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Autore: Adeia Di Elferas    21/02/2019    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Me la ricordo molto bene, vostra madre...” rise Alessandro VI, deglutendo un altro pezzo di arrosto e sollevando lo sguardo con fare ilare verso altri commensali: “Mi ricordo anche bene di quando aspettava voi. E, ancor di più, di quando aspettava non so che figlio, quando s'è presa la briga di occupare Castel Sant'Angelo...”

Quando Cesare Riario si sentì addosso gli occhi del papa, smise di fissare il proprio piatto per ricambiare l'attenzione, e si accorse con un brivido di quanto il sorriso apparentemente divertito che sollevava le labbra del Santo Padre non lambisse nemmeno per sbaglio le sue iridi luccicanti.

Quella cena era del tutto informale, anche se erano presenti molti pezzi grossi del Vaticano, compreso Ascanio Sforza e Raffaele Sansoni Riario – che non lasciava un momento il cugino, quasi avesse paura che potesse capitargli qualcosa di brutto, se fosse stato solo – e il figlio della Tigre si trovava sempre meno a suo agio, man mano che le portate si avvicendavano.

Il parente gli aveva praticamente promesso che quella sarebbe stata l'ultima incombenza importante prima della sua partenza per Pisa e aveva sottolineato molto come il papa stesso avesse voluto quella cena, al fine ultimo, diceva, di conoscerlo meglio.

Vista la carica che, presto, Cesare avrebbe dovuto ricoprire in modo attivo, il Borja aveva reso noto al Cardinale Sansoni Riario di voler colloquiare in 'amicizia e cordialità' con il ragazzo, in modo da capire quanto fosse veramente adatto al compito che gli era stato affidato.

“Ditemi una cosa...” fece Rodrigo, passandosi la lingua sulle labbra sottili e facendosi un po' più serio: “Con il passare degli anni vostra madre ha mantenuto le brutte abitudini di quando era giovane?”

Il Riario non capì a cosa si riferisse il papa, così domandò, a costo di suonare un ingenuo: “A che vi riferite?”

Alessandro VI, allora, esclamò, con una risata colossale: “A prendersi le cose degli altri senza ricordarsi che indossa una sottana e non le brache!”

Mentre la tavolata rideva di rimando, forse più per abitudine che non perché avessero trovato quelle parole esilaranti, Cesare si sentì arrossire e poi, come un cane bastonato, si rimise a mangiare in silenzio, lasciando che i porporati che lo circondavano ricominciassero a vociare e scambiarsi battute di dubbio gusto.

Solo Ascanio e Raffaele si astenevano dal prendere parte a quel pubblico dileggiare la Sforza, e di questo il Riario era loro grato. Tuttavia quella sceneggiata disgustosa gli riportò alla mente le parole della madre che, prima di lasciarlo partire, l'aveva messo in guardia su Roma e sui personaggi che vivevano nei palazzi dorati del Vaticano. Finalmente capiva che aveva sempre avuto ragione su di loro e, mai come in quel momento, desiderava partire per Pisa e lasciarsi l'Urbe alle spalle.

A cena terminata, mentre molti si appartavano con una cortigiana o si mettevano in un angolo della sala a discutere dei loro affari sottovoce, il papa si avvicinò a Cesare e gli posò una mano sulla spalla.

Il giovane sentiva tutto il peso di quel gesto ed ebbe quasi paura, quando vide il pontefice chiedere con un cenno del capo al Cardinale Sansoni Riario di lasciarli un attimo soli.

Raffaele si tenne a debita distanza, senza perderli in realtà di vista, ma il giovane forlivese ebbe la sensazione spiacevolissima di essere una preda indifesa tra le grinfie del Borja.

“Vostra madre non accenna a lasciare le sue terre.” disse piano Rodrigo, gli occhi rapaci che scavavano in quelli del Riario come a cercarvi nel fondo una traccia da seguire: “Voi potete dirmi perché si ostina a quel modo?”

Cesare avrebbe voluto ricordargli che nemmeno gli altri signori di Romagna accennavano ad andarsene e che comunque sua madre si stava armando, pronta alla battaglia, ma si ricordò della promessa fatta: di non tradire la sua famiglia. Era cosciente del fatto che il Borja stesse tastando il terreno per cogliere la Tigre impreparata e all'improvviso seppe esattamente come comportarsi.

