercettare la figlia e la sorella.

“Ti lascio un momento Giovannino, va bene?” disse a Bianca, passandole il piccolo come un pacco.

La ragazza non ebbe nulla da ridire. Amava molto prendersi cura del fratello più piccolo e sapeva che il bambino preferiva di gran lunga la sua compagnia a quella delle balie.

“C'entra il drappello di soldati che sta entrando in città?” le chiese, notando quanto la madre apparisse distratta.

Mentre il piccolo Medici allungava una mano dalle ditine tozze verso il viso della sorella, a mo' di saluto, Caterina annuì e poi, accigliandosi appena, chiese: “Dove siete state a quest'ora?”

Chiara, che se ne stava un po' in disparte, borbottò: “Non pensavo ci servisse un permesso scritto, per uscire di qui...”

La Contessa finse di non aver sentito e attese la risposta della figlia, che, dopo una breve esitazione, spiegò: “Zia Chiara voleva vedere qualcuna delle chiese di Forlì, così l'ho portata in Duomo e da qualche altra parte... E poi ci siamo fermate un momento a San Girolamo.”

Sentir citare San Girolamo ebbe il potere di convogliare interamente per qualche istante l'attenzione della Sforza su quel che stava dicendo la ragazza.

Era stata la Riario a voler concludere il giro della chiese cittadine proprio lì. Aveva mostrato a Chiara la tomba di Ottaviano Manfredi, sulla quale si erano soffermate per un po' e proprio mentre si trovavano dinnanzi alla pietra che nascondeva i resti martoriati del povero faentino, la sorella della Tigre aveva fatto una domanda che alla nipote era apparsa quasi fuori luogo, nel santo silenzio di quel posto.

“Ma è vero che dovevi sposarlo?” le aveva chiesto, le mani giunte in grembo.

Bianca, che nel vedersi dinnanzi quella lapide si era ritrovata gli occhi lucidi, aveva annuito appena e aveva soffiato: “Sì.”

“E ti piaceva?” era proseguito il mezzo interrogatorio della donna.

“Sì.” aveva confermato la Riario.

“Ma lui non era l'amante di tua madre?” aveva domandato la milanese, accigliandosi, come se qualcosa le sfuggisse.

“Sì.” aveva ribadito per la terza volta la nipote e poi, prima che sua zia potesse farle altre domande scomode, si era fatta il segno della croce e le aveva fatto capire che fosse il momento di andarsene.

“Abbiamo pregato sulla tomba di Manfredi.” spiegò la ragazza, alla madre, il ricordo di quei momenti ancora ben impresso nella mente.

Caterina allungò una mano verso Giovannino, sistemandogli un po' i riccioli ribelli e commentò, a denti stretti: “Immagino che, invece, sulla tomba di Giacomo non ti sia fermata nemmeno per sbaglio. Ma meglio così.”

L'ultimo inciso era arrivato tanto in fretta e con tanta acidità da bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di Bianca di smentirla. E pensare che sulla tomba del Feo si era fermata davvero, e non per poco, rimproverandosi una volta di più per la propria leggerezza e per il proprio egoismo che, uniti alla gelosia di Ottaviano e alla cecità di Cesare, avevano portato un ragazzo di appena ventiquattro anni a una morte orribile.

“Dite con Giovanni da Casale che lo aspetto, da solo, nello studiolo del castellano.” fece la Tigre, rivolgendosi alle guardie che stavano sulla porta, disinteressandosi di colpo tanto alla figlia, quanto alla sorella: “Tanto la strada la conosce molto bene.”

'Dunque è riuscita a far tornare qui Giovanni da Casale' pensò Bianca, mentre, vezzeggiando il fratellino, imboccava le scale per andare in camera sua a cambiarsi: 'Speriamo che non finisca anche stavolta in tragedia'.

 

Pirovano sollevò lo sguardo verso il portone d'ingresso della rocca e se ne sentì quasi sopraffatto.

Aveva passato così tanti giorni immerso nel ricordo di quel posto e così tante notte ad accarezzare il sentimento che lo voleva spingere di nuovo tra le grinfie della Tigre, che ora trovarsi davvero a Ravaldino gli pareva qualcosa di irreale.

Conosceva pressoché tutti gli uomini della Contessa che erano andati ad accoglierlo. Riconobbe perfino i due soldati di guardia alla porta. In un certo senso era un po' come tornare a casa.

Una delle guardie gli disse che la Sforza l'attendeva, da solo, nello studiolo del castellano e così Giovanni non frappose altri indugi e, ringraziando quelli che l'avevano accompagnato fino a lì, andò con passo sicuro alle scale e fece i gradini a due a due per quanta era la voglia di raggiungerla.