“Purtroppo con mia madre posso dire di non parlare da anni.” disse piano il ragazzo, mostrandosi afflitto: “Non ho idea di cosa stia facendo, né di quel che voglia fare. Io ormai sono solo un figlio di Santa Madre Chiesa.”

Rodrigo lo fissò ancora a lungo, premendo un po' di più la mano sulla spalla del suo interlocutore e poi, con tono mellifluo, provò a dire: “Vostro fratello Ottaviano... Ormai è un uomo fatto. Credevo che vostra madre avrebbe lasciato a lui il comando dello Stato, o almeno dell'esercito...”

Il Riario si sentì molto più in difficoltà di prima, perché ogni tipo di affermazione, in quel frangente, avrebbe potuto dimostrarsi rischiosa.

“Non so che rispondervi – ammise, e poi tenne la stessa linea scelta per la prima domanda – anche con mio fratello, purtroppo, posso dire di non avere più buoni rapporti.”

Il Santo Padre fece un profondo respiro, sollevò un po' le spalle e poi parve convincersi che quello che aveva per le mani fosse davvero una pedina inutile ai suoi giochi.

Con un sospiro lo lasciò andare e poi sbuffò, a voce più alta: “Vi auguro di trovarvi bene, a Pisa, e di essere sempre un bravo servo di Santa Madre Chiesa, Cesare Riario. Avete un bel nome. Come mio figlio...”

Il modo in cui Alessandro VI disse quel 'come mio figlio' fece accapponare la pelle del ragazzo che lesse nel ghigno appena accennato del papa un presagio sinistro che, anche tornato al suo palazzo per riposare, non lo lasciava.

 

“Dunque abbiamo trovato un accordo.” disse piano Caterina, picchiettando la punta delle dita sul tavolo e guardando di traverso Gaspare Sanseverino.

L'uomo, che era trasecolato, quando gli era stato ordinato di presentarsi alla rocca di Ravaldino, aveva poi ripreso velocemente confidenza con la Sforza e, appena lei gli aveva chiesto di raggiungerlo nella sala dei banchetti, l'uomo si era presentato senza fare una piega.

La Tigre aveva preferito quel locale informale al solo scopo di non dare troppo risalto al loro incontro, ma evitando anche orecchie indiscrete. Vederlo in privato nello studiolo del castellano le era parso troppo, ma anche incontrarlo in un'osteria sarebbe stato fuori luogo.

“Sì, ma voglio l'assicurazione che il Moro mi restituisca Piadena nel momento stesso in cui accetterò di nuovo una condotta da lui.” precisò Fracassa, circondando il suo calice di coccio con una mano e grattandosi la nuca con l'altra.

La donna, a quella richiesta, rivolse uno sguardo interrogativo a Giovanni da Casale, che, seduto tra lei e il Sanseverino, aveva fatto da mediatore per tutto il tempo, esattamente come da richieste del Duca di Milano.

“Credo che il Moro non avrà nulla da ridire, su questo punto.” si azzardò a dire Pirovano, sperando che, una volta tanto, Ludovico Sforza non si dimostrasse politicamente ottuso.

“E va bene. Allora farò come mi dite. Ma ci sarebbe anche un'altra cosa...” Gaspare sembrava improvvisamente teso e quando risollevò lo sguardo verso la Leonessa, lo fece con una certa ansia in corpo: “Ecco, l'ebreo a cui ho chiesto un prestito vorrebbe un'assicurazione, qualcuno che garantisca per me.”

“Io non potrei garantire nemmeno per me stessa.” mise subito in chiaro la Contessa: “Potete chiedere a lui – proseguì, indicando Giovanni – di farvi scrivere due righe da mio zio Ludovico, ma non aspettatevi di più.”

Fracassa, rendendosi conto di aver tirato troppo la corda, si passò la lingua sulle labbra e poi, alzandosi un po' frettolosamente, si scusò: “Perdonatemi, mia signora. Vi ho già rubato abbastanza tempo... Vi ringrazio ancora e... Allora restiamo d'accordo come detto.”

Caterina annuì, osservando distrattamente come la mano del Sanseverino continuasse a correre alla gamba che si era ferito assistendo a un torneo. Era comico, pensare che un uomo del genere fosse stato colpito da un pezzo di lancia mentre era comodamente seduto in platea, dopo essere scampato per anni al ferro dei suoi tanti nemici.

Appena Gaspare si fu congedato anche da Pirovano e, con passo un po' incerto, ebbe attraversato tutta la sala dei banchetti fino a uscirne, la Sforza sospirò e si abbandonò allo schienale del suo scranno, facendo segno a Giovanni di versarle da bere.

Mentre il soldato faceva quel che gli stato silenziosamente chiesto, la Tigre scosse il capo e borbottò: “Non capisco mio zio. Se crede di difendersi da re Luigi raccattando qualche condottiero vecchio e scontento, allora che a Milano si preparino a parlare tutti francese.”

La sala dei banchetti era tranquilla e, a parte Caterina e Pirovano, c'erano solo un paio di guardie che erano arrivate per bere un calice di vino fresco per combattere la calura di quella mattina di giugno. Nessuno dei due soldati, tra l'altro, pareva essersi accorto del siparietto tra la padrona di casa e Fracassa.

“Credete davvero che i francesi vogliano invadere Milano?” chiese Giovanni, guardandola mentre svuotava in due sorsi il bicchiere.

“Così come credo che il papa voglia invadere le mie terre.” affermò la Sforza, con tono d'ovvietà.

“Be', è vero che ci sono dei maneggi, sul confine con Milano, ma invadere il Ducato equivarrebbe a trovarsi contro l'Imperatore...” fece Pirovano, poco convinto: “Credete davvero che re Luigi lo farebbe?”

La Tigre incrociò le braccia sul petto, un'espressione dura e un po' incredula sul viso. Non capiva come quell'uomo, che aveva sempre vissuto in mezzo alle armi, potesse essere in quel frangente così ingenuo. E poi non capiva nemmeno perché continuasse a darle del 'voi' anche ora che si era trasferito alla rocca con lei. Non gli aveva nemmeno dato una stanza di facciata. L'aveva lasciato dormire al suo fianco nella stanza che un tempo condivideva con il suo terzo marito, lasciando la tana vacante.

Inconsciamente, forse, l'aveva fatto per sé, come per dirsi che Pirovano era la sua occasione per tornare ad avere un uomo solo e dare una regola alla sua vita privata. Un po', però, l'aveva fatto anche per lui, per fargli capire che era importante e che gli stava offrendo un ruolo che tutti gli altri suoi amanti passeggeri si sarebbero visti negare. Nemmeno a Ottaviano Manfredi aveva dato il permesso di stare in quella camera, tanto meno di averla sullo stesso letto in cui l'aveva avuta Giovanni Medici.

Eppure lui, malgrado quella concessione che per Caterina equivaleva a una compromissione totale, continuava a darle del voi, come se il rapporto tra loro fosse rimasto quello tra un Capo di Stato e un soldato.

“L'Imperatore ha voltato le spalle a mio zio da anni. Quando re Luigi invaderà Milano, Ludovico si troverà solo. Ha fatto il vuoto attorno a sé.” sospirò la donna, cercando di non pensare alla confusione della sua vita privata, concentrandosi su quella che dominava la politica internazionale.

Pirovano deglutì e poi, sollevando un po' il sopracciglio, commentò: “Sarà un duro colpo, allora, per lui, sapere che anche io l'ho abbandonato.”

“Prima facciamo quello che ti ha chiesto di fare, poi, quando avrai portato a termine i tuoi compiti, vedremo di fargli digerire nel miglior modo possibile quello che vedrà come un tradimento.” disse piano la Contessa, sperando di rinfrancare il suo amante, ma riuscendo solo a metterlo ancor più in agitazione.

 

Bartolomeo diede di sprone al suo cavallo per non dover più sentire le parole del suo attendente che, per quanto mosso da un sincero desiderio di aiutarlo, cominciava a essere un po' pesante.

Lasciare Todi pochi giorni dopo esservi arrivato era per l'Alviano uno smacco, ma non poteva fare altro. Si era reso conto subito che i Chiaravalle avrebbero subito avuto ragione di lui, se si fosse ostinato a combatterli immediatamente. Doveva fare come lo stesso Giampaolo – pur nella sua ottusità – gli aveva consigliato: andare a Roma e cercare l'appoggio del papa.