Giunse infine davanti alla porta dello studiolo e la trovò accostata. Fece un respiro profondo, raddrizzò le spalle e, dopo essersi lisciato un po' il giubbone con le mani, l'aprì, senza nemmeno annunciarsi in qualche modo.

Caterina lo stava aspettando in piedi accanto alla finestra e non fece una piega, nel vederselo arrivare lì all'improvviso. I suoi occhi verdi lo stavano squadrando, senza lasciarsi scappare nemmeno un dettaglio. Lo trovava in qualche modo più maturo, forse per via della barba scura e fitta, forse per l'intensità del suo sguardo, o forse, semplicemente, perché era passato qualche mese, dall'ultima volta che si erano incontrati e, a quell'età, era facile passare dall'essere solo un ragazzo a essere un uomo in poco tempo. Non aveva ancora venticinque anni, ma in quel momento le sembrava molto più virile di tanti quarantenni.

Similmente, anche Pirovano la stava guardando, passandola in rassegna come avrebbe fatto con un pezzo d'artiglieria. La trovava sempre di una bellezza così feroce da togliere il fiato, per nulla disturbata dal suo presentarsi in abiti da lavoro – perché sapeva che così considerava quel genere di vestiti, semplici e rovinati dal tempo e dall'usura – e con i capelli bianchi sciolti sulla schiena. Era ben cosciente del fatto che a dividerli c'erano quasi quindici anni, ma non gli interessava. La differenza d'età, quando era al suo cospetto, semplicemente non aveva più alcun valore.

Avrebbe voluto dirle un sacco di cose, partendo dal perché non le avesse mai nemmeno scritto una volta, arrivando al suo tormento quando, arrivata la sera, non poteva averla al suo fianco, ma, alla fine, prima che potesse frenarsi, dalle sue labbra uscì un roco: “Mi spiace per quello che è successo a Manfredi.”

La Sforza abbassò un momento lo sguardo. Non si era certo aspettata quell'incipit, ma forse era la cosa più logica. La presenza, spesso ingombrante, di Manfredi, era stato un punto fisso, nel loro relazionarsi. Era sempre stato una sorta di triangolo amoroso che nemmeno la morte di uno dei vertici, forse, poteva appianare.

Siccome Pirovano se ne stava appena oltre l'uscio, a una certa distanza da lei, la Contessa cominciò a temere che i suoi sospetti fossero fondati e che in realtà lui non la volesse più. Forse, dopo tutto quel tempo passato lontani, aveva finalmente aperto gli occhi e aveva deciso di non cadere più nella sue rete.

“Avete sofferto molto, quando è morto.” proseguì Giovanni, senza dare un'inflessione interrogativa alla sua frase.

La donna, comunque, annuì e poi fece un paio di passi verso di lui, ma l'uomo non ricambiò quel gesto di avvicinamento e così anche Caterina rimase sulle sue.

Il soldato deglutì e poi, spostando gli occhi scuri dalla donna che – anche in quel frangente così delicato – desiderava alla follia, alla scrivania del castellano e poi alla finestra, sussurrò: “Lo immaginavo. Da quella volta in cui mi avete cacciato dal vostro letto per fare spazio a lui...”

“Non ti ho cacciato, quella volta.” lo corresse la Leonessa, non riuscendo a tacere: “Te n'eri andato tu.”

“Solo perché volevo risparmiarmi l'umiliazione di vedermi mandato via per lasciare il posto a un altro.” precisò Pirovano, alzando appena la voce, ma riabbassandola subito, deciso come non mai a non litigare: “Comunque da quella volta ho capito che io ero solo un ripiego ed è per questo che ho preferito non farmi vivo con voi, nemmeno quando è morto Manfredi. Sarei stato di troppo.”

“Sono stata io a pregare mio zio di ordinarti di tornare qui. Anzi, l'ho implorato di farlo, e più di una volta.” rivelò la donna, vergognandosi un po' di quella che era stata una dimostrazione di debolezza, un modo un po' avvilente di rendersi una volta di più debitrice nei confronti del Moro.

Giovanni puntò di nuovo gli occhi scuri sul viso della Contessa e la fissò in silenzio. Non lo credeva possibile. Per come l'aveva conosciuta lui, una donna del genere non avrebbe mai potuto abbassarsi a implorare – come aveva detto lei – il Duca di Milano per riavere alla propria corte uno dei suoi amanti occasionali.