Si trattava di qualcosa che il condottiero non avrebbe voluto fare, ma era indispensabile, per lui.

Si era sentito un codardo, a lasciare Pantasilea a Perugia, ma era stato sollevato almeno al pensiero che anche Giampaolo stava lasciando la città e che quindi, almeno, sua moglie avrebbe avuto qualche settimana di pace. I Baglioni si stavano preparando a sollevarsi assieme a lui e il cognato si era personalmente impegnato per trovare agganci coi Vitelli di Città di Castello. A Bartolomeo restava il trovare un contatto con gli Orsini ed esporre i suoi bisogni al papa.

La frangia Guelfa che avrebbe difeso gli interessi pontifici a Todi, secondo l'Alviano, doveva essere la chiave di lettura da dare a quella campagna militare per ottenere il benestare e l'aiuto di Alessandro VI.

Aveva sentito dire che il Santo Padre si stava concentrando di più su quanto accadeva Oltralpe che non in Italia, ma era certo che, punto sul vivo, avrebbe accettato di spendere un po' di tempo ed energie anche per quell'impresa.

“Mio signore...” fece l'attendente, riuscendo a riaffiancare Bartolomeo: “Vi prego, datemi ascolto, lasciate che vi spieghi come...”

L'Alviano sollevò una mano, imperioso e lo fece tacere di nuovo. Quel soldato voleva dargli lezioni di diplomazia, ma non sapeva che il suo signore aveva già un piano molto preciso. Si trattava di pungere sul vivo il Borja, che, a detta di tutti, aveva una debolezza più grande di tutte le altre: sua figlia Lucrecia.

Anni prima, mentre con Bartolomea fantasticava su come annientare i Borja uno dopo l'altro, il condottiero era arrivato a una conclusione molto semplice: per far cedere il papa su qualcosa, bisognava toccargli i figli.

Se prima, però, l'idea che lo tormentava era distruggere il pontefice, e quindi la soluzione era uccidergli almeno i due figli maschi più vecchi, adesso l'obiettivo era averne le attenzioni e la benevolenza, e quindi era la lusinga, l'arma da utilizzare.

“Pensa a controllare la coda della colonna.” disse, a mezza bocca l'Alviano, guardando di traverso il suo attendente: “Alla politica ci penso io.”

 

Il sole di metà giugno entrava con arroganza dalla finestra e Caterina guardava in silenzio la schiena dritta e forte di Giovanni da Casale coprirsi di ombre e sprazzi di luce, in un gioco di colori che la rapiva.

Era coricato accanto a lei, prono, il viso voltato dall'altro lato e dormiva ancora. Quella notte gli aveva lasciato poco tempo per riposare e, anche quando finalmente gli aveva dato tregua, l'aveva comunque risvegliato poco dopo per colpa di un incubo che l'aveva portata a gridare il nome di Ludovico Marcobelli nel sonno.

Quindi, anche se l'alba era passata da un po', la Sforza non se la sentiva di disturbarlo di nuovo, preferendo restare lì a fissarlo, la mente libera da tutto.

La Contessa si teneva addosso solo il lenzuolo, anche troppo pesante, per il calore di quella mattina che preludeva a un'estate di fuoco. Il letto che aveva accolto così tante volte lei e il Medici era soffice sotto il suo peso e accogliente. Non avrebbe creduto possibile, poi, che le sarebbe risultato così naturale avere un uomo diverso dal suo Giovanni proprio in quella camera. L'aveva già fatto una volta, con il ragazzo del postribolo che ogni tanto chiamava alla rocca, ma con Pirovano la cosa era diversa.

Gli aveva fatto spazio per le sue cose, gli aveva permesso di mettere i suoi vestiti nella cassapanca e gli aveva anche concesso di lasciare detto al suo attendente dove fosse alloggiato di preciso, in caso avesse avuto bisogno di contattarlo con urgenza.

Giovanni da Casale era completamente scoperto e questo permetteva alla Tigre di osservarlo interamente, come se, dopo tanto tempo passato lontani, avesse l'occasione di cominciare a conoscerlo di nuovo, imparandone a memoria ogni dettaglio.