Fu solo quando le iridi verdi della Tigre brillarono appena, un po' inumidite, alla luce fresca del sole di giugno che filtrava dalla finestra, che Pirovano le credette.

“Davvero?” chiese, con un barlume di speranza.

“Sì.” confermò lei, voltandosi di lato per non dover sostenere il suo sguardo insistente.

“Perché?” chiese lui, non per metterla in difficoltà, ma solo per capire cosa avrebbe potuto aspettarsi.

Non voleva farsi del male, non voleva restare troppo deluso. Era sicuro che la Sforza sarebbe stata spietatamente sincera e quindi domandare era la strada più veloce e sicura per non avere brutte sorprese in un secondo momento.

“Perché mi servi.” rispose Caterina.

La scelta di quelle parole lasciò un po' perplesso l'uomo, ma siccome la Contessa gli si stava avvicinando, lasciò che fosse lei a continuare.

Gli prese una mano con la sua, mettendo in mostra – involontariamente – il nodo nuziale che ancora la legava a Giovanni Medici, e poi gli assicurò: “Ho bisogno di te, in tanti modi. Mi servi come soldato, come sostegno e... E anche come uomo.”

Per sottolineare il reale significato dell'ultimo inciso, la Tigre strinse un po' di più la presa e poi, con lentezza, posò la mano libera sul fianco di lui, guardandolo con attenzione, per carpire la sua reazione.

Anche se la barba di Pirovano era fitta e molto scura, riuscì comunque a vedere un certo rossore salire dal collo fino alle guance e fu certa di aver fatto centro. Se era sembrato sostenuto, era stato solo per un eccesso di cautela. In fondo, anche lui voleva starle vicino.

Mossa dalla voglia di sentire di nuovo il suo sapore – mai dimenticato, malgrado tutto – la Leonessa cercò di sporgersi verso di lui, facendolo piegare un po', per riuscire a raggiungere le sue labbra, ma Giovanni da Casale rispose a quell'iniziativa solo in parte.

Chinò il capo, ma non fece nient'altro per assecondare il suo tentativo, anzi, prima che la donna potesse arrivare a baciarlo, disse: “Sono qui per passare in rassegna le truppe e per fare da tramite tra voi e Fracassa.”

Caterina incassò quell'interruzione con una certa difficoltà. Si allontanò da lui di mezzo passo e deglutì un paio di volte, cercando di darsi un contegno.

Poi, schiarendosi la voce, disse: “Certo, me l'avevano anticipato. Fracassa è ancora in città, possiamo organizzare un incontro anche domani, se vuoi.”

Pirovano annuì, dicendosi d'accordo: “E per le truppe?”

“Oh, che diamine!” sbottò la Sforza, incredula, davanti a quello che, un tempo, avrebbe visto come un sintomo di efficienza, ma che in quel momento le sembrava solo un'irritante attaccamento al dovere: “Alle truppe avremo tempo di pensare! Il Moro ti ha mandato qui in pianta stabile, non di passaggio!”

Giovanni comprese il motivo dello scatto di rabbia della Tigre e si maledisse di non essere più abile, in quel genere di cose. La verità era che, a parte lei, non aveva mai avuto una donna per cui provasse qualcosa. Aveva cercato compagnia, prima di conoscerla, ma solo per dare sfogo ai suoi bisogni e per stemperare a volte la paura di morire che lo prendeva quando era in guerra, ma nulla di più. Non aveva la più pallida idea di come funzionasse una relazione tra un uomo e una donna.

Non aveva avuto nemmeno l'esempio dei suoi genitori. Aveva sempre vissuto in mezzo ai soldati, fin da bambino, e dai soldati c'era poco da imparare, in quel campo.

Si grattò un momento il mento, chiedendosi cosa Caterina si aspettasse da lui in quel momento. Era lì, davanti a lui, le braccia incrociate sul petto, il volto arrossato e gli occhi sfuggenti.

L'unica cosa, pensò Pirovano, che avrebbe voluto fare in quel momento, sarebbe stato baciarla, tanto per cominciare.

Si chiese se in amore funzionasse come in battaglia, se seguire l'intuizione del momento, senza farsi troppe domande, potesse davvero fare la differenza tra la vita e la morte. Decise di seguire il suo istinto e basta.

Ricolmò la breve distanza che li separava e prese tra le braccia la donna che amava, cogliendola tanto di sorpresa che in un primo momento la Tigre quasi si spaventò per quell'intraprendenza. La baciò a lungo e a fondo, fino a che non la sentì sciogliersi del tutto nella sua stretta.

Quando l'uomo la lasciò andare, la Contessa non riuscì a reprimere un sorriso soddisfatto e disse, senza preoccuparsi di suonare troppo fredda: “L'avevo detto, io, che mi servivi.”

Giovanni cercò di non prendersela per quel modo un po' ruvido con cui gli aveva voluto far capire quanto avesse apprezzato quel bacio, e chiese, a voce bassa: “Cosa facciamo adesso?”

Per prima cosa, la donna chiuse la porta dello studiolo a chiave e poi, tornando a rivolgersi a Pirovano, disse, con semplicità: “Adesso recuperiamo un po' di tempo perso, nei prossimi giorni ci occupiamo di Fracassa, delle truppe e di quello che vuole mio zio e poi, dopo che avrai adempiuto a tutti i tuoi compiti, ti metterai al mio servizio.”

“Volete darmi una condotta?” chiese l'uomo, mentre la Tigre tornava da lui e lo attirava a sé con prepotenza, convincendolo poco per volta a spostarsi verso la poltrona.

“Sì. Non potrò pagarti molto. Vitto e alloggio, ma se per te bastano...” fece lei, cominciando a spogliarlo, come se non aspettasse altro da secoli.

“A me basta stare con voi.” accettò all'istante il soldato, capendo all'istante che fosse giunto il momento di staccarsi dal Duca di Milano che, sì aveva fatto tanto per lui, ma verso il quale, ormai, sentiva di non avere più alcun debito di riconoscenza.

 

Simone Ridolfi trovava l'intera situazione surreale. Era stata la Contessa Sforza a chiedergli di recarsi alla rocca a quell'ora e poi che cosa faceva? Si chiudeva nello studiolo del castellano con Giovanni da Casale e lo lasciava ad aspettare come uno qualsiasi per un'eternità.

Che dovevano dirsi, di così importante e irrimandabile, da non trovare nemmeno il tempo di uscire un istante per scusarsi con lui per l'attesa, o, anche, per chiedergli di tornare direttamente in un altro momento?

Quando la porta dello studiolo si aprì, il Governatore di Forlì scattò in piedi, lasciando la panca di pietra su cui era stato seduto fino a quel momento e, dando un rapido sguardo tanto a Pirovano, quanto alla Tigre, gli fu immediatamente chiaro che le chiacchiere non fossero le colpevoli di quella sua lunga attesa.

“Ci vediamo dopo.” disse in fretta Caterina a Giovanni: “Fai portare i tuoi bagagli qui alla rocca e fai sistemare i tuoi uomini al Quartiere Militare.”

“Mia signora...” la salutò Simone, guardando poi anche l'uomo del Moro e dedicandogli appena un cenno con il capo.

“Perdonatemi, mi ero dimenticata del nostro incontro...” fece la Sforza, passandosi una mano sulla fronte, per sistemarsi ancora un po' i capelli.

Erano leggermente arruffati, e il suo viso era tinto di un rosa acceso che, unito al sottile velo di sudore che le si poteva ancora vedere sul collo, tolse ogni dubbio a Ridolfi.

Non avrebbe avuto nulla da dire, se solo la Sforza non fosse stata la vedova di Giovanni. Lo stesso Simone tradiva spesso sua moglie, e sapeva per certo che Lucrezia faceva altrettanto, quindi non si sentiva nella posizione di giudicare. Tuttavia non poteva evitare di avvertire un peso in fondo allo stomaco, nel ricordare l'amore cieco e sordo che suo cugino aveva provato per quella donna e nel vederla, a nemmeno un anno dalla morte del Medici, tanto facile al tradirne la memoria.

“Non importa.” soffiò l'uomo, rimangiandosi tutte le parole astiose che aveva macinato nella sua mente: “Comunque, se per voi non è un problema, vorrei parlarvi ugualmente, anche se si è fatto tardi.”

“Certo. Andiamo nella Sala della Guerra.” propose la Contessa, cominciando a camminare: “Con la mappa sott'occhio sarà più facile. Ci sono stati altri attacchi?”

Simone scosse il capo: “No, no, però Vincenzo Naldi è irrequieto. Non ha più fato attaccare le campagne di Faenza, ma Venezia resta scontenta di lui.”

“E suo fratello Dionigi che dice?” domandò la Leonessa, la mente molto più libera, dopo il sollievo di aver ritrovato Giovanni da Casale.

“Dice che non ne sa niente. E vi fa anche sapere che la ricerca di Galeotto Bosi per ora non sta dando frutti, ma che è convinto di aver trovato il modo per stanarlo.” spiegò Ridolfi, tenendo il passo di lei: “Però finché non farà rientro con i suoi soldati, la città resta in parte sguarnita.”