Colta da un desiderio improvviso di sfiorarlo, calcolato che ormai l'ora era abbastanza avanzata, Caterina allungò una mano e la posò sulla pelle calda dell'uomo. Passò in rassegna la linea decisa dei muscoli e poi scese fino alle natiche, tornando su fino alle spalle. Il soldato si mosse un po', segno di un suo prossimo risveglio e così la Leonessa gli si avvicinò di più, stringendolo a sé, e cercando il suo collo con le labbra.

Quando riaprì gli occhi, Pirovano capì subito cosa l'avesse destato e, nel sentirsi il corpo di Caterina premuto addosso, si disse che non avrebbe potuto esserci risveglio migliore di quello.

“Ho dormito troppo...” disse subito lui, trattenendo uno sbadiglio, vedendo la luce che illuminava la camera.

“Se per una mattina ce la prendiamo con calma, non cadrà il mondo.” ribatté la Sforza, facendolo girare sulla schiena, per poterlo fronteggiare meglio: “Dobbiamo poterci prendere anche i nostri spazi, finché possiamo.”

Pirovano sollevò le sopracciglia e sussurrò, dopo aver accettato un bacio dalla donna e averla lasciata scivolare sopra di sé: “Parlate come se avessimo poco tempo a nostra disposizione. Avete già cambiato idea? Avete intenzione di cacciarmi?

“Tu non te ne andrai mai più da qui.” mise in chiaro la Contessa, afferrandogli il viso tra le mani, in un gesto che aveva più una sfumatura di minaccia, che non di affetto: “Tu resterai con me.”

L'uomo sorrise e annuì, gli occhi scuri illuminati da una felicità difficile da mascherare. Malgrado tutto, quello era l'unico posto in cui voleva stare, quella l'unica donna che voleva amare. Se ciò sarebbe equivalso a perdere la faccia con il Moro o a votarsi a una causa persa, l'accettava con serenità.

“Oggi faremo la rassegna delle truppe, così poi potrai scrivere a mio zio.” proseguì Caterina, parlando con tono più formale, come faceva sempre, quando si occupava di affari di Stato: “E poi discuteremo il tuo ruolo all'interno del mio governo.”

Giovanni annuì, già pronto ad alzarsi da letto e far cominciare quella giornata dal risveglio tardivo, ma prima che potesse anche solo muovere un dito, si rese conto che prima di dedicarsi agli impegni quotidiani, la sua amante pretendeva ancora qualcosa da lui.

Rispondendo al suo assalto improvviso con una prontezza che strappò una risata alla Tigre, il soldato si chiese se non fosse anche per quello, che la sua donna si sceglieva sempre amanti giovani e prestanti: con un vecchio, pensò, difficilmente avrebbe potuto pretendere certi ritmi.

Quando finalmente Caterina non ebbe più nulla da pretendere da Pirovano, i due si prepararono, vestendosi in modo abbastanza leggero, vista la giornata di sole, e andarono nelle stalle per prendere due cavalli.

Avrebbero potuto benissimo andare al Quartiere Militare a piedi, ma la Sforza era dell'idea che mostrarsi in sella desse un'aria più autorevole e che, di conseguenza, anche la rassegna sarebbe stata più ordinata e soddisfacente.

Mentre aspettava che il suo stallone venisse sellato, la Contessa chiese a Giovanni di aspettarla un momento e andò a cercare Galeazzo che, a quell'ora, doveva essere con il suo precettore.

Lo trovò, infatti, nella sala delle letture, immerso in una dissertazione sui filosofi latini che, era chiaro fin da un primo sguardo, lo stava mettendo in seria difficoltà. Forse, pensò la madre, avrebbe potuto lasciarlo ai suoi libri, dato che anche l'istruzione era una pietra d'angolo, per un uomo di potere, ma una rassegna non l'aveva mai vista, quindi non poteva privarlo di quell'esperienza.

“Vieni con me...” gli disse, stando sulla porta e poi, rivolgendosi al precettore, spiegò: “Recupererà la lezione di oggi domani.”

Il Riario, euforico all'idea che la madre fosse andata a cercarlo appositamente per portarlo con sé da qualche parte, la seguì senza fare domande fino sulle scale dove, quasi scontrandosi con lui, si imbatterono in Bernardino.

Il bambino portava in mano qualcosa e le grida che seguirono appena dopo fecero capire alla Tigre di cosa si trattasse ancor prima di vedere con i suoi occhi la refurtiva.

“Carlo!” stava chiamando una delle serve di cucina: “Ridammi immediatamente quel panetto di burro! Carlo!”

Solo quando intravide la Sforza, la cameriera si zittì, sbiancando, temendo di vedersi rimproverare sia per aver rincorso con il mestolo in mano uno dei figli della sua signora, sia per non essersi rivolta a lui con il rispetto dovuto, sia per averlo chiamato con il suo secondo nome. Anche se in città, così come tra la servitù, Bernardino era ormai noto più con il nome di Carlo, tutti sapevano che la Contessa non amava sentirlo chiamare a quel modo.

“Ridai subito quel burro alla cuoca.” ordinò, con voce bassa e perentoria Caterina, bloccando il figlio, tenendolo per la collottola.

Il ragazzino, colpevole, abbassò lo sguardo verso il maltolto e poi, dopo aver incrociato gli occhi del fratello Galeazzo, che, pur non parlando, lo stava rimproverando tacitamente, allentò la presa sul panetto e allungò le mani per ridare il burro alla serva.

Questa, con cautela, salì i gradini che la separavano dalla Leonessa e dai suoi figli e riprese il pacchetto, ringraziando con un cenno del capo e andandosene all'istante.

“Che ti salta in mente?” chiese la Sforza, lasciando il colletto di Bernardino, ma inchiodandolo sul posto con lo sguardo: “E poi che te ne saresti fatto, di quel burro?”

Il Feo si morse l'interno della guancia e poi sollevò le spalle, ammettendo: “Nulla.”

“Ti piace davvero così tanto cacciarti nei guai?” chiese, retorica, la madre, massaggiandosi la fronte.

Siccome il piccolo pareva abbastanza mortificato per quell'incidente, e poiché Giovanni da Casale la stava ancora aspettando nelle stalle, la donna decise di lasciar perdere.

Con uno sbuffo, disse: “Corri dal castellano, oggi lo aiuterai a fare il suo lavoro. Digli che ti mando io e che stasera, a cena, voglio che mi riferisca come ti sei comportato.”

Bernardino annuì, incassando il colpo, ma, quando vide la madre e il fratello andare avanti a scendere le scale, non riuscì a trattenersi dal chiedere: “Dove state andando?”

Galeazzo avrebbe risposto volentieri, ma in realtà la Leonessa ancora non gli aveva spiegato dove avesse intenzione di portarlo.

“Stiamo andando a passare in rassegna le truppe.” rispose Caterina, senza guardarlo.

“Posso venire anche io?” chiese, con un velo di speranza, il ragazzino.

La madre fu tentata di dirgli di sì, ma poi, quando gli dedicò un'occhiata di striscio, scorse in lui la stessa espressione che spesso aveva offuscato anche il viso di Giacomo. Quella richiesta era nata solo dal desiderio di rendersi importante ai suoi occhi, non per un reale interesse.

Così, pur con un piccolo pungolo al cuore, la donna scosse il capo e, con durezza, ribadì: “Corri dal castellano e fai quello che ti ho detto di fare. Dovevi pensarci prima di combinare una delle tue solite bravate. Se non impari a controllarti, non andrai mai da nessuna parte, Bernardino.”

Lasciandosi alle spalle il figlio nato dal suo grande amore, senza avere né la forza né la prontezza di offrirgli almeno un gesto di affetto o se non altro di gentilezza, tanto per smorzare la freddezza di poco prima, la Contessa andò a passo spedito verso le stalle, seguita da Galeazzo.

“Sellagli quello.” ordinò allo stalliere, indicando un grosso cavallo da guerra.

“Siete sicura che sia adatto a lui?” chiese cauto Giovanni da Casale, squadrando prima il Riario e poi la bestia, trovandoli troppo sproporzionati.

La Leonessa scosse il capo: “Mio figlio deve imparare a stare in sella a cavalli del genere, se un giorno prenderà il mio posto. Quando andrà in guerra, dovrà essere a suo agio, sia con le armi, sia con la cavalcatura o non sopravvivrà abbastanza da poterlo raccontare.”

Mentre la madre e il milanese si scambiavano quelle battute a voce bassa, Galeazzo li osservava in silenzio, a debita distanza. Era felice di poter portare un cavallo da guerra, e sapendo di dover andare solo fino al Quartiere Militare, non era nemmeno troppo spaventato dal non essere in grado di guidarlo.