Caterina annuì e, aprendo la porta della Sala della Guerra, precisò: “E non possiamo nemmeno sperare in un nuovo reclutamento a tappeto.”

“Solo se volessimo reclutare anche donne, vecchi e bambini.” ribatté il Governatore.

“Lo escludo: quelli ci servono per lavorare i campi.” fu la pronta risposta della Leonessa e, sia lei sia Ridolfi, si lasciarono andare a una risata, per quanto molto breve e molto amara.

 

Ludovico Sforza si tolse dalle labbra il filo d'erba che stava mordicchiando da almeno dieci minuti.

Lo gettò in terra e ne strappò un altro, tornando a guardare l'orizzonte. Non sapeva nemmeno lui come fosse riuscito a scappare dai suoi impegni, quel pomeriggio. Era stato un caso fortuito e, probabilmente, se Calco o Ermes o chiunque altro, avesse saputo che se n'era andato a spasso per i campi, la sua fuga sarebbe finita all'istante.

Sospirò e si appoggiò con pesantezza al tronco dell'albero che gli stava donando la sua ombra e strinse gli occhi verso il sole.

Vigevano, da lì, non si vedeva nemmeno. Il cielo era limpido, ma l'orizzonte era offuscato da una sorta di nebbiolina che si vedeva spesso in quel periodo dell'anno.

Il Duca di Milano rise tra sé, chiedendosi cosa ci trovassero tutti, lui compreso, in una terra capace di essere nebbiosa perfino con la bella stagione.

Un doloretto alle ginocchia, legato un po' all'età e un po' proprio all'umidità a cui erano sempre state sottoposte, gli rispose con banalità che un motivo non c'era: l'amore era così.

Sputò anche il secondo filo d'erba che aveva preso e sospirò a fondo. Avrebbe dato tutto quello che aveva per poter vivere così, in mezzo al verde, tra i campi e i gelsi, senza curarsi d'altro se non della natura, del cibo e delle belle donne. Ma il potere, un mostro indomabile che l'aveva affascinato fin da piccolo, non glielo avrebbe permesso più.

Quando era bambino, lo ricordava come se non fossero passati tutti quegli anni, era stato così invidioso di suo fratello Galeazzo Maria da arrivare a odiarlo. Gli sembrava un'ingiustizia che il Ducato andasse a lui solo perché era il primogenito. Si sentiva più meritevole, più bravo, più bello e perfino più simpatico di lui. Certo, erano ragionamenti da bambino, crescendo aveva capito che non era una gara di merito, ma una serie di cose a fare di un uomo qualunque un uomo potente.

E quando si era reso conto di cosa fosse davvero il potere, ormai era troppo tardi per tornare indietro.

Seguendo il filo sconnesso dei suoi pensieri, passò dal ricordo del fratello – nelle sue memorie ridotto a un uomo tronfio e pieno di sé, ossessionato dalla cura delle proprie mani, rese lisce e perfette come quelle di una cortigiana e non callose e rovinate come quelle dell'uomo d'armi che fingeva di essere – a quello della nipote.

Immaginava che ormai Giovanni da Casale fosse arrivato a Forlì e cominciava a chiedersi se non fosse stato un errore, assecondarla in quella richiesta. Si fidava del suo pupillo, sarebbe stato pronto ad affidargli la sua stessa vita, ma sapeva anche quanto potesse essere forte e fuorviante l'amore per una donna.

Lui stesso, se la sua Beatrice gliel'avesse chiesto, avrebbe fatto di tutto.

Con un sospiro pesante, la voce e le risate della moglie che risuonavano ancora nelle sue orecchie, Ludovico si alzò. Si tolse un po' di polvere dai vestiti con un paio di colpi ben assestati delle sue grosse mani da arzatore, e poi con il passo greve di un condannato, tornò verso il suo cavallo.

Montò in sella un po' a fatica, rimpiangendo di non aver più vent'anni, e, cercando di non pensare a nulla se non al bellissimo cielo che lo sormontava e al commovente profumo di campagna che gli riempiva le narici, spronò la sua bestia in direzione di Vigevano, dove si sarebbe fermato solo per una notte, prima di tornare a Milano e alla sua vita fatta di fantasmi, catene dorate e nemici pronti a sgozzarlo nel sonno nella speranza di avere anche solo le briciole di un pasto che lui, ormai, non sapeva nemmeno più che sapore avesse.

 
 
   
 
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