Ciò che lo rese pensieroso fu altro. Era il modo in cui la Tigre e Pirovano si rivolgevano l'uno all'altra, il loro stare vicini, senza toccarsi, ma dando l'impressione di volersi sfiorare di continuo. Il modo particolare in cui si guardavano, l'insistenza con cui indugiavano l'una sull'altro, la mutua complicità che aleggiava tra loro, erano tutti dettagli che al ragazzo non sfuggivano e che gli davano una strana vertigine.

Quando il cavallo fu pronto, la piccola comitiva uscì, diretta al Quartiere Militare. La rassegna si svolse in modo semplice, ordinato e preciso. Galeazzo, con grande orgoglio della madre, si era messo in mostra facendo personalmente la rassegna dell'artiglieria ed elencando dettagliatamente ogni bocca da fuoco in dotazione all'esercito.

Giovanni da Casale lodò pubblicamente i soldati della Sforza e si disse molto colpito – anche se non era per lui una novità, avendo già vissuto a Forlì e avendo già conosciuto alcune riforme igieniche ideate dalla Contessa – del piano messo in atto per ridurre il rischio di epidemie.

“Obbligare a bagni regolari i soldati – aveva detto un po' pleonasticamente, mentre lui, la Sforza, Galeazzo e Mongardini e un altro paio di Capitani si avviavano verso le baracche per il controllo finale dello stato del Quartiere Militare – trovo sia un ottimo modo per scongiurare molti problemi di salute.”

“E anche per evitare alla nostra signora di far entrare nel suo letto qualcuno con i pidocchi...” era stato il commento, detto a mezza bocca, ma senza cattiveria, da uno dei Capitani che li seguivano.

Avevano sentito tutti, ma l'unico che diede mostra di essersene accorto fu Mongardini che, con un'occhiata assassina, sollevò appena l'indice in segno di ammonimento.

Giovanni da Casale cercò, invece, di non dar peso a quanto sentito e, come nulla fosse, andò avanti nelle sue lodi fino a che la visita al Quartiere non fu terminata.

“Bene, se permettete, vado subito a scrivere la lettera promessa al Duca.” fece Pirovano, una volta che furono tornati alla rocca.

“Aspettami in camera.” gli sussurrò Caterina, che voleva dirgli qualcosa prima di scendere a cena in merito alla battutaccia fatta dal suo Capitano.

Sapeva benissimo che Giovanni era al corrente dei suoi trascorsi e della sua liberalità, ma voleva comunque provare a stemperare la questione. Gli avrebbe spiegato che farlo tornare a Forlì era stato proprio un tentativo di cambiare, da parte sua, e che, con lui accanto, avrebbe cercato di non passare più da un amante all'altro con la facilità che aveva avuto fino a poco prima.

Appena l'uomo annuì e sparì, lasciando alla Tigre e a Galeazzo il compito di riportare anche il suo cavallo nella stalla, il Riario chiese alla madre: “La rassegna è andata bene?”

“Direi di sì. E tu sei stato molto bravo.” lo gratificò lei, con un sorriso un po' tirato, ma che al figlio bastò per sentirsi fiero di se stesso.

Dopo aver lasciato le bestie agli stallieri, usciti di nuovo in cortile, il ragazzino le domandò, a voce bassa, la bocca che si seccava un po': “Lui resta?”

Caterina non ebbe bisogno di chiedere quale fosse il soggetto di quella frase, ma si concentrò molto di più sul tono con cui era stata posto il quesito. Era anche chiaro che Galeazzo avesse capito anche troppo bene che tipo di relazione ci fosse, tra lei e il soldato. Dunque, voleva capire quale fosse la disposizione del figlio verso Giovanni, ma non era facile.

“Sì, lui resta.” asserì, rapida.

Il ragazzino deglutì e poi, con un cenno del capo, prima di separarsi dalla madre, ribatté: “Ne sono felice.”

La Leonessa andò verso la propria camera con il cuore più leggero, dopo quel benestare datole dal figlio. Arrivata alla porta, non bussò ed entrò subito, ben decisa sia a parlare a Pirovano di quel che le aveva detto Galeazzo, sia a giustificarsi riguardo la battuta del suo Capitano.

Invece, appena entrò, fu Giovanni a parlare, tacitandola: “Il vostro esercito è invidiabile, Caterina...” disse lui, seduto alla scrivania e intento a scrivere.

Vederlo su quella sedia, accanto ai libri che erano stati del Medici, in mano la stessa penna che anche il fiorentino aveva stretto tra le dita, diede uno strano brivido alla Tigre.

Tuttavia, sentendo quelle parole, fu tentata di ringraziarlo, non pensando ad altro, senonché quello che il soldato disse dopo la raggelò.

“Ma anche se dieci dei vostri uomini ne valgono cinquanta dei loro – fece Pirovano, tanto serio da spaventarla quasi – dovete tener conto che per uno dei vostri, ne arriveranno non cinque dei loro, ma cinquanta, cinquecento, cinquemila... Come credete di poter vincere contro la Francia e Roma con solo questi uomini?”

La Contessa si andò a sedere sul letto e ammise: “Infatti non penso di poter vincere. Solo di poter resistere un po' di tempo.”

“E perché?” chiese Giovanni, voltandosi verso di lei, la fronte aggrottata e gli occhi spersi.

“Per cercare di mettere in salvo i miei figli e per preservare il rispetto dovuto al nome che porto. Io sono una Sforza, e gli Sforza non scappano.” spiegò lei, sorvolando su come fino a poco tempo prima, fino alla morte di Manfredi, il suo progetto invece fosse stato proprio quello di mettersi al sicuro e godersi quel poco che la vita ancora poteva offrirle: “Mio zio Ludovico sta già scappando, lo dimostra ogni giorno. Invece di organizzare le difese, si perde in cose che non hanno alcun senso, fa digiuni, scappa in campagna, paga artisti che gli dipingano quadri... Io, invece, sono figlia di mio padre. Ho il sangue dei miei nonni nelle vene e, come loro, io non mi arrendo. non posso scappare, non voglio. Preferisco mille volte morire in battaglia, con la spada in mano, in mezzo ai miei soldati, con il suono dei cannoni che mi rimbomba nelle orecchie e l'odore del sangue dei miei nemici nelle narici, piuttosto che avvelenata come una cortigiana, giustiziata come una traditrice o da vecchia nel mio letto.”

L'uomo la stava ascoltando in silenzio e, quando capì che l'arringa era finita, sospirò: “E io, quindi, dovrei combattere fino alla morte, accanto a te.”

“Non te lo sto chiedendo.” si schermì subito lei, quasi non accorgendosi di come Giovanni fosse passato a darle del tu con una naturalezza disarmante solo quando erano arrivati a parlare seriamente della guerra che sarebbe arrivata e della fine a cui si stavano entrambi votando: “Se vorrai, potrai andartene. Non ti tratterrò.”

Pirovano chiuse un momento gli occhi e poi, con un sospiro fondo, scosse il capo: “Anche io sono un soldato e hai ragione. Morire in battaglia è l'unica morte che gente come noi può accettare.”

Caterina deglutì, ricacciando indietro un paio di lacrime di commozione per quella dichiarazione, che per lei valeva come una dichiarazione d'amore. Si alzò e, senza dir nulla, gli si avvicinò e gli diede un profondo bacio sulle labbra, dandogliene poi un altro, più leggero e quasi sfuggente, sulla fronte.

Andò alla porta e, con la voce ancora un po' rotta, disse: “Vado dal castellano a sentire come si è comportato Bernardino. Porto qui del vino e qualcosa da mangiare, se sei d'accordo...”

Giovanni annuì e, dopo averla guardata per tutto il tempo mentre usciva, tornò alla sua lettera. Si rimise a scrivere, come nulla fosse, ma nel suo petto il cuore tremava come una foglia e le gambe si erano fatte molli.

Non mentiva, quando diceva che per un soldato come lui la morte in battaglia era l'unica morte degna, ma pensarci davvero l'aveva spaventato. Sapeva che non mancava molto, alla prossima guerra e all'improvviso gli anni di vita che si portava sulle spalle, gli parevano veramente troppo pochi.

Si premette una mano sugli occhi e poi, come se bastasse a tacitare ogni sua paura, si disse che Caterina sarebbe stata al suo fianco fino alla fine. Era l'unica cosa che contasse qualcosa. L'unica.

 
 
   
 
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